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lunedì 28 maggio 2012

MAGNÌN E IL FURTO NELLA CHIESETTA



Un lungo attimo di concentrazione. Uno, due e tre passi, in pieno slancio. Poi la boccia si staccò dalla mano, concluse una traiettoria lunga e tesa e ne andò a colpire un’altra. Piombò addosso alla sventurata prescelta e, con un cozzo secco, la scagliò lontano e ne prese il posto.
“Fermo! Punto e partita!” esclamò Giors, che non riuscì a trattenere l’entusiasmo.
Il suo compagno di gioco, Magnìn, rimase invece del tutto imperturbabile. Lui non sbagliava mai una bocciata. Quindi, perché stupirsi tanto?
I giocatori raccolsero in tutta fretta bocce, pallino, stracci e bacchette. L’intero armamentario, insomma. I volti apparivano stanchi e accaldati e in tutti si poteva scorgere la medesima espressione. Una maschera tragica e disperata, quella di chi da giorni sta vagando nel deserto, trafitto dai raggi incandescenti di un sole implacabile. Di chi si ritrova ormai allo stremo delle forze, con la bocca riarsa e la pelle ustionata. Una smorfia che poco alla volta però si modifica, finché i tratti del viso ridiventano normali, alla vista di quel liquido elemento che rappresenta la salvezza. E da quella gola ormai arida fuoriesce rauco e strozzato un grido di pura gioia: vino!
E vino fu. La solita quantità. Un litro a testa tanto per cominciare. Da assaporare seduti attorno al vecchio tavolo di pietra, all’ombra dell’enorme platano.
Ai quattro giocatori si unì anche Dolfo, il corpulento camionista.
“Dolfo! Oggi non lavori?” domandò Giors, gioviale come sempre. L’altro lo guardò ma non rispose.
“Perché non dice niente?” chiese Sergio, rivolgendosi agli altri.
Luigino scosse il capo, sconfortato.
“Non parla perché non ha ancora bevuto” spiegò.
“Ah!”
Arrivò subito un bicchiere, portato da un trafelato Albino, l’oste. Tutti guardarono Dolfo riempirlo tre volte e, ogni volta, lo videro scolare il vino tutto di un fiato.
“Allora?” lo interrogò Giors, impaziente.
Dolfo scrollò le spalle.
“Il mio camion ha preso una giornata di ferie. Era stanco” disse infine.
Tutti annuirono, seri. Magnìn propose un brindisi in onore del saggio veicolo dell’amico. Si alzarono i bicchieri colmi di vino scuro, si sollevò il bicchierino di liquore alla prugna di Luigino. E subito dopo fu proprio Luigino ad emettere un gemito di dolore.
“Che c’è? Il liquore non è abbastanza forte?”
“Stai male?”
“Ho un tremendo mal di schiena” sibilò tra i denti Luigino.
“Saranno le bocciate.”
“Che dici? Luigino è un puntatore puro!”
“Ungila” propose Sergio.
“Eh?”
“Ti porto io il grasso, lo prendo in fabbrica. Se funziona con il tornio, che tra l’altro è fatto di ferro, funziona anche con te.”
“No! Devi fare degli impacchi con l’acqua arnica!”
Alla parola acqua tutti si zittirono. Sguardi torvi. Dolfo, che aveva pronunciato quel termine proibito, si guardò attorno imbarazzato.
“Scusate…” balbettò. Le sue giustificazioni furono accettate, e la ritrovata armonia fu sancita da un nuovo brindisi. Albino portò altre bottiglie. Il robusto oste era madido di sudore. Si fermò per un attimo vicino al tavolo, e scrutò Luigino con occhio esperto.
“La bacchetta! Hai tolto la bacchetta dal taschino prima di sederti?” disse.
Luigino girò su se stesso e sfilò dalla tasca posteriore dei pantaloni la bacchetta telescopica, quella di riserva. La appoggiò sul tavolo, la osservò a lungo e poi, lentamente, la ripiegò. La schiena non doleva più. Per ringraziare l’oste scolò con gusto, proprio di fronte a lui, il terzo cicchetto di liquore.
“Oggi fa molto caldo” esclamò Giors all’improvviso. “Mi piacerebbe essere sul K2! Lì sì che si sta al fresco!”
