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sabato 24 febbraio 2024

LA DONNA PIU' BELLA DEL MONDO


 

Di sicuro vi ricorderete di Stella West, la donna più bella del mondo. È inutile che vi spieghi quanto le forme del suo corpo fossero perfette, di come il suo viso, dall'ovale perfetto, rappresentasse il culmine dell'incanto. Inutile rammentare che, quando si presentò al concorso di Miss Universo, sbaragliò tutte le altre concorrenti. Stella West, in ogni caso, non era soltanto il suo corpo. Il suo fascino era immenso. Nessuna donna al mondo aveva un portamento pari al suo. Inutile ricordare che, quando decise di dedicarsi alle sfilate di moda, tutte le altre indossatrici non furono più considerate. Un corpo stupendo, una attrattiva senza eguali, ma soprattutto una intelligenza straordinaria. Non si era per nulla fatta distrarre dalla mondanità, alla quale per una come lei era comunque impossibile sfuggire. Aveva conseguito due lauree, in discipline del tutto differenti, e tra un impegno e l'altro da una parte all'altra del mondo, trovava il tempo per esercitare il mestiere di consulente finanziario e, a tempo perso, anche quello di ricercatrice in un famoso istituto farmaceutico. E che dire delle altre sue doti? Inutile stare a raccontare quanto Stella West fosse gentile, buona e generosa. Si potrebbe facilmente pensare che Stella West, la donna più bella del mondo, fosse una femmina inavvicinabile, il sogno segreto ma impossibile di tutti gli uomini. Per tutti, ma non per me. Anch'io ero un personaggio famoso in tutto il mondo, sebbene non quanto lei. Facendo leva su conoscenze comuni, feci in modo di incontrarla. Inutile dire che fu subito colpo di fulmine. La donna più bella del mondo corrispondeva i miei sentimenti, ed era mia. La felicità fu immensa, sublime, anche se durò soltanto qualche giorno. Inutile spiegare che, nella vita, anche le cose più incredibili che accadono possono facilmente e molto in fretta venire a noia.

   

lunedì 19 febbraio 2024

MUTI NON MUTA


 

Riccardo Muti è in questi giorni a Torino per dirigere al Teatro Regio l'opera lirica "Il ballo in maschera" di Giuseppe Verdi. Il maestro ha affermato con forza che non ha nessuna intenzione di modificare il libretto dell'opera nel punto in cui si cita "l'immondo sangue dei negri", come era invece avvenuto al Teatro alla Scala di Milano in una rappresentazione dello stesso melodramma un paio di anni fa.

Il politicamente corretto, pur condivisibile e segno positivo dell'evoluzione delle sensibilità nella società moderna, deve comunque avere dei limiti.

Non sarebbe infatti accettabile l'utilizzo di siffatta terminologia in un'opera contemporanea, composta ai nostri giorni. Il lavoro di Verdi, completato a metà Ottocento, deve invece essere valutato tenendo conto del suo contesto storico. Non è quindi concepibile apportare modifiche al testo del libretto allo scopo di allinearlo al pensiero attuale. La storia, e le espressioni artistiche del passato, di ogni genere (letteratura, musica, pittura, scultura) non possono e non devono essere modificate, corrette o rimaneggiate. Insomma, il revisionismo non può mai essere applicato alla storia, perché la storia rappresenta il ricordo, e mutare la narrazione storica conduce alla rimozione e alla perdita del  ricordo, all'annullamento del passato. Non abbiamo il diritto di farlo.   

venerdì 16 febbraio 2024

IL BRIVIDO DELLA SALITA


Mi è sempre piaciuto guidare l'automobile, ma non tra gli ingorghi della città o sulle veloci autostrade, bensì sulle tortuose e tranquille strade di montagna.

Anche oggi percorro questa serpeggiante via alpestre, che dopo più di otto chilometri di curve mi condurrà dapprima a un ameno rifugio e subito dopo alla diga che sbarra la vallata, con il consueto grande piacere.

