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giovedì 8 dicembre 2022

ERA D'INVERNO

 


Era d’inverno, quando lo incontrai dal medico. La sala d’attesa, piccola e opprimente, era affollata. Vidi una sola sedia libera, sulla quale era appoggiata una borsa. Un uomo la tolse, e mi fece segno di accomodarmi. Lo ringraziai, spiando appena il suo volto. Intravidi una massa di capelli castani, uno sguardo curioso posato su di me.
“Fa molto caldo” disse dopo un po’.
“Sì” risposi.
“L’attesa purtroppo sarà lunga” aggiunse lui, timidamente.
“Già” dissi, imbarazzata.
Venne il suo turno, poi finalmente il mio. La visita fu breve. Andai fuori e lo trovai sul bordo della strada. Stava aspettando proprio me. Me lo disse quando mi vide, dopo aver gettato la sigaretta che stava fumando.
“Sei a piedi?” mi domandò.
Mi rendo conto che avrei dovuto ignorarlo e tirare dritto, come avrebbe fatto chiunque. Invece il suo tono gentile, il suo lieve sorriso, il colore caldo della voce mi indussero a rispondere.
“Sì, non abito molto lontano” spiegai a quell’uomo sconosciuto.
“Scusa, io sono Marco. Ti posso accompagnare?”
Gli porsi la mano e feci segno di sì con il capo.
“Mirella” dissi. “E sono sposata.”
“Ho una compagna” rispose lui, serio. Ci guardammo per un lungo istante, poi scoppiammo a ridere. Fu uno sfogo di allegria strano, forse inopportuno, eppure nessuno dei due riuscì a frenarlo. Una risata liberatoria. Seguì un momento di imbarazzo, quindi ci incamminammo.
Era d’inverno, anche se non faceva freddo. Soffiava una leggera brezza tiepida, come accade talvolta all’inizio della primavera. Dopo un po’, camminando a passo veloce, iniziammo a provare caldo e ci sbottonammo i cappotti. Non ricordo esattamente di che parlammo durante il tragitto verso casa mia, ma la conversazione non languì mai. Rammento soltanto che lui preferì soprattutto ascoltare, si limitò a interrompermi di tanto in tanto con qualche domanda appropriata, fece qualche precisa puntualizzazione. Riuscì comunque a raccontarmi alcune cose su di sé, tutte piuttosto interessanti.
Giunti davanti al mio portone ci fermammo, stando in silenzio. Nessuno dei due aveva pensato alla circostanza del congedo, non eravamo preparati al fatto che non ci saremmo rivisti mai più. Quell’aspetto della questione ci colse alla sprovvista, ci sorprese. Fu lui il più pronto a reagire, come mezz’ora prima era stato lui a prendere l’iniziativa.
“Se vuoi ci possiamo rivedere” sussurrò con un filo di voce, colto da improvvisa emozione.
“Eh?” esclamai, fingendo stupore. In realtà lui aveva pronunciato le parole che avevo desiderato sentire.
Si passò le dita tra i capelli, più volte, un chiaro segnale di disagio. Deglutì prima di parlare.
“Ascolta, se vuoi ti posso dare il mio numero di telefono. Così, se per caso ti andasse, mi potresti chiamare…”
Scrollai le spalle, fingendo indifferenza. Invece ero preda dell’ansia.
Lui si spostò sotto a un lampione, prese una penna e un pezzetto di carta e scrisse il numero di telefono. Quasi senza guardarmi me lo porse. Lo presi e lo misi in tasca, accennai un saluto con la mano e oltrepassai il portone.
Il giorno dopo lo chiamai, e da allora è trascorso tanto tempo.