“Cos’è il K2?” domandò Sergio.
“Ma come! È la seconda montagna più alta del mondo! Quella dove sono arrivati per primi i nostri, Compagnoni e Lacedelli, qualche anno fa. Pensate, più di ottomila metri!”
“Chi è arrivato secondo? Bartali? È lui il più forte in montagna!” disse Albino, che stava servendo un altro tavolo e non aveva inteso bene. Magnìn e tutta la banda lo ignorarono.
“Però sono andati su con l’ossigeno” disse Dolfo, malizioso.
“Dolfo ha ragione. Per andare in montagna basta avere un buon bastone. E poi, a cosa gli serviva l’ossigeno a quei due? Io lo uso per saldare…” intervenne Sergio.
“Ottomila metri? Con la moto ci avrei impiegato dieci minuti al massimo” disse Luigino.
“Ma è in salita!” lo rimbeccò Giors.
“Dodici minuti, allora.” Luigino era serissimo.
“Hanno barato” intervenne con decisione Magnìn. “Io sarei andato su e giù in un giorno solo. E senza ossigeno, idrogeno o altre diavolerie!”
“Bravo Magnìn!”
“Sei tu l’unico vero montanaro!”
L’atmosfera esaltata che si stava creando fu irrimediabilmente rovinata da Sergio.
“Sapete mica se sul K2 quelli hanno trovato dei funghi? O non era stagione?”
A quel punto non rimase altro da fare se non ordinare un altro giro di bottiglie.
A un tratto si sentì qualcuno gridare. Allarmati, tutti rivolsero lo sguardo in direzione della strada. Videro arrivare di corsa il vecchio Giuàn del Torchio, chiamato così perché possedeva un torchio vinario, e che per tale ragione era rispettato dall’intero paese. L’anziano contadino si lasciò cadere su una panca, esausto. Tutti lo circondarono.
“Da bere! Portate subito da bere!”
Si materializzò all’istante un affannato Albino. Porse al vecchio un bicchiere (un bicchiere!) di grappa. Scambiandola forse per acqua, o forse no, l’altro ingollò comunque il liquido in tre lunghi sorsi. In ogni caso, non fece una piega.
“Accidenti che stomaco!” esclamò Sergio, sbalordito.
“È tutto bruciato, ormai” sentenziò Luigino.
Rifocillato, Giuàn iniziò finalmente a parlare. Anzi, a urlare.
“Hanno portato via tutto! Le immagini, la croce…”
Magnìn gli si avvicinò.
“Dove? Dove hanno portato via tutto?” domandò, dopo essersi acceso una sigaretta senza filtro.
“La chiesetta! Quella di Logna! Ci sono stati i ladri!”
Logna era una frazione del paese, la più distante dal centro, la più isolata.
Magnin dovette allontanarsi, per mettere in salvo i timpani. Il vecchio continuava a gridare come un’aquila.
“Hai avvisato don Felice?” chiese Giors.
Il vecchio contadino strabuzzò gli occhi.
“Sei matto? Sono andato da lui ma stava coltivando l’orto, quando zappa non vuole essere disturbato altrimenti diventa una bestia!”
Tutti i presenti annuirono. Nutrivano grande ammirazione per il sacerdote, e l’affermazione di Giuàn rafforzò ancora di più la loro stima nei suoi confronti.
“E i carabinieri? Li avete avvisati?” Giuàn annuì.
Un po’ discosto dal gruppo, Magnìn stava già indossando gli occhiali scuri, quelli da moto. Completò la tenuta legandosi al collo un fazzoletto rosso, di seta. Anche se faceva molto caldo, era comunque conveniente proteggersi dall’aria.
“Vado a vedere” disse appena fu pronto, cioè nel giro di qualche secondo.
“Vengo anch’io” comunicò Luigino.
“Ma oggi sei in bicicletta” gli fece notare Magnìn.
“Ti vengo dietro.”
Magnìn rifletté un attimo.
“Dietro? Aspetta.”
Si avvicinò alla sua moto, una Itom Sirio, frugò in una delle capienti sacche laterali ed estrasse una fune. Legò un capo al retro del sellino e l’altro al manubrio della bicicletta di Luigino.