Ecco, proprio in questo momento inizia la teoria interminabile di ripidi tornanti. La carrozzabile è stretta, ma il fondo stradale è in buone condizioni. Mentre affronto la prima curva percepisco in me una strana inquietudine, che mi allarma. Il mio cuore avverte questa inspiegabile ansia e accelera i battiti.

Rallento. Non è che la strada è troppo stretta? Ma no, ragiono, è sempre la stessa, quella che ho percorso tante volte. Se sopraggiungerà un veicolo dalla direzione contraria, ridurrò la velocità e non avrò problemi a incrociarlo. Affronto l'ennesimo tornante, lentamente, più del solito. Modero la velocità perché ho paura di perdere il controllo della vettura. Attenzione, però. Non devo rallentare troppo, oppure correrò il rischio che l'automobile non riesca ad affrontare la pendenza. Si fermerà, proprio nel mezzo della curva, e inizierà a retrocedere verso il vuoto. È prudente slacciare la cintura di sicurezza, per avere il tempo necessario a balzare fuori? Cerco di ritrovare un po' di lucidità. Se ciò accadesse (e in passato non è mai accaduto!) sarebbe sufficiente premere il pedale del freno, e azionare il dispositivo di stazionamento, e l'auto si bloccherebbe. Certo, a patto che i freni siano in ordine, che funzionino, dice una voce maligna nella mia testa. Di colpo mi accorgo che ampi tratti della strada sono privi di barriere di protezione. Addirittura in prossimità di qualche curva! Possibile che sia stato così anche in passato e non me ne sia mai accorto? Non ci abbia mai fatto caso? La mia fronte si imperla di sudore freddo. Mi sposto il più possibile al centro della carreggiata, perché temo che il vuoto ai miei lati mi possa attirare verso sé. Nei tornanti che virano a sinistra quasi mi appoggio contro la parete di roccia, nell'altro caso invado completamente l'altro senso di marcia. La mia vettura, di cui andavo orgoglioso fino a pochi minuti fa, mi sembra piccola, fragile e sempre più delicata. Con angoscia crescente cerco di percepire il ronzio del motore. A volte mi sembra di non sentirlo, e il panico aumenta a dismisura. Non mi tradire, imploro la macchina con una preghiera silenziosa. Ma l'automobile funziona, continua a fare il proprio dovere. Il guasto è dentro di me. Qualcosa si è rotto, e so che non potrà essere aggiustato da un meccanico. Ancora un tornate, la cui pendenza mi pare impossibile. Una decisione improvvisa, disperata. Freno e striscio contro la parete rocciosa, finché la vettura vi si incastra e si blocca. Slaccio la cintura e spalanco la portiera. Mi catapulto fuori. E scappo.

 

lunedì 12 febbraio 2024

CAROSELLO


 

È il mattino del 2 gennaio 1977, e il bambino sta ancora dormendo. Sogna. Qualcosa di indefinito ma piacevole. Si rigira tra le coperte emettendo dei piccoli gemiti. Sul suo viso dai tratti infantili è dipinto un sorriso beato. A un tratto, la donna irrompe nella camera. Rumore. Luce. Il ritorno alla realtà è brusco e inaspettato. E all’improvviso, come a un segnale convenuto, tutta la casa si anima. Una porta sbatte. Dalla cucina, un gatto miagola e reclama cibo e attenzioni. La caffettiera brontola solitaria sul fuoco.

“Sveglia! È tardi! Vestiti che la colazione è pronta” dice la donna.

Il bambino si mette a sedere sul letto. Si stropiccia gli occhi. L’inatteso chiarore gli dà fastidio. Appare imbronciato.

“Sbrigati! Dobbiamo andare in chiesa!” lo martella la madre con voce squillante.

“Mamma, non voglio andare a messa. Fuori fa freddo” risponde il bambino, lo sguardo fisso sulla finestra dai vetri appannati.

“Poche storie. Svelto!”

“Mamma, se vengo a messa questa sera posso rimanere alzato anche dopo Carosello?”

