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giovedì 17 maggio 2012

SUICIDI DI STATO?



Negli ultimi tempi piccoli imprenditori in difficoltà, artigiani e disoccupati senza alcuna prospettiva si sono tolti la vita. In tanti. Eventi luttuosi e tragici, che addolorano, che fanno riflettere.
Fatti simili sono sempre avvenuti, in passato. Certo, in minore quantità, ma soltanto di poco. In questo particolare momento tuttavia c’è stata, rispetto a tali accadimenti, una rumorosa amplificazione, condotta dai giornali e dalla televisione, dalla politica. Sono stati definiti suicidi di Stato ravvisando, in tal modo, una diretta responsabilità da parte delle istituzioni. Che non solo non sono state in grado di tutelare i cittadini, ma ne hanno provocano addirittura la morte.
Forse si tratta di esagerazioni, di vergognose strumentalizzazioni; in ogni caso è necessaria una valutazione più ponderata, per riportare tali drammatiche vicende alla loro reale accezione, per sgombrare il campo da pericolosi fraintendimenti.
La crisi economica sta stringendo sempre più le società occidentali in una morsa crudele. Le prospettive future sono nebulose, non si riescono ad ipotizzare tempi certi rispetto a una possibile ripresa, manca la speranza. I cittadini, ormai del tutto consapevoli della gravità della situazione, giorno dopo giorno si impoveriscono sempre più. Qualcuno tra loro si ritrova sempre più ai margini, spesso sulla soglia di uno stato di indigenza che fa paura, che atterrisce e può spingere a gesti sconsiderati. Come il suicidio.
Nessuna scelta è così personale come la decisione di togliersi la vita. Implica l’assunzione di una responsabilità elevata al massimo grado, assoluta. Un’opzione tra esistere e non esistere. Anche il tormento e la sofferenza che sempre precedono tale scelta sono elementi del tutto individuali, mai condivisi, neppure con i più stretti congiunti. Nulla traspare prima del folle gesto, e tale aspetto annienta i familiari, che niente hanno percepito, che non hanno avuto la minima possibilità di aiutare il loro caro.
Perché, allora, insistere nel definire tali tragedie suicidi di Stato o, ancor peggio, omicidi imputabili allo Stato?
Alcune asettiche considerazioni: l’attuale governo ha fatto il possibile (sebbene a volte in maniera criticabile e discutibile) per fronteggiare una situazione economica quasi disperata. Sono stati assunti provvedimenti molto duri, a volte anche iniqui, ma non esistevano altre alternative Poi occorre dire che le tasse, da sempre, sono state incassate dallo Stato. Attraverso strutture di esazione che adesso si chiamano Equitalia e concessionari locali, che un tempo avevano un’altra denominazione ma sempre la medesima funzione. Così come ci sono sempre stati imprenditori in difficoltà e lavoratori disperati.
Perché adesso tutto ciò ha assunto una maggiore risonanza? Perché si arriva a criminalizzare Equitalia, cioè lo Stato?
Certo, la crisi. Il progressivo impoverimento di quasi tutte le classi sociali. Il cinismo delle banche che, invece di elargire credito, preferiscono operare sul mercato finanziario. La stanchezza. Le maggiori rinunce. L’assenza di prospettive. Le preoccupazioni per il futuro dei figli. Il fallimento. Tutte motivazioni importanti ma, ci si domanda, tali da spingere una persona a rinunciare alla vita?
In ogni caso, se proprio vogliamo addossare responsabilità, perché non chiamare in causa il precedente, indegno governo? Che ha sottovalutato la crisi economica, l’ha sminuita, e ha contribuito in tale maniera a rendere i suoi effetti più devastanti. Purtroppo è onesto affermare che, tra i tanti che hanno sostenuto sia quell’esecutivo che quelli - allo stesso modo irresponsabili - che lo hanno preceduto, forse ci sono tanti imprenditori che adesso si trovano in difficoltà, vittime oltre che della congiuntura economica anche di un’illusione pagata a caro prezzo.
Colpa di tanti, dunque, sebbene non di tutti.
Le tragiche morti di questi tristi giorni da attribuire quindi a una responsabilità non soltanto individuale, ma collettiva. Ma è bene non cullarsi in tali ingannevoli tesi, colme di perversi effetti distorsivi.
È meglio limitarsi a un unico stato d’animo, al solo sentimento che dovrebbe essere consentito di esprimere di fronte a tali dolenti episodi, quello dell’umana pietà.

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