“Andiamo” disse, aprendo la chiavetta della benzina e scalciando come un forsennato sulla leva di avviamento.
Luigino montò in sella. Sembrava un po’ malfermo sulle gambe. Troppe prugne, forse.
Albino, il premuroso oste, se ne avvide.
“Non è che voi due ragazzi avete bevuto un po’ troppo?” domandò, con la sua voce sottile che produceva un gran contrasto con il suo grosso corpo.
“Tanto la moto conosce la strada” gridò Magnìn per sovrastare il rombo del motore. Accelerò ancora di più e partì, come al solito, con un’impennata. Lo strattone fu molto violento. Luigino fu scaraventato giù dalla bicicletta, rotolò a terra alcune volte e infine arrestò la sua corsa tra le gambe di uno stupito Dolfo. Tempo alcuni decimi di secondo e già stava russando.
Magnìn, invece, non si era accorto di nulla. Per miracolo la bicicletta era rimasta in piedi e ora seguiva la moto lanciata a folle velocità.
In un baleno Magnìn giunse sul posto. Vide la chiesetta con un attimo di ritardo e pigiò a fondo sul pedale del freno. Urlò a Luigino di fare la stessa la cosa, ma Luigino non c’era. La moto inchiodò di colpo. Il figlio dello stagnino riuscì a controllare la sbandata sulla ghiaia ma subito dopo fu investito dalla bicicletta. Un colpo tremendo. Magnìn, la moto e la bicicletta finirono la loro corsa in un fosso. Magnìn non si scompose, né si domandò come mai Luigino non ci fosse. Pensò che  fosse smontato dalla bici per andare a bere un goccio all’Osteria del Picchio, che era sulla strada. Con calma tirò fuori dal canale prima la moto e poi la bicicletta. L’Itom non aveva un graffio, mentre il veicolo di Luigino aveva una ruota completamente deformata. Si addolorò pensando ai rimproveri che il povero Luigino avrebbe ricevuto dall’arcigna madre. La donna aveva ottant’anni ma comandava il figlio a bacchetta. Tutti temevano la sua ira.
Completamente inzuppato, Magnìn entrò nella chiesetta. Notò che la serratura della porta era stata forzata con molta destrezza. Si sedette su un banco e osservò le pareti. Erano completamente spoglie. Era stato sottratto tutto. Sia le immagini sacre che il grande crocifisso di legno. Sospirò, poi rovistò a lungo nelle tasche bagnate dei pantaloni. Estrasse un pacchetto di sigarette, fradicio, del tutto rovinato. Le cicche erano ridotte in poltiglia. Considerò che la chiesa, priva di tutti gli ornamenti, dovesse essere ritenuta ormai sconsacrata. Allora imprecò e bestemmiò ad alta voce per quasi dieci minuti. Esaurito il vasto e colorito repertorio di invettive, cominciò a spogliarsi. Appese i suoi abiti al piccolo altare di marmo, ad asciugare, e rimase completamente nudo. In fondo, quel povero Cristo che fino al giorno prima stava lì appeso in croce non era vestito molto di più. Era sicuro che non se la sarebbe presa.
Magnìn sentì il rumore di un’automobile. Sbirciò fuori e vide che si trattava dei carabinieri. Il giovane appuntato Varvello scese dall’auto ed entrò in chiesa. Lanciò un urlo disumano e scappò fuori.
“Maresciallo! Maresciallo! In chiesa c’è un uomo nudo!”
Magnìn si alzò in piedi, pronto ad accogliere il maresciallo Sotgiu, sua vecchia conoscenza. Il militare comparve quasi subito. Cercò di nascondere il suo stupore, ma non riuscì a dissimularlo troppo bene.
“Magnìn! Che cosa ci fai qui?” disse.
Il figlio dello stagnino gli andò incontro, una mano alla fronte in un irridente saluto, l’altra in basso a coprire l'attrezzatura.
“Sono passato a dare un’occhiata” disse, tranquillo.
“L’occhiata la sto dando io a te, purtroppo” rispose il maresciallo, squadrandolo. “Allora, come te la passi? Stai lavorando?”
Magnìn si sfilò gli occhiali scuri e scosse il capo.