Questa sera ho indossato il mio abito migliore. Quello che mi piace di più. E l’ho fatto per me stessa, soltanto per me stessa. È un vestito verde scuro, lungo fino al ginocchio, con le maniche attillate e una profonda scollatura. Le calze sono grigio fumo, le scarpe nere con il tacco alto e sottile. Mi sono truccata con cura, in mattinata sono stata dalla parrucchiera e dall’estetista. Ho fatto di tutto per cercare di essere bella. Mi avvicino al tavolo della cucina, che è apparecchiato con eleganza. Smorzo la luce e accendo una candela. Mi siedo e mi verso mezzo bicchiere di vino bianco. Freddo e secco. E penso.
Era d’inverno, ma nonostante ciò io e Marco riuscimmo a incontrarci parecchie volte. Non sapevamo mai dove andare ma questo, invece di scoraggiarci, contribuì a rafforzare ancora di più il nostro legame. Trascorrevamo ore sulla sua macchina, al freddo, in luoghi appartati. Parlavamo, ci scambiavamo effusioni, a volte ci spingemmo oltre. Oppure ci sedevamo in qualche bar per bere qualcosa di caldo, cauti e sempre vigili, le mani tra le mani, a scambiare sguardi.
Quando arrivò la primavera, la nostra storia prese il volo. Non poteva essere altrimenti. Marco da tempo era in crisi con la sua compagna. La lasciò e si trasferì da suo fratello. Lei non fece molto per trattenerlo. Era libero, ora toccava a me. Mio marito non sospettava nulla. Non sembrava notare i miei ritardi, il mio comportamento diventato stravagante, la mia continua svagatezza. La mia freddezza nei suoi confronti, l’indifferenza. A un certo punto non fui più in grado di vivere nella doppiezza. Confessai tutto. Soltanto in quel momento, dopo l’iniziale incredulità, lui reagì. Lo fece con cattiveria, con estrema meschinità. Fece di tutto per danneggiarmi, per rendermi la vita impossibile. Sia finché continuammo per qualche tempo a vivere ancora insieme, che dopo. Mi resi conto che anche lui non mi amava più. Il mio senso di colpa si attenuò, anche se non scomparve del tutto.
Era d’inverno quando lasciai per sempre lui e la mia casa, portando con me soltanto due valigie. E nessun bel ricordo.
Finisco di bere il vino. Mi alzo. Metto in tavola l’antipasto. Ho preparato degli avocado con spuma di formaggio. Ho diviso in due i frutti tropicali, li ho sfregati con il limone per non farli annerire. Poi ho frullato ricotta e mascarpone, ho aggiunto olio, sale e pepe in abbondanza. Infine ho travasato il composto ottenuto in una terrina e ho riempito gli avocado con questa spuma. Ho cosparso il tutto con erba cipollina fresca. Inizio a mangiare, lentamente, cercando di assaporare ogni boccone. Mentre penso.
Sono andata a vivere con Marco, prima in un incantevole monolocale poi in un appartamento più spazioso. Abbiamo trascorso insieme molti anni felici. Dopo essere diventati amanti diventammo anche amici. Alla fine eravamo soprattutto amici. Era bello condividere tutto con lui, viaggiare in sua compagnia. Era un uomo poco esigente, che mai ha interferito con la mia libertà personale, che per me è tutto. Poco alla volta però il rapporto si è esaurito, giorno dopo giorno si è consumato. Avremmo potuto lasciarci da buoni conoscenti, da amichevoli compagni di vita. Invece non andò così, per causa mia.
Era d’inverno quando iniziò la mia relazione con Fulvio. Lui era un amico di Marco. Lo frequentavamo da solo, perché  la sua compagna non si univa mai a noi quando organizzavamo qualcosa: una cena, un film, uno spettacolo a teatro oppure un concerto. Quella donna, che io conoscevo appena, non amava uscire. Forse non gradiva la mia presenza e quella di Marco.
