Eccolo, è lui. È impossibile non
riconoscerlo. Incede nella sala gremita con il suo passo, allo stesso tempo,
pesante e leggero. Il passo di un montanaro, di un uomo che è vissuto sempre in luoghi ripidi,
erti.
Oggi fa molto caldo, un anticipo d’estate,
e allora ha abbandonato la giacca (l’unica che possiede) indossata nelle ultime
apparizioni pubbliche ed è tornato all’abituale abbigliamento. Maglietta nera
sbracciata, pantaloni legati a vita da una grossa cintura di cuoio, scarponcini
da alpinista. Una tenuta che fa risaltare il suo fisico, in apparenza minuto ma
in realtà ancora possente, da vecchio e coriaceo stambecco.
Si può ritenere che Mauro Corona sia un
personaggio in parte costruito oppure, al contrario, che sia invece l’uomo più
genuino del mondo.
In ogni caso, si tratta di una persona
particolare. A suo modo, unica.
È venuto al Salone del Libro per parlare
del suo ultimo libro, “Come sasso nella corrente”. E lo fa ma, come al solito,
finisce per abbandonarsi a numerose e varie digressioni.
La principale novità è che non beve più.
Ha voluto dimostrare a se stesso di essere in grado di smettere, e ci è
riuscito. Naturalmente non esclude di riprendere a farlo, magari la sera
stessa. Dice che il vino (compagno fedele di tutta la vita ma, a volte, anche
spietato traditore) ormai gli impediva di essere pienamente se stesso, lo
conduceva a comportamenti eccessivi e fonte di dolore per chi più gli era
vicino. Inoltre, aggiunge di non volere rappresentare, soprattutto per i
giovani, un modello negativo da seguire. Giovani che, a suo parere, eccedono
con l’alcol, e lo fanno comunque in maniera “sbagliata”, privi come sono di una
educazione al bere.
Il suo ultimo libro è diverso dai
precedenti, ed è una sorta di testamento, che rispecchia la necessità di
sgombrare il campo da tutto ciò che non è stato detto in precedenza. Un
bisogno, una vera e propria esigenza da soddisfare, per evitare di morire senza
essersi fatto conoscere fin nell’intimo. Una professione di verità e di onestà.
In gran parte si tratta quindi di un testo autobiografico. Soltanto nel finale,
ambientato in un vicino futuro, lo scrittore-scultore friulano ricorre all’invenzione.
Corona nel libro parla a lungo della sua infanzia difficile e dolorosa: un
padre-padrone violento, del tutto incapace di dare affetto, una madre oggetto
di tali rabbiose prevaricazioni che dapprima tenta il suicidio portando con sé
i tre figli ancora piccoli. Non riesce a portare a compimento il suo tremendo
intento e subito dopo scapperà di casa per seguire un altro uomo, per lasciare
dietro di sé quell’inferno domestico. Abbandonerà così i figli. Molti anni dopo
farà ritorno, ma i legami familiari saranno a quel punto ormai
irrimediabilmente compromessi, andati perduti. Impossibili da ricostruire.
Inizierà, per tutta la famiglia, un tempo fatto di silenzi e di rancori non
espressi, che non avrà fine e segnerà tutti in maniera profonda.
Corona parla, parla e cita di continuo. Cita
Brodskij, l’amato Borges (“nessuno di noi è necessario”) e riporta anche
Pasolini (“la famiglia è un’associazione a
delinquere”). Corona parla della vanità, sua e di tutti gli scrittori,
di tutte le persone, parla dei suoi limiti, delle sue umane debolezze, delle
sue manchevolezze, si svela e si mette a nudo senza omissioni e ipocrisie (“i
panni sporchi non devono essere lavati in famiglia ma fuori, sotto gli occhi di
tutti…”).
Corona, infine, parla della felicità,
anche se lui la preferisce definire contentezza. La felicità di un individuo, a
suo avviso, comporta sempre l’infelicità di un’altra persona. Come se la
quantità di tale stato d’animo, nel mondo, fosse limitata. Se così fosse, se
lui avesse ragione, questa sarebbe per tutti un’amara e triste verità.
Mauro Corona (1950) – Bibliografia:
§ Gocce di resina, Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2001
§ La fine del mondo storto, Mondadori, 2010 Vincitore Premio Bancarella 2011
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