“Carosello? Guarda che da oggi in poi non ci sarà più” risponde la donna, in maniera frettolosa, mentre sta per uscire dalla camera.

“Non ci sarà più? Mai più?” domanda il piccolo con la voce già incrinata.

“Esatto. Non lo faranno più. Mai più” ribadisce distrattamente la madre, che ormai è già in cucina.

Il bambino inizia a piangere.

 

domenica 11 febbraio 2024

TUTTO BENE, O QUASI (Seconda e ultima parte)


 Appena scendo dal tram mi trovo immerso in una grande confusione. Non sono più abituato a frequentare luoghi così affollati. Ho un po’ di timore a inoltrarmi in mezzo alle bancarelle, anche perché dietro ai banchi vedo solo arabi e cinesi. E tutti urlano a squarciagola.

Scorgo una signora anziana che cammina verso di me, appesantita da due enormi sporte. La fermo e mi presento. Lei accetta di parlare, se non altro per riposarsi un attimo.

"Vedo che ha fatto una grossa spesa" dico.

"Ma va là! È tutta roba mezza marcia che ho raccolto sotto ai banchi. Quella che buttano via".

"Ah! Allora non è vero che c’è la ripresa".

La donna riflette un attimo, poi inizia a frugare dentro una borsa e dopo un po’ estrae due zucchine. "Guardi come sono belle. Queste le ho comprate" dice orgogliosa.

"Sul serio?"

"Certo, fino a qualche mese fa non me lo sarei potuto permettere. Ma adesso le cose stanno andando meglio, sono riuscita a risparmiare qualcosa e mi posso finalmente permettere un po’ di verdura sana".

La donna, sbuffando, riprende il suo faticoso cammino. Prendo nota di ciò che ho appena sentito.

Un ragazzo mi urta e si ferma per scusarsi. Ne approfitto. "Sono un giornalista, ti posso fare una domanda?"

"Quale giornale?" chiede.

Lo dico, a bassa voce.

Sul volto del ragazzo si disegna una smorfia di disprezzo. "Va bene" risponde a malincuore. Se potesse mi sputerebbe in faccia.

"Qual era la tua condizione all’inizio della crisi economica, e qual è quella attuale?"

"Be’, all’inizio ero in cerca di lavoro, ma non si riusciva a trovare niente".

"Già, purtroppo. E adesso?"

"Sono disoccupato".

"Ma allora non è cambiato nulla! È tutto uguale".

"Non è vero".

"Per quale motivo?" lo incalzo, come devono fare i veri giornalisti.

"Perché ora ho qualcosa in più".

"Cioè?"

"La speranza. Prima c’era solo disperazione".

"Interessante" commento mentre scrivo sul notes.

"Ehi, posso dirti una cosa?"

"Certo, dimmi".

"Il tuo è un giornale di merda". E poi se ne va.

Quanto è dura svolgere il lavoro sul campo! Ma io non mi scoraggio e proseguo la mia indagine. Sto apprendendo informazioni molto utili, anche se in contrasto con il punto di vista del mio direttore. È dovere del giornalista intellettualmente onesto dire comunque la verità.

Mi avvicino a un tipo che sta fumando appoggiato a un enorme suv. Indossa occhiali a specchio e un abito molto elegante.

"Scusi, lei che lavoro fa?" lo abbordo da vero giornalista d’assalto.

"Non ho capito" risponde.

"Le ho chiesto qual è la sua occupazione".

"Ma che cosa sta dicendo? E che domande fa? Non vede che sono ricco?"

"Ah, chiedo perdono". Questo è tutto scemo, considero.

"Lei è per caso un pennivendolo?" mi chiede.

"Come ha fatto a capirlo?"

"Ce l’ha stampato in faccia! Ah, ah! Buona vero? E poi, quel ridicolo taccuino".

Cerco di ricompormi. "Dunque, lei mi stava dicendo che è ricco".

"In realtà sono molto ricco, per la precisione".

