Ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di
Gianrico Carofiglio, “Il silenzio dell’onda”, al Salone del Libro di Torino.
Durante l’incontro, lo scrittore pugliese - nonché senatore del Partito
Democratico ed ex-magistrato – ha introdotto uno spunto di riflessione molto
interessante per chi segue e pratica la
scrittura. In sintesi ha ribadito il dovere, da parte dello scrittore,
di dire sempre la verità e di non abbandonarsi mai alla falsità. Naturalmente,
affermando ciò, non ci si riferisce all’obbligo di riportare un fatto nella sua
esattezza. Ciò non avrebbe senso, dal momento
che la letteratura - per definizione – è sempre finzione, cioè un qualcosa di
inventato. No, l’onestà di chi scrive riguarda il non omettere, il non
ricorrere a costruzioni, situazioni ed espressioni che risultino ipocrite e
bugiarde.
Riflettendo su questo aspetto del linguaggio scritto ho
ripensato al mio primo romanzo, “Un anno diverso”, da poco pubblicato anche in
formato digitale e che ho tra l’altro presentato proprio alla fiera torinese.
Alcuni lettori, sebbene con gentilezza ed estremo garbo, mi avevano fatto
notare un uso eccessivo di “parolacce”. Insomma, di termini non del tutto
eleganti. Questo piccolo appunto, a suo
tempo, aveva provocato in me non più di un benevolo sorriso. Adesso vorrei riprendere
tale argomentazione e spingerla più in profondità.
Personalmente sono del tutto avverso all’utilizzo, nel
linguaggio verbale e scritto, di epiteti “rafforzativi” del discorso. Ritengo
infatti, con estrema convinzione, che questa abitudine contribuisca in maniera
significativa all’impoverimento del linguaggio stesso e che lo renda misero e
debole. Ricorro a un crudo esempio. La diffusa interlocuzione “cazzo” - tanto di
moda in particolare tra le giovani generazioni - io non la uso mai. Bigottismo?
Moralismo? Snobismo? Nulla di tutto questo. Semplicemente per me non ha alcun
senso l’impiego dell’espressione “che cazzo
vuoi?” quando posso ricorrere al ben più aggraziato “che cosa desideri?” Si tratta, nel primo caso, di un vero e proprio
schiaffo linguistico, del tutto indegno di una persona mediamente colta.
Ovviamente potrei uniformarmi facilmente al becero linguaggio corrente. Sarebbe
soltanto necessario un minimo sforzo, una maggiore attenzione. E mi
trasformerei in ciò che non sono. Invece preferisco non dover compiere alcuno
sforzo, non omologarmi, e mi limito a essere me stesso, a comportarmi in modo
naturale. Perché compiere inutili fatiche quando se ne può benissimo fare a
meno?
Al contrario, quando si assume il ruolo di scrittore, il
discorso cambia. Riprendendo l’esortazione di Carofiglio e tornando per un
istante al mio citato romanzo (ambientato nella scuola contemporanea e i cui
protagonisti principali sono quasi tutti ragazzi) mi pongo, inevitabile, una
domanda. Che giro a tutti. È più opportuno che una dolce e soave (si fa per
dire…) fanciulla sedicenne, nel manifestare stupore, esclami Perbacco! oppure un decisamente meno
falso, più veritiero Cazzo!?
Questa è la verità dello scrittore…
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