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lunedì 29 aprile 2024

AUTOBIOGRAFIA


 Ecco la mia autobiografia.

Innanzitutto, sono nato. Le circostanze della mia nascita, tuttavia, furono burrascose.

Quando mia madre avvertì le prime doglie era sola in casa. Suo marito, nonché mio padre, era al lavoro. Allora non avevamo il telefono, posseduto invece dalla nostra vicina di casa, la signorina Eleonora, vecchia zitella acida. Mia madre si fece forza, era una donna molto coraggiosa, uscì dall'appartamento e bussò a quello della dirimpettaia. La signorina Eleonora, sempre di guardia dietro lo spioncino dell'uscio, aprì subito. Appena si rese conto della situazione si mise una mano sulla bocca, sgomenta. Lei odiava, nell'ordine: le donne sposate, le donne gravide, qualsiasi tipologia di bambino. Offrì comunque a mia madre la generosa possibilità di fare una telefonata, consigliando di lasciar perdere il marito, gli uomini sono inutili in certe situazioni, e di preferire invece un tassì. Mia madre, nel frattempo, si era un po' ripresa. Le doglie, così come improvvise erano venute, allo stesso modo se n'erano andate. Ringraziò la signorina Eleonora, tornò in casa, prese dal guardaroba una borsa, pronta da mesi, e scese in strada. Si recò, con andatura prudente, alla vicina fermata del tram. Fu fortunata, perché l'attesa fu breve.   

Sbuffando, rossa in viso, salì sulla vettura, che era piena. Dapprima, nessuno le cedette il posto. Tutti fingevano indifferenza, parlavano, leggevano il giornale, guardavano dai finestrini. Infine una donna si alzò e fece sedere mia madre. Quella donna, nessuno lo sapeva tranne lei, era a sua volta incinta, ma soltanto al quarto mese.

Quando il tram giunse alla fermata precedente a quella dell'ospedale si fermò. Forse si era guastato qualcosa, forse c'era stata un'interruzione di energia elettrica sulla linea, fatto sta che non riuscì più a ripartire. Il conduttore costrinse i passeggeri a scendere. Non c'era neppure la possibilità di attendere la vettura successiva, perché i binari erano bloccati. Mia madre, ormai sfinita, si sedette sul marciapiede. La sua grossa figura in difficoltà fu subito notata da un gruppo di muratori impegnati a lavorare lì accanto. Appreso che la donna doveva recarsi con urgenza in ospedale, distante non più di cinquecento metri, decisero di aiutarla. Il loro camioncino, tuttavia, si era appena allontanato per andare a recuperare dei mattoni. Dopo un breve conciliabolo, i muratori stabilirono di utilizzare una carriola, sulla quale fu dispiegato un telo pulito. Poi, usando estrema cautela, vi adagiarono sopra mia madre. Il viaggio verso l'ospedale durò una decina di minuti. Ad accompagnare la donna gravida in carriola, oltre ai tre muratori, si unirono molti passanti. Giunti al nosocomio, mia madre fu affidata alle cure delle infermiere. Quel giorno, nel reparto maternità, era di turno un dottorino al suo primo giorno di lavoro. Appena vide la donna, e la sua condizione di imminenza al parto, fu preso dal panico. Sapeva come nascono i bambini, lo aveva appreso durante il suo corso di studi, ma la realtà era tutt'altra cosa. Per buona sorte era presente anche una anziana ostetrica, la quale invitò il medico a levarsi di torno e prese in mano la situazione. Dopo un paio d'ore di travaglio nacqui io. Tre chili e duecento grammi di neonato urlante.

Dopo quel giorno, la mia vita non fu più caratterizzata da alcun episodio di rilievo, per cui termino qui la mia breve autobiografia.

