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mercoledì 30 maggio 2012

VITA PARALLELA



Solo in ufficio, per almeno un’ora. Lo ammetto, è uno sforzo terribile alzarsi all’alba. Be’… quasi all’alba. Alle otto, più o meno. In ogni caso si tratta di una incredibile sofferenza. Però ne vale la pena, perché ho la possibilità di stare per un po’ di tempo in completa e perfetta solitudine. Prima che arrivino tutti gli altri rompiballe, e mi riferisco a colleghi e colleghe. Non perdo tempo e ancora prima di sedermi accendo il computer. Sapeste quanto mi fa incazzare questa vecchia carretta! Per avviarsi impiega una vita, ed io sempre lì, in piedi, in apprensione, in attesa che si illumini il maledetto schermo. Quando vedo le familiari icone inizio a rilassarmi un po’, e finalmente appoggio le terga sulla sedia. Il dito indice si precipita sul mouse unto e lo martella con violenza. La sequenza è sempre la stessa, ormai ben scolpita nella mia mente. Apro Facebook, poi Twitter e Google Plus. Quindi passo a My Space, Messenger, Badoo e LinkedIn. Prendo fiato e libero My Life, i tre indirizzi di posta elettronica e, perché no, pure Surfpeople, al quale sono iscritto da poco. Alla fine clicco su un paio di quotidiani on-line, sempre gli stessi, ma leggo soltanto i titoli di alcuni articoli, di sfuggita, poiché i testi mi annoiano. Tutto fermo. Nessuno mi ha scritto, nessun nuovo contatto o proposte di amicizia, tweet insignificanti e incomprensibili e, comunque, mai indirizzati direttamente a me. Sono deluso, e il senso di frustrazione mi induce a non fare nulla, a non agire. Rimango passivo, come sempre. Certo, è trascorso troppo poco tempo da quando ho visitato tutti i siti, che cosa pretendo? Era mezzanotte, o forse l’una. Oppure le due? La convinzione che in questi cazzo di social network non accada mai nulla tuttavia si rafforza. A ogni buon conto ne apprezzo l’unico aspetto positivo: è trascorsa più di mezz’ora ed è l’ora del caffè. Via, verso il bar, in compagnia dei soliti vecchi sfigati. Cornetto d’annata, caffè freddo ma non ordinato come tale, tavolino ricoperto di briciole, trambusto, stupida musica sparata ad volume. Ma chi se ne frega? Non siamo mica qui per questo. L’unica ragione della nostra presenza sono le cameriere. Ne abbiamo viste invecchiare molte, in locali diversi. Forse siamo invecchiati anche noi. Forse, ma non ci voglio pensare. Le bariste, occupiamoci delle bariste. Le guardiamo, le osserviamo, le valutiamo, le soppesiamo, le misuriamo, le analizziamo, le esaltiamo e, all’occorrenza, le denigriamo. Sbavare no, però. Il residuo di dignità che siamo riusciti a conservare ce lo impedisce. L’apice è raggiunto quando una delle ragazze si avvicina al tavolo per servire i caffè. L’azione di chinarsi è inevitabile. Occhi avidi scrutano la scollatura, si intrufolano in essa. Quando c’é. Non c’è nulla di peggio di una cameriera con una maglietta accollata. Giornata persa, in pratica. Uno sguardo stanco sulle forme prosperose della stessa, quasi un obbligo, ed è già ora di andare via, di salutare i compagni di sventura e di rituffarsi nella claustrofobica vita d’ufficio.
Di nuovo seduto. Le dita ora snobbano mouse e tastiera e ghermiscono invece la cornetta del telefono. Chiamo Mara. Merda, non risponde. Non risponde quasi mai e in più non mi richiama. Merita di essere inserita in fondo alla sequenza, per punizione. Ci penso un attimo e poi considero che sarebbe più che altro una auto-punizione. Non faccio modifiche, vuol dire la richiamerò più tardi, cioè tra cinque minuti. Passo a Chiara, che è ben lieta di sentirmi. Non so che dirle e dopo un minuto di semi-silenzio riattacco. Sto per fare il numero di Nunzia ma, proprio in quel momento, la mia collega Alessia transita nelle accanto a me, completamente assorta, con un foglio tra le mani. Con noncuranza, senza che lei se ne avveda, tento di annusarla. Lei non si accorge di nulla, ma il mio obiettivo è raggiunto solo in parte. Profuma di buono, credo.
Decido di sgranchirmi le gambe. Mi alzo, vago per un po’ per il corridoio e poi mi dirigo nell’ufficio di Gisella. Mi siedo di fronte a lei, che sembra molto occupata. La guardo lavorare, ammiro la sua solita e grande efficienza. Concentro lo sguardo sul suo braccio, la parte di lei che amo di più. La spalla nuda, il bicipite magro e scolpito, l’avambraccio tonico e sottile, ricoperto da una quasi invisibile peluria nera. La mano affusolata e nervosa, le unghie dipinte di verde e con la punta lilla. Che cosa può esserci di più sensuale? La mia condizione di estasi dura poco perché trovo subito una risposta alla mia domanda. Il fondoschiena di Liliana! Completamente perso nel turpe pensiero, senza salutare Gisella, mi fiondo verso la stanza della bionda collega. Durante il tragitto penso a qualcosa che potrei dire per  indurla ad alzarsi dalla sedia, a voltarsi, a rivolgermi quel lato che più apprezzo di lei… Quasi mi schianto contro la porta del suo ufficio. Chiusa a chiave.
“È in ferie!”
 Imbarazzato, mi volto. Quella voce stridula appartiene ad Egle, la pettegola segretaria del capo.
“Non importa, tornerò domani” dico, ancora a disagio.
“È in ferie per tre giorni” dice ancora lei. E sembra soddisfatta, la stronza.
Con la coda tra le gambe, torno in ufficio e mi attacco al telefono. Miriam, che c’è. Laura, che non c’è. Due parole con Domenica. Invito Lucia per un caffè, il giorno dopo. Rifiuta, come sempre. Ma che si crede di essere? Potrei chiamare Anna, ma non la sento da tempo e potrebbe non riconoscermi. Basta figure di merda, per oggi. Mi appoggio allo schienale e rifletto. Sulla mia misera esistenza? No, su come riuscire ad avvicinarmi il più possibile ad Alessia per completare l’annusata. Mi perdo in quell’odoroso pensiero.
Quasi non me ne sono reso conto e la giornata è ormai trascorsa.
Che dite? Avete l’impressione che io non abbia lavorato? Che abbia rubato lo stipendio? Che sia un parassita? Un fannullone?
No, vi sbagliate.
Vi assicuro che ho lavorato molto. Con impegno, con il solito calvinista senso del dovere. E sono stanco, sono davvero molto stanco.
Non fatevi ingannare da ciò che ho raccontato. Ho riferito soltanto una piccola parte di ciò che è avvenuto oggi. La mia vita lavorativa parallela. L’unica che ricordo. L’unica che sia veramente importante. Di tutto il resto, che pure c’è stato in abbondanza, non ricordo nulla.
Che ci crediate o no.  

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