"Chiedo scusa. Sarei interessato a un suo parere riguardo la crisi economica. Negli ultimi tempi ha notato un miglioramento? Le cose stanno andando meglio?"

"Macché!"

"Per quale motivo?"

"È tutta colpa del bonus".

"Ah, interessante. Lei ritiene che la corresponsione del bonus non abbia provocato la prevista ricaduta, vale a dire l’aumento dei consumi? Si tratta di un incentivo troppo esiguo? Mi dica".

"A quanti l’hanno dato ’sto bonus del cazzo?"

"Be’, ha interessato un’ampia platea di cittadini" rispondo.

"Appunto, troppo poco a troppi".

"Quindi?"

"Lo dovevano dare a noi ricchi, il bonus".

"Eh?"

"Certo, dovevano dare tanto a pochi. Come crede lo abbiano impiegato quei pezzenti che lo hanno ricevuto?"

"Lo avranno utilizzato per pagare le bollette o le rate del mutuo".

"Bravo! Lei per caso è laureato in economia?" Tento di rispondere ma mi accorgo che quella del tizio è una domanda retorica, perché subito prosegue: "Se a me avessero dato un bonus di, diciamo mille euro, mica l’avrei messo sotto il materasso. Me lo sarei bevuto subito. Champagne! È così che si incrementano i consumi".

"Ma i profitti sarebbero andati ai produttori francesi".

"E chi se ne frega! Ho l’impressione che lei non sia affatto laureato in economia. Comunque adesso devo andare. Ehi, le piace il mio suv nuovo di zecca? Sessantamila euro sull’unghia!"

"Sì".

"E allora se lo compri anche lei! Mi stia bene, pennivendolo".

 

Si è fatto tardi e decido di rientrare in redazione. Ormai ho le idee chiare su ciò che scriverò. Alla faccia di Orazi e delle sue psicosi complottiste. Quando arrivo il salone è quasi deserto. Ma i miei colleghi non lavorano mai? Chi è che fa il giornale, in realtà?

Per circa un’ora maltratto la tastiera. Poi rileggo e stampo. Ottimo lavoro, Fortini! E adesso subito da quell’imbecille del direttore.

La Tozzi naturalmente è presente e di guardia; non si scolla quasi mai dalla sedia, per questo ha il culo grosso. "Mi dispiace, Orazi non ti può ricevere. È impegnato con il Grande Capo" dice bisbigliando.

Proprio in quell’attimo la porta del direttore si spalanca ed esce proprio lui, il Grande Capo. Strano, qui non si fa mai vedere.

Mi si avvicina traballando e mi appoggia le manacce sulle spalle: "Bravo! C’è bisogno di giovani in gamba come lei" dice alitandomi in faccia. Una fogna.

Non mi conosce, non mi ha mai visto prima. Penso che se fossi stato il ragazzo che ci consegna le pizze mi avrebbe detto la stessa cosa. Che bastardo. Ancora schifato mi infilo nell’ufficio di Orazi.

Il suo volto da Nosferatu ha un’espressione preoccupata. "Siediti, Fortini" biascica.

Ubbidisco e nel frattempo gli porgo il mio articolo. L’ho consegnato con diverse ore di anticipo.

Lui non lo degna di uno sguardo. "Hai visto?" dice. "C’era il Grande Capo in persona".

"L’ho visto e l’ho sentito" dico.

"Le cose non vanno affatto bene".

"Non capisco".

"I processi! Sai quanto ha speso in avvocati quella povera vittima delle persecuzioni dei giudici politicizzati?"

"No".

"Una enormità. E poi quella causa che ha perso contro quel gruppo editoriale nostro concorrente lo ha proprio messo in ginocchio. Tutto ciò, purtroppo, avrà delle ricadute sul suo impero economico. Anche sul ramo editoriale".

"E io che cosa ci posso fare?" chiedo incerto.

"Tu? Nulla, se non subirne le conseguenze".

"Sarebbe?"