lunedì 22 aprile 2024

HOMELESS


Homeless. Mi è sempre piaciuto il suono di questa parola poiché, tutto sommato, possiede una certa soavità, una sua specifica leggiadria. Non è come pronunciare termini quali barbone, emarginato oppure clochard. No, è tutta un’altra cosa, completamente diversa. Ricordo con piacere quando, appena ragazzo, mi immergevo nella lettura di quei romanzi americani dove spesso i protagonisti erano proprio loro, gli homeless. Fantasticavo a occhi aperti su quei simpatici vagabondi, sempre pieni di risorse, che si spostavano da un capo all’altro di quello sconfinato Paese accucciandosi nello spazio tra le ruote dei treni, interminabili convogli trainati da sbuffanti locomotive a carbone. E quei tipi me li immaginavo scanzonati, sempre sorridenti, intenti a sgranocchiare con autentico gusto tozzi di pane nero e raffermo, nonché di continuo avvolti da spesse nubi di vapore. Figure romantiche, per me quasi leggendarie, intrise di una peculiare dolcezza, e alle quali non mancavano di sicuro sia il coraggio che un selvaggio spirito di avventura. L’unica loro brama, la loro sola aspirazione, era la libertà. L’affrancarsi, attraverso una scelta audace, tale da sfiorare l’insolenza, da legami, obblighi e limitazioni di tutti i generi, da imposizioni e costrizioni in grado di annientare la voglia di vivere di un essere umano. E allora partiva per loro la rincorsa verso una differente condizione, quella di uomo libero, un’ambizione che permetteva di rimuovere o almeno di attenuare la sofferenza e i patimenti, e quei treni che sfrecciavano attraverso le sconfinate pianure, che superavano i fragili ponti gettati con ardimento tra le rocce, che sostavano nelle vivaci e pittoresche cittadine, ne rappresentavano l’eloquente rappresentazione. Rapide fermate, con appena il tempo di sgranchire le gambe indolenzite dalla lunga immobilità, di stirare le braccia intorpidite, e di immergere il viso impolverato e annerito in un secchio d’acqua fresca. Oppure, a preferenza, ma sempre in nome dell’assoluta libertà, una pausa più lunga, forse un lavoro avventizio in qualche fattoria, per racimolare alcuni spiccioli da sperperare subito in una colossale bevuta, in un lauto e occasionale pasto, prima di riprendere quella folle e spensierata corsa senza lacci. Su un altro lungo treno, per scoprire altri posti, per conoscere nuova gente, e per rinnovare la meravigliosa emozione di essere completamente padroni di se stessi, di poter assumere qualsiasi decisione, immuni da influenze e dipendenze di ogni sorta.

Da allora, da quando mi smarrivo in quelle affascinanti visioni, provenienti direttamente dalle pagine ingiallite di quei libri imbevuti di intensa fragranza, di un aroma di antico, è trascorso molto tempo. È passata una vita intera. Un’esistenza che ho facilmente scordato, che ho rimosso quasi del tutto. Tuttavia, per cercare di rinnovare quei lontani e gradevoli ricordi, tutto ciò che è stato prima del nulla che è seguito, e che non desidero invece rammentare, qualche giorno fa sono andato alla stazione, alla stazione di questa immensa e crudele città. Sono entrato, con un po’ di timore, benché noncurante degli sguardi curiosi e insensibili delle persone, dei frettolosi viaggiatori, ai quali sono avvezzo, e ho camminato a lungo sulla banchina, lentamente.

Adesso i treni non sono più come quelli di una volta, sono del tutto differenti. È quasi impossibile distinguere la locomotiva dai vagoni, perché tra loro sono uguali. Ed è inutile cercare il fumaiolo, poiché non c’è. I treni sono affusolati, quasi altezzosi, e sono verniciati con colori brillanti. Le loro lamiere sono fredde, ne sono quasi certo, anche se non ho osato toccarle.

A un certo punto mi sono accostato a un vagone, uno qualsiasi dei tanti, e mi sono disteso a terra, per vedere meglio. Tutti guardavano me, ma io ho seguitato a osservare ciò che realmente mi interessava. L’ho fatto con attenzione, per lungo tempo, finché un ferroviere non mi ha costretto a rialzarmi e ad andarmene. Ma ormai avevo visto tutto, ed è stata enorme la mia delusione, doloroso il mio disappunto. Mi ero reso conto che lo spazio non c’è più! È diventato impossibile, per un uomo, seppure intrepido, riuscire a sistemarsi sotto ai vagoni per farsi trasportare sulle ali di una libertà senza confini. Alla fine, pieno di amarezza, sono uscito dalla stazione, che stava diventando sempre più rumorosa e affollata. Fuori era già quasi buio, il freddo iniziava a mordere la mia carne stanca, ed io dovevo ancora trovare una sistemazione adatta per trascorrere la notte. Chissà se il mattino dopo mi sarei risvegliato?   

 


lunedì 15 aprile 2024

L' ULTIMA CARICA


 

Mezza lega, mezza lega

avanti, una mezza lega,

nella valle della Morte

cavalcarono tutti i seicento.

" Avanti la Brigata Leggera !

Avanti contro quei cannoni ! " disse.

Nella valle della Morte

cavalcarono i seicento...    (A. Tennyson)

La carica della brigata leggera (rievocata dalla nota poesia di Alfred Tennyson) fu un celebre episodio della storia militare britannica che si verificò il 25 ottobre 1854, durante la Guerra di Crimea, nella battaglia di Balaklava, e fu un'azione militare che divenne leggenda. La brigata di cavalleria leggera britannica, composta da circa seicento unità, stretta sui fianchi dalle truppe nemiche, caricò frontalmente una batteria di artiglieria russa.

