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sabato 12 maggio 2012

SALONE DEL LIBRO (1): LA VERITA' DELLO SCRITTORE



Ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, “Il silenzio dell’onda”, al Salone del Libro di Torino. Durante l’incontro, lo scrittore pugliese - nonché senatore del Partito Democratico ed ex-magistrato – ha introdotto uno spunto di riflessione molto interessante per chi segue e pratica la  scrittura. In sintesi ha ribadito il dovere, da parte dello scrittore, di dire sempre la verità e di non abbandonarsi mai alla falsità. Naturalmente, affermando ciò, non ci si riferisce all’obbligo di riportare un fatto nella sua esattezza. Ciò non avrebbe senso, dal momento  che la letteratura - per definizione – è sempre finzione, cioè un qualcosa di inventato. No, l’onestà di chi scrive riguarda il non omettere, il non ricorrere a costruzioni, situazioni ed espressioni che risultino ipocrite e bugiarde.
Riflettendo su questo aspetto del linguaggio scritto ho ripensato al mio primo romanzo, “Un anno diverso”, da poco pubblicato anche in formato digitale e che ho tra l’altro presentato proprio alla fiera torinese. Alcuni lettori, sebbene con gentilezza ed estremo garbo, mi avevano fatto notare un uso eccessivo di “parolacce”. Insomma, di termini non del tutto eleganti. Questo piccolo appunto, a suo tempo, aveva provocato in me non più di un benevolo sorriso. Adesso vorrei riprendere tale argomentazione e spingerla più in profondità.
Personalmente sono del tutto avverso all’utilizzo, nel linguaggio verbale e scritto, di epiteti “rafforzativi” del discorso. Ritengo infatti, con estrema convinzione, che questa abitudine contribuisca in maniera significativa all’impoverimento del linguaggio stesso e che lo renda misero e debole. Ricorro a un crudo esempio. La diffusa interlocuzione “cazzo” - tanto di moda in particolare tra le giovani generazioni - io non la uso mai. Bigottismo? Moralismo? Snobismo? Nulla di tutto questo. Semplicemente per me non ha alcun senso l’impiego dell’espressione “che cazzo vuoi?” quando posso ricorrere al ben più aggraziato “che cosa desideri?” Si tratta, nel primo caso, di un vero e proprio schiaffo linguistico, del tutto indegno di una persona mediamente colta. Ovviamente potrei uniformarmi facilmente al becero linguaggio corrente. Sarebbe soltanto necessario un minimo sforzo, una maggiore attenzione. E mi trasformerei in ciò che non sono. Invece preferisco non dover compiere alcuno sforzo, non omologarmi, e mi limito a essere me stesso, a comportarmi in modo naturale. Perché compiere inutili fatiche quando se ne può benissimo fare a meno?
Al contrario, quando si assume il ruolo di scrittore, il discorso cambia. Riprendendo l’esortazione di Carofiglio e tornando per un istante al mio citato romanzo (ambientato nella scuola contemporanea e i cui protagonisti principali sono quasi tutti ragazzi) mi pongo, inevitabile, una domanda. Che giro a tutti. È più opportuno che una dolce e soave (si fa per dire…) fanciulla sedicenne, nel manifestare stupore, esclami Perbacco! oppure un decisamente meno falso, più veritiero Cazzo!?
Questa è la verità dello scrittore…

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