"Anche noi dobbiamo fare la nostra parte. In parole povere, ci sarà un ridimensionamento dell’organico al giornale".

"E in parole ancora più povere?"

Il teschio mi fissa e tenta di assumere un atteggiamento dolente, senza riuscirci. "Sei licenziato, Fortini".

Mi affloscio.

"Non te la prendere, tanto conoscevi bene la situazione. Sei l’ennesima vittima della crisi. È proprio come dico io: le cose non vanno affatto bene. Il resto sono tutte balle".    (FINE)

venerdì 9 febbraio 2024

TUTTO BENE, O QUASI (Prima parte)

Il mio è un giornale di merda. Lo penso ma non lo posso dire perché io al giornale ci lavoro. E in redazione sono pure l’ultimo arrivato.

Nascosto dietro lo schermo del computer scorro l’edizione on-line del quotidiano. Fuori dalla crisi? Le solite bugie del governo. Questo è il titolo principale, e ti pareva. Subito dopo uno si aspetterebbe, che so, un articolo sulle guerre in Libia, Siria, Yemen, Ucraina. Oppure qualcosa sulla distensione tra Stati Uniti e Cuba, sui disperati che muoiono affogati attraversando il canale di Sicilia.

E invece no. Alice Scalzi: lato b da urlo! Chi cazzo è Alice Scalzi? L’articolo, cinque righe in tutto e non firmato, è accompagnato da una nutrita serie di immagini, tutte alquanto esplicite. Le scorro pigramente mentre apprendo che la suddetta annovera quale suo unico merito quello di avere partecipato di recente a un reality show in televisione.

"Fortini! Ti vuole il direttore".

Sussulto, alzo appena lo sguardo e intravedo un paio di robuste cosce. Sono quelle della signorina Tozzi, la segretaria del direttore.

La stronza sbircia lo schermo: "Tutti uguali voi uomini. Dei veri porci, sempre a guardare i siti porno".

"Guarda che..." tento di replicare, paonazzo in viso.

"Sbrigati! Alza le chiappe che a quello non piace aspettare".

Senza guardarla in faccia mi alzo, infilo la giacca e vado dal direttore. Busso e, senza aspettare risposta, entro.

Orazi emette un grugnito e poi mi fa cenno di accomodarmi. Il direttore del giornale è un tipo pelato, segaligno, con grosse labbra sempre umide e la erre moscia. Da giovane è stato nei parà: una specie di fascista che ha fatto carriera nella carta stampata grazie a leccate, spinte e calci in culo.

"Hai visto il giornale di oggi?" dice, senza neppure salutare.

"Ho dato un’occhiata all’edizione on-line. Niente da dire, un gran bel culo".

Il rospo strabuzza gli occhi. "Eh? Che stai dicendo".

Credo di avere toppato, allora borbotto qualcosa di incomprensibile.

"L’economia, Fortini. L’economia".

"Certo, direttore. L’economia".

"Bene. Come al solito sono stati diffusi dati falsi. Tutto sta andando di nuovo bene, dicono. E invece sono tutte menzogne! Pura propaganda. Avrai letto l’articolo di Banfoni, che sputtana alla grande quegli spudorati mentitori. Ottimo lavoro, ma non mi basta. Bisogna stare sul pezzo, e domani ho intenzione di rincarare la dose. Bisogna insistere, soltanto ripetendo la gente si ficca in testa i concetti. Dire, ribadire, reiterare, come dice il Grande Capo. E stavolta l’articolo lo scriverai tu".

"Io?"

"Sei laureato in economia, no? Vuoi fare il giornalista, vero?"

"Affermativo a tutte e due le domande" rispondo, sempre più perplesso. È la prima volta che mi si chiede di scrivere qualcosa, finora ho unicamente corretto bozze.

"Bene, e allora qual è il problema?" mi domanda Orazi, che si sta incazzando.

"E Banfoni? Che cosa dirà Banfoni? È lui il giornalista economico".