Ricordo che una sera ero sola in casa, Marco era uscito con qualche amico. Sapevo che Fulvio e Giulia, la sua compagna, erano in vacanza. In Francia, mi pare. All’improvviso fui colta da uno strano impulso. Presi il telefono e mandai un messaggio a Fulvio. Nulla di impegnativo, s’intende, solo un semplice saluto. Lui rispose subito, con parole molto affettuose. E poi continuammo, anche quando lui ritornò. Quel tipo particolare di contatto era ormai stabilito, si trattava di una nuova contiguità che non prevedeva più la presenza di Marco. Cominciammo a vederci spesso, quasi tutti i giorni, all’insaputa del mio compagno. Ci capitava ancora di ritrovarci insieme, tutti e tre, e in quei momenti io e Fulvio dovevamo fingere, dovevamo forzare il nostro comportamento, stare bene attenti a non far trapelare nulla. Dopo un po’ Marco cominciò a sospettare qualcosa, per via del mio atteggiamento distaccato, dei miei silenzi, della mia insofferenza nei suoi confronti. A quel  punto era ormai certo che avessi un amante, anche se non dubitò mai del suo amico. Una triste sera, messa alle strette dopo una estenuante discussione, fui io a confessare tutto. Per Marco fu un vero  trauma. Urlò, pianse e imprecò, completamente annientato. Mi disse che anche lui aveva una storia, con una ragazza straniera che aveva conosciuto sul lavoro. Non credo fosse vero. In ogni caso non mi importava. Implorai Marco di concedermi un periodo di riflessione. Lui oppose resistenza, poi si arrese, benché a fatica, consapevole del fatto che la nostra unione fosse ormai sfasciata, rotta senza rimedio. Andai via di casa. Dapprima mi trasferii da un’amica, quindi in un residence fatiscente. Le telefonate tra me e Marco si diradarono sempre di più. La sua voce, attraverso il telefono, era sempre spezzata, piena di risentimento. Ne aveva tutte le ragioni. Lo avevo tradito e ingannato, forse anche umiliato, eppure non riusciva a farmi sentire del tutto colpevole. Avevo seguito l’impulso del cuore e, anche se avevo rovinato tutto, sapevo bene che la mia condotta, pur detestabile ai suoi occhi, era il frutto di una scelta consapevole: la predilezione di vivere, di assecondare una spinta interiore che non possedeva nulla di razionale, il non rinunciare a vivere una storia appagante.
Dopo un solo mese, trascorso tra angoscia e speranza, tra gioia e incertezza, Fulvio mi lasciò. Non intendeva far soffrire la sua compagna, disse. Preferì il mio dolore.
Era d’inverno quando ciò accadde.
Vado ai fornelli, a rifinire il primo piatto. Ho preparato dei maccheroni alla nizzarda. Ho pelato i pomodori e li ho tagliati a piccoli pezzi. Poi ho affettato delle zucchine a rondelle. In poco olio e burro ho fatto imbiondire schegge di cipolla, ho aggiunto pomodori e zucchine, salato e pepato. Dopo venti minuti di cottura a fuoco lento ho aggiunto delle olive nere snocciolate. Ora non mi resta che scolare la pasta e condirla con la salsa. Lo faccio, e me ne servo una porzione abbondante. Porto il piatto in tavola e riprendo a mangiare. E a pensare.
Era d’inverno quando, pochi anni fa, ho incontrato Giovanni a una festa di compleanno. È lui l’uomo con il quale attualmente divido la mia esistenza. Questa sera, tuttavia, Giovanni non c’è. È andato a giocare a calcetto con i suoi colleghi di lavoro. Poi andranno a mangiare una pizza e di sicuro rientrerà tardi. Lo fa spesso, ma a me non importa. Anzi, assaporo con piena soddisfazione questi momenti di libertà. Perché l’amore tra noi due è durato poco. Unire due solitudini non è stato sufficiente per rendere solida la nostra storia. Ci siamo messi insieme per noia, per stanchezza, per sfinimento. Era normale che finisse in questo modo. In verità non litighiamo mai, perché nessuno dei due ne ha voglia, ci sembra una incombenza troppo gravosa, estenuante. Preferiamo ignorarci e condurre ognuno la propria vita, senza condividere nulla, neppure il letto. Siamo due persone di mezza età con più rimpianti che aspettative.