Si trattò della più famosa azione di cavalleria di ogni tempo, nonché dell'ultima grande carica di cavalleria nella storia degli eserciti. L'ordine di attacco fu, con quasi certezza, l'esito di un malinteso tra ufficiali, o di uno sciagurato conflitto tra essi, oppure di entrambe le cose.

La valle in cui avvenne la carica, profonda più di un chilometro e mezzo, teatro di una inutile e tragica carneficina, divenne "la valle della morte", così come l'azione sconsiderata dei lancieri britannici fu ricordata come "la cavalcata infernale".

Dei 666 tra ufficiali e soldati che presero parte alla carica 271 furono uccisi o feriti. Ben 395 cavalcarono per l'intera valle sotto il fuoco dei cannoni russi, attaccarono e inseguirono la cavalleria russa schierata dietro i cannoni e poi ritornarono indietro incolumi, nonostante il nemico alle calcagna.

Tenendo conto della sconsideratezza dell'azione, la conclusione rappresentò quasi un miracolo.

Lo sdegno dell'opinione pubblica britannica per l'infelice errore fu alimentato non tanto dal numero dei caduti, ma dal tremendo sospetto che non sarebbe dovuto morire un solo soldato.

lunedì 8 aprile 2024

IL NOME


"Luci!"

"Tre, due, uno... via!"

Lo studio si illuminò e la diretta quotidiana del programma Fatti Curiosi ebbe inizio.

Il presentatore e il primo ospite furono inquadrati. Erano seduti su due enormi poltrone di colore rosso, uno di fronte all'altro.

"Cari telespettatori buongiorno" esordì con la consueta formula Nino Corradi, il canuto conduttore.

"Anche oggi avrò il piacere allietare il vostro pomeriggio presentandovi fatti, persone e situazioni insolite e bizzarre. È con noi un gentile signore, del quale per il momento non rivelerò il nome, e poi capirete il perché".

"Buongiorno, signore anonimo (ah! ah!)" salutò Corradi.

"Buongiorno" rispose serio l'ospite, un uomo di mezza età.

"Non ho rivelato il suo nome perché vorrei lo dicesse lei stesso, dal momento che è proprio del suo nome che parleremo. Del suo nome proprio. Ce lo vuole dire? Prego".

"Mi chiamo Dio Padre Onnipotente" disse l'ospite, con voce ben impostata.

"Possiamo conoscere anche il suo cognome?"

"Rossi" rispose l'altro.

"Un cognome decisamente più ordinario, rispetto al nome, che invece è molto impegnativo da portare (ah! ah!). Lei da più di cinquant'anni convive con tale nome che, per una persona comune, è piuttosto ingombrante. Come ha fatto?"

"È stato un incubo, fin da quando ero piccolo".

"La scuola, immagino. Come la chiamavano i suoi compagni?"

"Mi prendevano in giro, mi chiedevano di fare miracoli e cose del genere. Mi chiamavano Onni".

"E gli insegnanti?" chiese il presentatore.

"Tutti i miei compagni venivano chiamati per nome, mentre per me si usava sempre e soltanto il cognome. Mi sentivo diverso, escluso".

"Spesso i nomi propri vengono tramandati da una generazione all'altra. Come si chiamava suo padre?"

"Mario".

"Ah! E suo nonno?"

"Mario".

"Ah! E anche il suo bisnonno si chiamava alla stesso modo?"

"No, il suo nome era Pietro."

"Di chi fu l'idea di attribuire il nome Dio Padre Onnipotente?"

"Di mio padre".

"Sua madre era d'accordo?"

"Lei non contava nulla. Mio padre era un fanatico religioso, e in casa comandava lui".

"Lei, soprattutto in giovane età, era arrabbiato con suo padre a causa del nome attribuito?"

"Molto, lo avrei ucciso, ma poi non ce n'è stato bisogno perché è morto da solo".

"Ah! Ah! Spiritoso il signor Rossi!" esclamò Corradi, nervosamente. L'ospite rimase impassibile.

"Ascolti. Il prete, al momento del battesimo, non fece obiezioni? Il nome scelto non gli apparve un po'... irriverente?"

"In effetti fece un po' di storie, ma alla fine disse che era sempre meglio Dio Padre Onnipotente piuttosto che Kevin, Ridge o stronzate simili. Forse non disse proprio stronzate, ma così la raccontava mio padre. In televisione stronzate si può dire?".