"Banfoni è già impegnato. Adesso alza il culo, voglio l’articolo per oggi pomeriggio".

"Va bene, direttore. Come vuoi tu".

"Adesso fila che ho da fare". Sempre gentile, il coglione.

Ritorno nel salone. C’è un capannello attorno a Banfoni, proprio lui, che sta intrattenendo i colleghi: "La crisi? Di nuovo sulla crisi? gli ho detto. Ne ho le palle piene della tua crisi! Questa volta l’articolo lo fai scrivere a qualcun altro. E lui ci è rimasto di merda. Era tutto verde, peggio di Hulk. E poi me ne sono andato sbattendo la porta. Basta con queste menate".

Banfoni è scatenato. E tutti lo stanno ad ascoltare e gli danno pacche sulle spalle. La Tozzi ha lo sguardo languido. Adora quel demente mentre lui non la considera neppure di striscio. Ben le sta.

Orazi si è rivolto a me affinché faccia da tappabuchi. Un semplice ripiego. Ma non importa, gli dimostrerò che sono un vero giornalista.

Torno alla mia scrivania ma non mi siedo, afferro un blocco per appunti ed esco, senza che nessuno se ne accorga. Non ho alcuna intenzione di scrivere il pezzo seduto in poltrona, scopiazzando qua e là, facendo copia e incolla. No, io andrò sul campo, come si faceva una volta.

Se vuoi capire davvero che cosa pensa la gente vai al mercato, mi diceva il mio vecchio mèntore Collinelli. Ed è proprio quello che farò.    (SEGUE)

 

 

lunedì 5 febbraio 2024

CALAMITA'


Sento tremare la terra sotto i piedi. Le scosse si susseguono rapide, sempre più violente. Ho l’impressione di cadere, lotto per mantenere l’equilibrio mentre il cuore mi martella il petto. Cerco qualcosa da afferrare e lo trovo: è il bordo di una scrivania.

"Ha capito che cosa le ho detto, signor Leonardi?"

Eccolo, è lui, l’uomo che mi sta di fronte. È lui che ha innescato la slavina. Le sue parole sconsiderate, incoscienti, hanno messo in movimento quell’ammasso di neve fradicia e pesante che discende il pendio acquistando sempre più velocità, aumentando sempre più di volume. E che mi travolgerà soffocandomi.

"Sto parlando con lei, signor Leonardi" ripete l’uomo.

"Credo di aver compreso, dottor Corti".

"E allora? Mi deve dare una risposta".

"Perché? Perché è accaduta questa tremenda disgrazia?"

L’uomo sbuffa. Il suo viso è arrossato. Si toglie gli occhiali e si sfrega gli occhi. Sembra spazientito ma tenta di non far trapelare il suo nervosismo. Non se lo può permettere nelle sua posizione, lui è un alto papavero qui, nell’azienda. È il responsabile delle Risorse Umane ma, soprattutto, è un sopravvissuto.

Si ricompone e inizia a spiegare con la sua irritante voce nasale. Con ipocrita indulgenza.

"Vede, signor Leonardi, quando da Parigi arrivano simili direttive noi non possiamo che obbedire. Il nostro potere decisionale in merito è nullo. Non possiamo fare altro che attuare tali disposizioni senza indugio. E questa volta, purtroppo, si tratta di un ridimensionamento del personale, anche se loro lo definiscono un compattamento aziendale".

"È una vera sciagura" dico. Mi sento male, soffro, credo di essere sotto choc.

"La definisca come meglio crede, signor Leonardi. In ogni caso lei è fortunato".

"Come può essere fortunato chi è investito da una tromba d’aria?" urlo, con le lacrime agli occhi.

"Si calmi, per favore. Le vere tragedia sono altre".

"Quali? Quali?"

L’uomo sospira a lungo.

"Non ha letto i giornali di oggi? Non ha visto che cosa è accaduto in Nepal? Un tremendo terremoto".

"Terremoto? Si, ho visto. Ci sono state molte vittime. E chi è scampato ha perso tutto, proprio come me".