La pasta era davvero buona, e mi sento sazia. Chissà se riuscirò ad assaggiare anche l’ultimo piatto che ho preparato, gli spinaci gratinati. Decido di sì, poiché di sicuro ne vale la pena. Ho lavato con cura gli spinaci e poi li ho spezzettati. In una grossa padella ho fatto fondere del burro, ho aggiunto gli spinaci e, dopo averli fatti cuocere per alcuni minuti, vi ho unito del parmigiano. Poi ho messo tutto in una pirofila. Adesso la estraggo dal forno, dopo quasi mezz’ora. La gratinatura mi pare perfetta, il profumo è invitante. Mi risiedo e mangio. Mi verso ancora del vino, mi accorgo che ho quasi finito la bottiglia. Mi sento un po’ annebbiata, per nulla euforica, tormentata da mille pensieri.
Era d’inverno quando, un anno fa, mi sono innamorata di Luca. Dopo tanti mesi la mia infatuazione per lui non si è ancora attenuata. Lo incontro tutti i giorni e, per motivi di lavoro, trascorriamo insieme parecchio tempo. Non ho mai avuto il coraggio di rivelargli il mio interesse. Luca non si è accorto di niente, credo. In ogni caso non ha mai accennato a ricambiare il mio trasporto, le mie affettuosità nei suoi confronti. Non è attratto da me, non gli piaccio. Sono disperata e avvilita, spesso scoppio a piangere, come mi accade in questo momento. Sento dentro di me un grande vuoto.
È di nuovo inverno, il mio corpo è percorso da brividi. Mi sento triste e sola.   

lunedì 25 aprile 2022

LIBERAZIONE

 


Si incontrarono nel fienile. Avrebbero potuto farlo nel vicino casolare, che era disabitato da quando, alcuni mesi prima, i nazisti avevano ucciso i proprietari. Tuttavia nessuno dei due aveva trovato il coraggio di farlo. E neppure di proporlo. I campi attorno al podere apparivano incolti e trascurati, avvolti da un’atmosfera di tristezza e di abbandono. Alla morte dei due contadini era seguita la fine di tutto il resto.
Il ragazzo svestì la giubba scura, la piegò con cura e la ripose su una vecchia carriola. Dopo qualche istante anche la ragazza tolse il giaccone e lo gettò sul fieno. Entrambi senza dire nulla. I loro occhi si cercavano, sguardi amorevoli e disperati. Ognuno osservava i movimenti dell’altro. Gesti abituali, conosciuti, compiuti tante altre volte. Quel giorno, però, tutto sembrava diverso. Nell'aria polverosa dell’antica costruzione si percepiva un’inconsueta tensione.
Alla fine fu il ragazzo a rompere per primo quel silenzio, divenuto ormai pesante.
“Per ciò che stiamo facendo potrei essere fucilato” disse, in maniera nervosa. Subito dopo ridacchiò.
“Perché sei venuto, allora?” rispose lei, con tono di sfida.
Lui abbassò lo sguardo, colpito.
“Lo sai bene il perché” rispose.
“Voglio sentirtelo dire.”
Il giovane deglutì.
“Ti voglio bene” mormorò.
La ragazza annuì. Poi, all'improvviso, scalciò un secchio arrugginito e lo mandò a sbattere contro il muro.
“Tu pensi solo a te stesso. Ti rendi conto che anch'io potrei subire la stessa sorte? Cosa credi farebbero i miei compagni se sapessero che mi incontro con te? Mi sparerebbero alla schiena, senza pietà. E avrebbero tutti i motivi per farlo.” Nella voce della ragazza c’era rabbia, ma anche sconforto e rassegnazione.
“La guerra prima o poi finirà” disse lui senza troppa convinzione. Poi fece un passo avanti.
