Powered By Blogger

giovedì 8 dicembre 2022

ERA D'INVERNO

 


Era d’inverno, quando lo incontrai dal medico. La sala d’attesa, piccola e opprimente, era affollata. Vidi una sola sedia libera, sulla quale era appoggiata una borsa. Un uomo la tolse, e mi fece segno di accomodarmi. Lo ringraziai, spiando appena il suo volto. Intravidi una massa di capelli castani, uno sguardo curioso posato su di me.
“Fa molto caldo” disse dopo un po’.
“Sì” risposi.
“L’attesa purtroppo sarà lunga” aggiunse lui, timidamente.
“Già” dissi, imbarazzata.
Venne il suo turno, poi finalmente il mio. La visita fu breve. Andai fuori e lo trovai sul bordo della strada. Stava aspettando proprio me. Me lo disse quando mi vide, dopo aver gettato la sigaretta che stava fumando.
“Sei a piedi?” mi domandò.
Mi rendo conto che avrei dovuto ignorarlo e tirare dritto, come avrebbe fatto chiunque. Invece il suo tono gentile, il suo lieve sorriso, il colore caldo della voce mi indussero a rispondere.
“Sì, non abito molto lontano” spiegai a quell’uomo sconosciuto.
“Scusa, io sono Marco. Ti posso accompagnare?”
Gli porsi la mano e feci segno di sì con il capo.
“Mirella” dissi. “E sono sposata.”
“Ho una compagna” rispose lui, serio. Ci guardammo per un lungo istante, poi scoppiammo a ridere. Fu uno sfogo di allegria strano, forse inopportuno, eppure nessuno dei due riuscì a frenarlo. Una risata liberatoria. Seguì un momento di imbarazzo, quindi ci incamminammo.
Era d’inverno, anche se non faceva freddo. Soffiava una leggera brezza tiepida, come accade talvolta all’inizio della primavera. Dopo un po’, camminando a passo veloce, iniziammo a provare caldo e ci sbottonammo i cappotti. Non ricordo esattamente di che parlammo durante il tragitto verso casa mia, ma la conversazione non languì mai. Rammento soltanto che lui preferì soprattutto ascoltare, si limitò a interrompermi di tanto in tanto con qualche domanda appropriata, fece qualche precisa puntualizzazione. Riuscì comunque a raccontarmi alcune cose su di sé, tutte piuttosto interessanti.
Giunti davanti al mio portone ci fermammo, stando in silenzio. Nessuno dei due aveva pensato alla circostanza del congedo, non eravamo preparati al fatto che non ci saremmo rivisti mai più. Quell’aspetto della questione ci colse alla sprovvista, ci sorprese. Fu lui il più pronto a reagire, come mezz’ora prima era stato lui a prendere l’iniziativa.
“Se vuoi ci possiamo rivedere” sussurrò con un filo di voce, colto da improvvisa emozione.
“Eh?” esclamai, fingendo stupore. In realtà lui aveva pronunciato le parole che avevo desiderato sentire.
Si passò le dita tra i capelli, più volte, un chiaro segnale di disagio. Deglutì prima di parlare.
“Ascolta, se vuoi ti posso dare il mio numero di telefono. Così, se per caso ti andasse, mi potresti chiamare…”
Scrollai le spalle, fingendo indifferenza. Invece ero preda dell’ansia.
Lui si spostò sotto a un lampione, prese una penna e un pezzetto di carta e scrisse il numero di telefono. Quasi senza guardarmi me lo porse. Lo presi e lo misi in tasca, accennai un saluto con la mano e oltrepassai il portone.
Il giorno dopo lo chiamai, e da allora è trascorso tanto tempo.
Questa sera ho indossato il mio abito migliore. Quello che mi piace di più. E l’ho fatto per me stessa, soltanto per me stessa. È un vestito verde scuro, lungo fino al ginocchio, con le maniche attillate e una profonda scollatura. Le calze sono grigio fumo, le scarpe nere con il tacco alto e sottile. Mi sono truccata con cura, in mattinata sono stata dalla parrucchiera e dall’estetista. Ho fatto di tutto per cercare di essere bella. Mi avvicino al tavolo della cucina, che è apparecchiato con eleganza. Smorzo la luce e accendo una candela. Mi siedo e mi verso mezzo bicchiere di vino bianco. Freddo e secco. E penso.