"Non esageri, signor Leonardi. Comprendo il suo turbamento ma non deve drammatizzare in questo modo. Lo trovo eccessivo".

"Tutto il mondo sta correndo in loro aiuto. Chi aiuterà me, invece?"

"Mi stia bene a sentire. La proposta che le ho fatto esprime tutta la benevolenza dell’azienda nei suoi confronti. La ripeto: un bonus di sei mensilità se lei lascerà il lavoro a partire da domani. Non avrà problemi economici nell’immediato, con tutta calma potrà riorganizzarsi e reinventarsi, perché lei è una persona dotata di enormi potenzialità. Ed è ancora giovane".

"Ho cinquant’anni, cazzo! Esiste sciagura più grande dell’età che avanza?"

"Lei fino a questo momento ha condotto una vita agiata, grazie al suo lavoro e alla nostra azienda che ha sempre ripagato in maniera generosa il suo impegno. Si è sposato…"

"Tre anni fa ho divorziato, una vera tragedia" lo interrompo.

L’uomo mi guarda, poi prosegue.

"Lei ha dei figli" dice.

"È come se non li avessi più. Non vogliono più avere contatti con me, sempre per via del divorzio. Le sventure non vengono mai sole".

"Su, non faccia la vittima. Si tratta di normali contrattempi della vita".

A quelle parole, pacate e false, mi sento come investito da un maremoto. Annaspo, alla ricerca d’aria.

"Contrattempi? Lei li chiama contrattempi? Io li chiamo flagelli! E poi, mi dica, che cosa sono io se non una vittima, la vittima del mercato?"

"Mercato? Signor Leonardi, che cosa sta dicendo?"

"Sì, il mercato. Proprio quello che voi esaltate tanto. Il mercato economico non è altro che una delle tante forze della natura che, da un momento all’altro, proprio come un tifone o un uragano, si può scatenare e abbattere qualsiasi cosa si trovi di fronte".

"Lei sta farneticando, signor Leonardi".

E poi l’uomo continua a parlare e a parlare ma io non lo sento più. Penso a quale sensazione si provi a essere seppelliti da una frana. Immagino la terra inzuppata che mi riempie la bocca, che poco per volta mi ottura le vie respiratorie fino a provocare l’asfissia.

"Signor Leonardi, sto parlando con lei. Mi ascolti, per favore".

"Sono morto".

"La smetta, non sia infantile. Pensi piuttosto a quegli altri disgraziati".

"Quali?"

"I migranti, quelle sì che sono persone sfortunate. Partono verso l’ignoto, lasciandosi tutto alle spalle, per sfuggire a guerre e persecuzioni, alla ricerca di una condizione di vita migliore. Molti di loro purtroppo non ce la fanno, muoiono annegati, i loro corpi dispersi per sempre. Ecco quali sono le autentiche sventure".

"Anch’io sono una vittima della guerra".

"Ma quale guerra? Che cosa c'entra la guerra? La smetta".

"La guerra tra le multinazionali. E poi i migranti posseggono qualcosa che io non ho più: la speranza".

"Signor Leonardi, lei non sta bene".

"Ha ragione, il fatto è che sono stato colpito da una spaventosa calamità".

L’uomo sospira. Si aggiusta gli occhiali, dà un’occhiata al voluminoso orologio d’oro che porta al polso.

"D’accordo, signor Leonardi. A nome dell’azienda integro l’offerta, già molto munifica, che le è stata fatta. Per due mesi avrà diritto a un supporto psicologico, tutto a spese nostre".

"Dice sul serio?"

"Le do la mia parola".

"Grazie dottor Corti, accetto".


venerdì 2 febbraio 2024

MA LE GAMBE...


 

Arnoldo era un maniaco. Uno di quelli con una sola fissazione, un'unica ossessione: le donne. 