“A quale guerra ti riferisci?” ribatté la giovane. “La mia o la tua?”
“È la stessa. Entrambi lottiamo per un ideale.”
“Il mio è la libertà? E il tuo?”
“È anche il mio” rispose lui.
La ragazza scoppiò a ridere. Una risata amara.
“Non può esistere libertà in assenza di ordine e di disciplina...” cercò di spiegare il giovane.
“Quanto sei ingenuo!” lo interruppe lei. “Stai combattendo dalla parte sbagliata e non te ne rendi neppure conto.” Scosse il capo e agitò i lunghi capelli. Li aveva appena slegati.
Il ragazzo sospirò.
“Entrambi abbiamo fatto una scelta. Non possiamo dire quale sia quella giusta e quella sbagliata. A me pare dissennata la tua. Stai in montagna, insieme a dei ribelli, a dei balordi…”
“Basta!” disse con veemenza la giovane partigiana. Poi la sua voce si addolcì.
“Davvero mi vuoi bene?” domandò.
“Sì.”
“Non ti sembra tutto così assurdo? La nostra situazione, intendo dire.”
Lui si limitò a scrollare le spalle. Quel gesto esprimeva il suo fatalismo.
“Abbracciami” aggiunse la ragazza. Lui ubbidì. Era abituato a farlo, ma non tutti gli ordini che riceveva erano così piacevoli…
In un angolo del fienile c’erano le armi dei due giovani. Due fucili mitragliatori uguali, appoggiati uno sull'altro. Uniti e intrecciati come sarebbero stati di lì a qualche attimo i due ragazzi.
L’estasi e il piacere furono intensi ma di breve durata. Il ritorno alla realtà, alla tragica realtà di quei giorni fu brusco. In più, tra i due amanti c’era qualcosa di non detto, che faticava a emergere.
Fu lei, come sempre, la più coraggiosa.
“Non dobbiamo incontrarci più” disse tutto di un fiato.
Lui la scrutò a lungo, come se volesse imprimere per sempre nella sua memoria i tratti del suo viso, quelle sembianze tanto amate.
“Hai paura?” rispose infine, con un filo di voce. Un tono sommesso, dal quale già traspariva una sensazione di perdita.
“No. Ho riflettuto a lungo, sai. Ho deciso che non voglio più essere toccata da te. Ti voglio bene, ma nello stesso tempo so che le tue mani sono lorde di sangue e questo pensiero mi fa inorridire, provoca in me…”
“Anche le tue lo sono!” disse lui, quasi con rabbia.
“Non si tratta dello stesso sangue” rispose la ragazza. Poi si voltò, raccolse il fucile e uscì dal fienile senza più dire una parola, senza un’ultima occhiata all'amato. Che si era trasformato in pietra.

I primi partigiani fanno il loro ingresso in città all'alba. Marciano in corteo, fieri e determinati. La gente entusiasta accompagna e applaude i liberatori. Si intonano dei canti. Qualcuno spara in aria. Una gioia genuina, contagiosa. È l’inizio della fine di un incubo durato troppo a lungo.
Il ragazzo assiste a tutto ciò con un groppo in gola. Collera, rabbia, frustrazione, senso di sconfitta. Un insieme indistinto di sentimenti gli agita l’animo fin nel profondo. Nessuno di essi riesce a prevalere. È nascosto in una soffitta che si affaccia sulla piazza. La lunga canna del suo fucile sbuca da una feritoia. Inquadra nel mirino ora uno ora l’altro degli odiati avversari. Non sa decidersi, finché non vede lei. Scorge il suo sorriso radioso, la sua felicità. Prende la mira, ma non spara.
Poi si domanda se davvero lui non abbia lottato per una causa sbagliata. Quel pensiero lo tormenta da tempo, gli toglie il respiro.