"Sarebbe preferibile di no. E all'anagrafe? Possibile che l'ufficiale dello stato civile abbia acconsentito a registrare un nome così strano?"

"Era un ubriacone. Mio padre di sicuro gli allungò del denaro".

Corradi si irrigidì.

"Non possiamo fare questo genere di accuse, signor Rossi, anche se è passato molto tempo" disse.

L'altro non batté ciglio.

"Volevo ammazzare anche lui, ma quando mi decisi a farlo non riuscii a rintracciarlo. Il bastardo era andato in pensione e si era trasferito chissà dove".

"Signor Rossi! Dio Padre Onnipotente, si moderi!"

"È andata così" disse l'altro, stringendosi nelle spalle.

"Una curiosità" disse Corradi, cercando di ricondurre l'incontro su binari più consueti. "Lei ha dei figli, vero? Come la chiamano i suoi figli, se e quando la chiamano per nome?"

L'altro ci pensò un attimo.

"Di solito mi chiamano con il mio secondo nome, Padre..." disse, un po' perplesso.

"Mi permetta un'ultima domanda, signor Rossi. Lei credo sappia che la legge consente, in determinati casi, e il suo vi rientra eccome, di cambiare nome. Perché non lo ha mai fatto?"

L'uomo si grattò la testa.

"Ci ho pensato a lungo, prima di farlo, ma adesso finalmente mi sono deciso. La pratica è in corso".

"Ottimo!" esclamò il conduttore, con finto entusiasmo. Non vedeva l'ora di concludere quella strampalata ospitata. Già stava pensando al fatto curioso successivo.

"Può dire a me a agli spettatori quale nuovo nome ha scelto?"

"Qualcosa di più semplice. Gesù".

martedì 2 aprile 2024

TOGLIERE

Togliere, a un certo punto della sua vita ritenne che fosse arrivato il momento di togliere.

Così come lo scultore asporta con pazienza piccole parti di marmo o di legno per fare emergere una figura, così come il pittore elimina, poco alla volta, gli spazi bianchi dalla tela e li riempie di colori, anche lui pensò di dover rinunciare a minute porzioni di se stesso, per fare affiorare la sua vera e intima essenza di essere umano.

Il processo di privazione fu molto lento e infinitamente lungo. Decise di iniziare dalle cose più insignificanti, in apparenza prive di valore. Minuscoli oggetti, dei quali imparò ben presto a fare a meno.

Da tanti anni portava, appesa al collo, una catenina d’oro. L’aveva indossata la prima volta quando era ancora un bambino. La sfilò, e non la mise mai più. Poi fu la volta degli anelli. Le dita non hanno bisogno di ornamenti, possono esprimere la loro nobiltà anche stando nude. Per una ragione che, sul momento, non seppe spiegare, tenne soltanto un impalpabile braccialetto di corda, umile e unico addobbo a circondare il suo polso sottile.

Chiuse in un cassetto il suo prezioso orologio, e subito si sentì più leggero. Non per il sollievo dovuto al minore peso, ma perché provò conforto nell'anima. Non avrebbe più lottato contro il tempo, entità crudele, temibile avversario in una interminabile battaglia che da sempre aveva saputo essere persa.

Si concentrò sui suoi gesti, sui suoi movimenti. Imparò a muoversi in assoluta economia, quasi scivolando, senza dissipare le energie, distribuendo al meglio le forze. Eliminò quasi tutto. Non si spostava, semplicemente si materializzava da un luogo all'altro. Almeno, questa era la sua impressione. E quella degli altri, che dopo un po’ non si meravigliarono più per tale inusuale capacità.

Alla fine si dedicò alle parole. Da sempre aveva considerato quanto le parole fossero importanti ma, allo stesso tempo, pensava anche che fossero sempre troppe. Un impiego eccessivo, un consumo immotivato, che aveva svuotato le parole del loro contenuto, del loro vero significato. Erano diventate leggere, senza spessore. Imparò, sebbene con fatica, ad utilizzarne poche, ma tutte pesanti. Parlava soltanto quando aveva qualcosa da dire di davvero importante, di significativo. Si rese conto che poteva stare anche per interi giorni senza aprire bocca. Piuttosto che pronunciare parole vuote preferiva ascoltare. In tal modo apprese molto. Scartò il superfluo, ciò che non era necessario, e si accorse che rimaneva ancora molto.

Togliere, aveva deciso di togliere. E l’aveva fatto.

Che cosa era rimasto di lui? In verità non lo sapeva, però era certo, a quel punto, di essere pronto.

Era ormai pronto per qualsiasi cosa.