Era d’inverno, ma nonostante ciò io e Marco riuscimmo a incontrarci parecchie volte. Non sapevamo mai dove andare ma questo, invece di scoraggiarci, contribuì a rafforzare ancora di più il nostro legame. Trascorrevamo ore sulla sua macchina, al freddo, in luoghi appartati. Parlavamo, ci scambiavamo effusioni, a volte ci spingemmo oltre. Oppure ci sedevamo in qualche bar per bere qualcosa di caldo, cauti e sempre vigili, le mani tra le mani, a scambiare sguardi.
Quando arrivò la primavera, la nostra storia prese il volo. Non poteva essere altrimenti. Marco da tempo era in crisi con la sua compagna. La lasciò e si trasferì da suo fratello. Lei non fece molto per trattenerlo. Era libero, ora toccava a me. Mio marito non sospettava nulla. Non sembrava notare i miei ritardi, il mio comportamento diventato stravagante, la mia continua svagatezza. La mia freddezza nei suoi confronti, l’indifferenza. A un certo punto non fui più in grado di vivere nella doppiezza. Confessai tutto. Soltanto in quel momento, dopo l’iniziale incredulità, lui reagì. Lo fece con cattiveria, con estrema meschinità. Fece di tutto per danneggiarmi, per rendermi la vita impossibile. Sia finché continuammo per qualche tempo a vivere ancora insieme, che dopo. Mi resi conto che anche lui non mi amava più. Il mio senso di colpa si attenuò, anche se non scomparve del tutto.
Era d’inverno quando lasciai per sempre lui e la mia casa, portando con me soltanto due valigie. E nessun bel ricordo.
Finisco di bere il vino. Mi alzo. Metto in tavola l’antipasto. Ho preparato degli avocado con spuma di formaggio. Ho diviso in due i frutti tropicali, li ho sfregati con il limone per non farli annerire. Poi ho frullato ricotta e mascarpone, ho aggiunto olio, sale e pepe in abbondanza. Infine ho travasato il composto ottenuto in una terrina e ho riempito gli avocado con questa spuma. Ho cosparso il tutto con erba cipollina fresca. Inizio a mangiare, lentamente, cercando di assaporare ogni boccone. Mentre penso.
Sono andata a vivere con Marco, prima in un incantevole monolocale poi in un appartamento più spazioso. Abbiamo trascorso insieme molti anni felici. Dopo essere diventati amanti diventammo anche amici. Alla fine eravamo soprattutto amici. Era bello condividere tutto con lui, viaggiare in sua compagnia. Era un uomo poco esigente, che mai ha interferito con la mia libertà personale, che per me è tutto. Poco alla volta però il rapporto si è esaurito, giorno dopo giorno si è consumato. Avremmo potuto lasciarci da buoni conoscenti, da amichevoli compagni di vita. Invece non andò così, per causa mia.
Era d’inverno quando iniziò la mia relazione con Fulvio. Lui era un amico di Marco. Lo frequentavamo da solo, perché  la sua compagna non si univa mai a noi quando organizzavamo qualcosa: una cena, un film, uno spettacolo a teatro oppure un concerto. Quella donna, che io conoscevo appena, non amava uscire. Forse non gradiva la mia presenza e quella di Marco.
Ricordo che una sera ero sola in casa, Marco era uscito con qualche amico. Sapevo che Fulvio e Giulia, la sua compagna, erano in vacanza. In Francia, mi pare. All’improvviso fui colta da uno strano impulso. Presi il telefono e mandai un messaggio a Fulvio. Nulla di impegnativo, s’intende, solo un semplice saluto. Lui rispose subito, con parole molto affettuose. E poi continuammo, anche quando lui ritornò. Quel tipo particolare di contatto era ormai stabilito, si trattava di una nuova contiguità che non prevedeva più la presenza di Marco. Cominciammo a vederci spesso, quasi tutti i giorni, all’insaputa del mio compagno. Ci capitava ancora di ritrovarci insieme, tutti e tre, e in quei momenti io e Fulvio dovevamo fingere, dovevamo forzare il nostro comportamento, stare bene attenti a non far trapelare nulla. Dopo un po’ Marco cominciò a sospettare qualcosa, per via del mio atteggiamento distaccato, dei miei silenzi, della mia insofferenza nei suoi confronti. A quel  punto era ormai certo che avessi un amante, anche se non dubitò mai del suo amico. Una triste sera, messa alle strette dopo una estenuante discussione, fui io a confessare tutto. Per Marco fu un vero  trauma. Urlò, pianse e imprecò, completamente annientato. Mi disse che anche lui aveva una storia, con una ragazza straniera che aveva conosciuto sul lavoro. Non credo fosse vero. In ogni caso non mi importava. Implorai Marco di concedermi un periodo di riflessione. Lui oppose resistenza, poi si arrese, benché a fatica, consapevole del fatto che la nostra unione fosse ormai sfasciata, rotta senza rimedio. Andai via di casa. Dapprima mi trasferii da un’amica, quindi in un residence fatiscente. Le telefonate tra me e Marco si diradarono sempre di più. La sua voce, attraverso il telefono, era sempre spezzata, piena di risentimento. Ne aveva tutte le ragioni. Lo avevo tradito e ingannato, forse anche umiliato, eppure non riusciva a farmi sentire del tutto colpevole. Avevo seguito l’impulso del cuore e, anche se avevo rovinato tutto, sapevo bene che la mia condotta, pur detestabile ai suoi occhi, era il frutto di una scelta consapevole: la predilezione di vivere, di assecondare una spinta interiore che non possedeva nulla di razionale, il non rinunciare a vivere una storia appagante.