Sfila il fucile dal pertugio e lo getta a terra. Poi inizia a spogliarsi, lentamente, proprio come faceva prima di fare l’amore con lei, nel vecchio fienile. Osserva la giubba nera tra la polvere della soffitta. Ha deciso che farà l’amore un’ultima volta. Stavolta la sua compagna sarà la morte.
Il ragazzo impugna la pistola e la appoggia alla tempia.

mercoledì 9 febbraio 2022

RAGIONE E SENTIMENTO

 

Appena seduti, ci scrutammo a lungo. Occhi negli occhi. A lungo.
Non è semplice sostenere per tanto tempo lo sguardo di un’altra persona. Quasi impossibile quando si tratta di uno sconosciuto. Oppure di una sconosciuta. Tale esercizio per riuscire richiede, da parte dei due, l’esistenza di un elevato grado di confidenza, esige intimità e complicità.
Eppure io lo stavo facendo, senza alcun timore. Assenza assoluta di smarrimento. In me, e anche in lui.
Il locale che avevamo scelto, per puro caso, era senza dubbio squallido. Nient’altro che un misero bar di periferia. Il primo che avevamo trovato dopo un prolungato girovagare. Stanchi, eravamo entrati e ci eravamo accomodati a un tavolino proprio in fondo, un po’ nascosto.
Oltre a noi due, naturalmente, non c’era nessuno. Perché era un orario particolare, un momento indefinito. Né carne né pesce. Non era mattino, quando gli avventori si precipitano al bancone ordinando brioches, caffè e cappuccini. O panini alla mortadella e un bicchiere di vino bianco, se si tratta di camionisti. Sì, quello sembrava proprio un bar per camionisti, e per  frettolosi operai. Di quelli che mentre azzannano il sandwich buttano un’occhiata distratta ai giornali sportivi, a qualche donna presente nel locale. E poi se ne vanno a lavorare compiaciuti, con lo stomaco pieno e un sorrisino sulle labbra. Un illusorio buon umore destinato a spegnersi presto, appena inizieranno a faticare.
E non era nemmeno l’ora del pranzo, con tutti quei piatti e piattini colmi di cibo di plastica malamente riscaldato che viaggiano tra un tavolo e l’altro in una immensa confusione e che vengono ingurgitati in tutta fretta.
Il bancone era vecchio, rivestito di formica di colore verde chiaro.
Era invece pomeriggio, per esattezza l’ora del tè. Ma in locali come quello nessuno beve tè. Per tale ragione eravamo soli. Il barista, al nostro ingresso, si era sforzato di essere gentile. Però si intuiva la sua fretta. Quella di chiudere, probabilmente, perché considerava la sua giornata ormai conclusa. Di sicuro il suo non era un posto da frequentare la sera. Si percepiva la sua impazienza, la sua voglia di rovesciare le sedie sui tavolini, di passare uno straccio lurido sul pavimento lercio, di rimettere al loro posto bicchieri, tazze, tazzine e bottiglie, e di abbassare finalmente la pesante serranda arrugginita. E invece no, non lo poteva fare, perché noi avevamo avuta la bella pensata di entrare proprio in quel momento cruciale. Quando non ci eravamo fermati al bancone ma ci eravamo diretti risoluti, un po’ furtivi, al tavolino nell’angolo, per un istante avevo letto nei suoi occhi sbiaditi la più limpida disperazione. Un attimo, soltanto un attimo, poi l’uomo si era ripreso, aveva atteso qualche minuto e si era avvicinato a noi per prendere le ordinazioni.
Ci eravamo rifugiati in quel bar non per desiderio di consumare qualcosa, ma perché sfiniti, non tanto nel corpo quanto nell’anima. Ci stupimmo quasi quando l’uomo si accostò. Che cosa voleva da noi quel tipo? Poi recuperammo un lembo di lucidità, ben poca in verità, il minimo necessario per ordinare due caffè. Quando si è colti alla sprovvista si finisce sempre per ordinare un caffè.
