“Per quale squadra fai il tifo?”
Ecco, questa è la domanda alla quale tutti, prima o dopo,
abbiamo dovuto rispondere. Fortunato chi se la può cavare dicendo che non segue
il calcio oppure, con maggiore perfidia, domandando all’interlocutore che cosa
ci sia di tanto appassionante in ventidue giocatori in mutande che inseguono un
pallone. Ma chi invece considera il calcio come uno sport davvero avvincente
che cosa deve fare? Tacere? Svelare la propria fede?
Ero in prima elementare quando mi trovai di fronte, per la
prima volta, a tale dilemma. Neppure per un istante esaminai la possibilità di
stare zitto. Semplicemente, tale eventualità non era prevista. E mi adeguai di
buon grado, rivelando il nome della squadra del cuore. Una compagine milanese,
della quale non faccio il nome e che, in quel periodo, mieteva allori. Per
molto tempo nessuno mi chiese più nulla, ormai ero stato etichettato e ciò era
più che sufficiente. Inoltre, si sa che per il vero tifoso la prima squadra è
per sempre. Non si può più, per nessuna ragione, cambiare idea. Per tutta la
vita. Questo vale, come detto, per l’autentico tifoso. Ma chi vero tifoso in
realtà non è - pur essendo comunque un grande appassionato - può trasgredire
tale rigido precetto?
Cominciai a seguire il calcio con reale passione durante
Mexico ’70. Allora il torneo non si chiamava Coppa del Mondo bensì Coppa Rimet,
in omaggio a Jules Rimet, un dirigente calcistico francese e presidente della
federazione internazionale, l’ideatore dei
campionati mondiali di calcio (la prima edizione si è svolta nel 1930). Da
allora non ho più smesso di interessarmi a questo piacevole sport, che a volte
può essere addirittura entusiasmante.
In tutti questi anni (e ormai sono già tanti) tuttavia non
ho mai cessato di interrogarmi sulla solita questione: si può esseri veri
appassionati pur senza essere tifosi sfegatati? O, peggio ancora, esagitati?
Per prima cosa ho cercato di capire se io fossi o meno un
tifoso. Essere tifosi di qualsiasi sport
e in particolare di calcio vuol dire essere affetti da una sorta di forte
accesso febbrile, cioè trovarsi in una condizione patologica. Essere malati,
insomma. Il tifo per di più può degenerare in tumulti, risse e atti di
teppismo. In offese di ogni genere, in insulti razzisti. Per accedere allo
stadio, e poter quindi tifare, è oggi necessario addirittura essere schedati.
Per i veri tifosi il concetto di sportività non ha alcun significato, non
esistono avversari ma soltanto rivali, è l’imperativo non è giocare bene e
divertire ma vincere, ad ogni costo, impiegando qualsiasi astuzia e
sotterfugio.
Alla luce di tutto ciò posso affermare, con assoluta
sicurezza, di non essere un tifoso. E la mia convinzione si rinsalda ancora di
più ripensando al terribile gesto compiuto tempo fa, alla mia tremenda
trasgressione. Un fatto veramente grave. D’accordo, quando l’ho commesso avevo
poco più di dieci anni, posso invocare a mia discolpa numerose attenuanti
comunque non sufficienti ad attenuare tale misfatto. Insomma, ho cambiato
squadra. No, non sono proprio un tifoso, anche se questa constatazione in fondo
mi rallegra. Perché potrò continuare a seguire il calcio – come ho sempre
fatto, d’altronde – in veste di semplice appassionato. Continuerò a sostenere la mia
compagine preferita in maniera morbida, e di sicuro non mi negherò il piacere
di ammirare le altre grandi squadre, come mi è capitato di fare ad esempio con
l’Olanda di Cruyff, con alcune versioni del Brasile, con il Barcellona di
questi ultimi anni. E lo farò facendo bene attenzione a stare lontano da un certo
mondo, becero e violento, che non mi appartiene.
Il calcio rimane, in ogni caso, uno sport del tutto singolare, uno sport che è anche un gioco. Dove la tecnica, la tattica e le
strategie di gioco convivono con l’agonismo e con le doti atletiche. Una
raffinata partita a scacchi che, in qualsiasi momento, può trasformarsi in duro
scontro. Il tutto, beninteso, sempre nel rispetto delle regole sportive.
Il calcio può benissimo fare a meno dei tifosi, non potrà
invece mai rinunciare ai veri estimatori.
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