Dopo un solo mese, trascorso tra angoscia e speranza, tra gioia e incertezza, Fulvio mi lasciò. Non intendeva far soffrire la sua compagna, disse. Preferì il mio dolore.
Era d’inverno quando ciò accadde.
Vado ai fornelli, a rifinire il primo piatto. Ho preparato dei maccheroni alla nizzarda. Ho pelato i pomodori e li ho tagliati a piccoli pezzi. Poi ho affettato delle zucchine a rondelle. In poco olio e burro ho fatto imbiondire schegge di cipolla, ho aggiunto pomodori e zucchine, salato e pepato. Dopo venti minuti di cottura a fuoco lento ho aggiunto delle olive nere snocciolate. Ora non mi resta che scolare la pasta e condirla con la salsa. Lo faccio, e me ne servo una porzione abbondante. Porto il piatto in tavola e riprendo a mangiare. E a pensare.
Era d’inverno quando, pochi anni fa, ho incontrato Giovanni a una festa di compleanno. È lui l’uomo con il quale attualmente divido la mia esistenza. Questa sera, tuttavia, Giovanni non c’è. È andato a giocare a calcetto con i suoi colleghi di lavoro. Poi andranno a mangiare una pizza e di sicuro rientrerà tardi. Lo fa spesso, ma a me non importa. Anzi, assaporo con piena soddisfazione questi momenti di libertà. Perché l’amore tra noi due è durato poco. Unire due solitudini non è stato sufficiente per rendere solida la nostra storia. Ci siamo messi insieme per noia, per stanchezza, per sfinimento. Era normale che finisse in questo modo. In verità non litighiamo mai, perché nessuno dei due ne ha voglia, ci sembra una incombenza troppo gravosa, estenuante. Preferiamo ignorarci e condurre ognuno la propria vita, senza condividere nulla, neppure il letto. Siamo due persone di mezza età con più rimpianti che aspettative.
La pasta era davvero buona, e mi sento sazia. Chissà se riuscirò ad assaggiare anche l’ultimo piatto che ho preparato, gli spinaci gratinati. Decido di sì, poiché di sicuro ne vale la pena. Ho lavato con cura gli spinaci e poi li ho spezzettati. In una grossa padella ho fatto fondere del burro, ho aggiunto gli spinaci e, dopo averli fatti cuocere per alcuni minuti, vi ho unito del parmigiano. Poi ho messo tutto in una pirofila. Adesso la estraggo dal forno, dopo quasi mezz’ora. La gratinatura mi pare perfetta, il profumo è invitante. Mi risiedo e mangio. Mi verso ancora del vino, mi accorgo che ho quasi finito la bottiglia. Mi sento un po’ annebbiata, per nulla euforica, tormentata da mille pensieri.
Era d’inverno quando, un anno fa, mi sono innamorata di Luca. Dopo tanti mesi la mia infatuazione per lui non si è ancora attenuata. Lo incontro tutti i giorni e, per motivi di lavoro, trascorriamo insieme parecchio tempo. Non ho mai avuto il coraggio di rivelargli il mio interesse. Luca non si è accorto di niente, credo. In ogni caso non ha mai accennato a ricambiare il mio trasporto, le mie affettuosità nei suoi confronti. Non è attratto da me, non gli piaccio. Sono disperata e avvilita, spesso scoppio a piangere, come mi accade in questo momento. Sento dentro di me un grande vuoto.
È di nuovo inverno, il mio corpo è percorso da brividi. Mi sento triste e sola.