Fuori, attraverso la vetrata, vedevamo scorrere un traffico incessante di automobili. Le lame di luce dei fari fendevano lo scuro nascente del pomeriggio invernale.
Ci guardammo. Ancora e ancora, finché un lieve sorriso deformò la linea delle nostre labbra screpolate.
Lui appoggiò la sua mano sulla mia. Mi accarezzò con finta indifferenza la punta delle dita. Poi la spostò sul dorso. I suoi gesti erano incerti e impacciati, perché io stavo immobile, non reagivo e mi limitavo a fissarlo, anche se il mio corpo era percorso da brividi. Mi sistemai meglio sulla sedia. Nel farlo, mi avvicinai di più a lui, sporgendo il busto in avanti. Lui, con l’altra mano, mi scostò una ciocca di capelli. Lo fece in maniera goffa, ma con grande tenerezza. I suoi occhi chiari brillavano febbrili.
Piegai il capo di lato, imbronciai le labbra, cercai di assumere un’espressione che apparisse allo stesso tempo seducente e divertita.
“Che cosa vorresti fare?” domandai.
Mi godetti per alcuni secondi il suo stupore, il suo grande sbalordimento. Sapevo bene che cosa avrebbe voluto rispondere. Sapevo bene che non lo avrebbe fatto. E infatti.
“Non lo so” disse.
La sua mano si era spostata sulla mia coscia.
“Tu sai che cosa voglio” aggiunsi. E lui comprese. Nello stesso momento intesi il suo sconforto, il suo profondo abbattimento. Subito mi pentii della mia affermazione. Troppo diretta, addirittura crudele, ma ormai era troppo tardi.
Colpito, cercò comunque di reagire, facendo ricorso alla sua abituale elegante eloquenza. Una dote che, quando era solo con me, spesso smarriva.
“Un saggio cinese diceva che quando stai per essere travolto dagli avvenimenti della vita ti devi fermare” disse, incerto.
“Non capisco” risposi, anche se non era vero. Lui cercò di precisare, ma era in difficoltà.
“Dobbiamo smettere di correre” disse. “Cerchiamo di congelare questo momento, che dovrebbe essere bello e non doloroso, e riflettiamo. Cerchiamo di usare la ragione, non roviniamo tutto.”
“Il sentimento prevale sempre sulla ragione” dissi.
Lui mi accarezzò la spalla, la massaggiò per alcuni istanti. Poi ritirò la mano, sconfitto. Abbattuto. Annientato. Il suo volto, una maschera di dolore e tristezza.
I caffè, nel frattempo, si erano raffreddati. Li bevemmo lo stesso. Poi lui guardò l’orologio.
“Per te è tardi” disse, con un filo di voce.
“È vero, non mi ero accorta che fosse trascorso così tanto tempo”.
Presi il giaccone e lo indossai, lui fece lo stesso. I nostri gesti erano lenti, sofferti. Andò alla cassa e pagò. Il barista non riuscì a nascondere il suo sollievo. Ci diede la buonasera con eccessivo entusiasmo, e in tal modo si tradì.
Uscimmo fuori, al freddo e al buio. Il gelo autentico era però racchiuso all’interno dei nostri corpi. Fui assalita da un tremendo senso di sconforto. Nessuno dei due parlò per alcuni minuti. Infine ci lasciammo, con un saluto timido, appena sussurrato. Lo osservai sparire nella foschia, il passo trascinato, ingobbito.
Avevo recitato la mia parte, e non avevo potuto evitare di farlo. Era essenziale per conservare la stima nei confronti di me stessa. Tuttavia per lui provavo compassione. Una pena che in breve si trasformò in rinnovato affetto, forse anche qualcosa di più ma che non osavo ammettere. In fondo aveva cercato di essere leale, non aveva tentato di incantarmi. Meritava il mio rispetto.
Avrei tentato di rimediare l’indomani, quando ci saremmo rivisti. Perché era qualcosa a cui non potevo rinunciare. Almeno per il momento…