“No, non ho ancora finito i soldi.”
“Come sarebbe a dire?”
“Si lavora per avere dei soldi. Quando poi si hanno i soldi è inutile lavorare. Comunque il prossimo mese ricomincio.”
“Bravo, bella filosofia! Ah, ricordati di passare in caserma, uno di questi giorni. Mi devi firmare un verbale, quello dell’incidente.”
“Quale incidente?”
“Il penultimo, mi pare…”
“Maresciallo, hai da accendere?” domandò Magnìn.
“Certamente.” Sotgiu tirò fuori una luccicante macchinetta a benzina.
“Hai anche da fumare, per caso?”
Il maresciallo sbuffò e porse a Magnìn un pacchetto di Turmac.
L’altro si servì. Mise una sigaretta tra le labbra, poi ne prese un’altra e la sistemò dietro l’orecchio.
“Per dopo” spiegò. Sotgiu annuì, rassegnato.
“Allora, che ne dici? Del furto, intendo. Chi può essere stato? Zingari?”
Magnìn, avvolto da una nube di fumo blu, scosse il capo con energia.
“Che cosa accadrà alla chiesetta?” domandò al carabiniere.
“Non lo so. Temo che farà una brutta fine. Comincerà a essere frequentata da coppiette, e da vagabondi che la useranno per dormire. Non è neppure troppo vecchia. Alla fine sarà sconsacrata e abbattuta.”
Magnìn annuì. Condivideva in pieno il ragionamento del maresciallo.
“Sai a chi appartengono tutti i terreni qui attorno?”
“No.”
“All’ingegner Nobili.”
“Ah! Vuoi dire Guglielmo Nobili, l’impresario edile?”
“Proprio lui” confermò Magnìn.
“E questo che cosa vuol dire?”
“Vuol dire che l’ingegnere riuscirà finalmente a realizzare il suo progetto, cioè costruire due palazzi. L’unico impedimento finora è stato proprio questa povera chiesetta. Se non ci fosse più…”
“Come fai a sapere queste cose?” chiese Sotgiu, ormai incuriosito.
“Mi è stato detto da amici in Comune…”
“Magnìn! Guarda che ti sbagli. Io e te non abbiamo nessun amico in comune.”
“Mi riferivo al Municipio.”
“Ah!”
“Che cosa ne deduci, maresciallo?” domandò Magnìn con aria furba, mentre schiacciava sotto il piede il mozzicone di sigaretta. Troppo tardi si rese conto di non avere le scarpe. Non gli sfuggì il minimo lamento.
“Vorresti forse accusare l’ingegnere del furto? Sei pazzo?” rispose Sotgiu, leggermente infastidito dall’odore di carne bruciata che si stava diffondendo nella chiesetta.
“Perché non gli vai a parlare?”
“Non ho nessun motivo di ritenere che…”
“Così gli potresti restituire questo, deve averlo perso lui l’altra notte.” E Magnìn porse al carabiniere uno scintillante fermacravatta d’oro, sul quale erano ben visibili le iniziali ‘G. N.’
“L’ho trovato ai piedi dell’altare. Sai, a volte la fretta…”
Il viso del maresciallo si illuminò di colpo. Intascò il gingillo.
“Grazie, Magnìn. Mi sei stato di grande aiuto” disse. “Andremo subito a parlare con l’ingegnere.”
Magnìn sfilò l’altra sigaretta dall’orecchio e, come aveva fatto prima, con un morso staccò il filtro. Poi chiese fuoco e lo ottenne.
“Maresciallo, posso chiederti un favore? In fondo me lo devi.”
“D’accordo, ma questo è proprio l’ultimo.”
“Potete riportare la bicicletta all’osteria di Albino, in paese? Il mio amico Luigino sarà in pensiero. Ah! Non scordarti di lasciare un litro pagato!”
“E tu che ne dici di rivestirti, adesso?”
 “Aspetto ancora un po’. Hai mai provato ad andare in moto con le mutande bagnate?”
Magnìn soffiò una boccata di fumo in faccia a Sotgiu che, tossendo, uscì dalla chiesetta e andò a raggiungere il suo appuntato, che trovò chiuso in macchina, ancora terrorizzato.

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