L'uomo, tuttavia, era un paranoico, per così dire, specializzato. Mi spiego meglio: le persone di sesso maschile che manifestano una smania per le persone di sesso femminile sono una moltitudine, palese o nascosta che sia tale fisima. Quasi sempre, però, la voglia si presenta in maniera generica, vale a dire che è rivolta praticamente a tutte le donne, esistenti o immaginarie che siano. Nondimeno, la mania può essere più specifica. La donna può essere fatta a pezzi, in senso figurato, naturalmente. Abbiamo dunque gli ossessi qualificati, i quali osservano, prediligono, studiano, bramano una sola parte del corpo femminile. C'è l'appassionato del seno, il fanatico dei glutei, il patito delle gambe, e così via. Nulla di nobile in tutto ciò, ma una mania è una mania, affezione che è comunque annoverata tra i disturbi mentali.

Arnaldo era un maniaco delle gambe delle donne. Fin qui, nulla di speciale. Si trattava dunque di uno dei tanti ossessi con fissazione specialistica. Ma la fissazione di Arnaldo andava oltre, la sua era una ulteriore specializzazione: l'uomo, il poveretto, prediligeva esclusivamente le gambe della donne in movimento. Qualsiasi movimento? Assolutamente no.

L'ubbia di Arnaldo era nata in gioventù poi, con il trascorrere degli anni (l'uomo ne aveva più di cinquanta) era stata affinata e di continuo perfezionata. L'idea, se così si può chiamare una fisima così immonda, gli era stata fornita da quello che allora era il suo scrittore preferito, Charles Bukowski, noto scrittore dissoluto e maledetto.

"Una delle più grandi opere d'arte del mondo è una donna con belle gambe che esce dalla macchina". Questa era la frase incriminata dello scrittore americano. Quelle erano le parole che, quasi dall'oggi al domani, avevano contribuito in Arnoldo alla nascita della sporca consapevolezza, alla venuta al mondo della mania che avrebbe condizionato la sua vita, in parte allietandola, in parte rendendola assai dolorosa.

Da quel momento, per tutto il corso della sua esistenza, Arnaldo aveva cercato di mettere a punto delle tecniche che gli consentissero, senza essere scoperto, di osservare ciò che più anelava: un paio di gambe di donna, più o meno belle, più o meno snelle, che uscivano da un'automobile.

Arnaldo, come tanti, trascorreva la maggior parte del suo tempo al lavoro. Otto interminabili ore in ufficio, cinque giorni su sette. E nell'ambiente di lavoro le donne erano davvero tante, mentre di automobili non c'era neppure l'ombra, dunque lo sventurato, per appagare i suoi malsani sensi, doveva attendere il tempo libero.

Con gli anni era giunto alla risoluzione che i luoghi migliori dove appostarsi erano i parcheggi, e in particolare i parcheggi dei supermercati, che erano frequentati soprattutto da donne. Le ore migliori erano quelle mattutine, quando purtroppo lui era al lavoro. Arnaldo tentava di rimediare a questo spiacevole contrattempo trascorrendo tutto il sabato e anche parte della domenica su enormi piazzali di cemento, a volte sotto un sole cocente, altre soffrendo il freddo. Anche tutti i giorni di ferie erano dedicati a soddisfare la sua ossessione. Spesso, nei parcheggi, veniva avvicinato da loschi individui, parcheggiatori abusivi, che lo guardavano in malo modo o lo minacciavano, credendolo un concorrente. Per questo motivo, e anche per non insospettire troppo chi era oggetto delle sue osservazioni, cambiava di continuo i supermercati, spingendosi anche in altre cittadine. A mano a mano che il tempo era trascorso, la fissazione di Arnaldo non era affatto diminuita. Anzi, era addirittura aumentata. L'uomo si era ormai reso conto che avrebbe passato il resto della sua vita cercando di alimentare sempre di più quella sua tremenda fissazione, perché non c'era nella sua vita nulla di meglio di un paio di gambe di donna, belle o brutte, tornite o tozze, che lentamente si scostavano e appoggiavano le estremità sul terreno. Una vera opera d'arte.