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mercoledì 9 febbraio 2022

RAGIONE E SENTIMENTO

 

Appena seduti, ci scrutammo a lungo. Occhi negli occhi. A lungo.
Non è semplice sostenere per tanto tempo lo sguardo di un’altra persona. Quasi impossibile quando si tratta di uno sconosciuto. Oppure di una sconosciuta. Tale esercizio per riuscire richiede, da parte dei due, l’esistenza di un elevato grado di confidenza, esige intimità e complicità.
Eppure io lo stavo facendo, senza alcun timore. Assenza assoluta di smarrimento. In me, e anche in lui.
Il locale che avevamo scelto, per puro caso, era senza dubbio squallido. Nient’altro che un misero bar di periferia. Il primo che avevamo trovato dopo un prolungato girovagare. Stanchi, eravamo entrati e ci eravamo accomodati a un tavolino proprio in fondo, un po’ nascosto.
Oltre a noi due, naturalmente, non c’era nessuno. Perché era un orario particolare, un momento indefinito. Né carne né pesce. Non era mattino, quando gli avventori si precipitano al bancone ordinando brioches, caffè e cappuccini. O panini alla mortadella e un bicchiere di vino bianco, se si tratta di camionisti. Sì, quello sembrava proprio un bar per camionisti, e per  frettolosi operai. Di quelli che mentre azzannano il sandwich buttano un’occhiata distratta ai giornali sportivi, a qualche donna presente nel locale. E poi se ne vanno a lavorare compiaciuti, con lo stomaco pieno e un sorrisino sulle labbra. Un illusorio buon umore destinato a spegnersi presto, appena inizieranno a faticare.
E non era nemmeno l’ora del pranzo, con tutti quei piatti e piattini colmi di cibo di plastica malamente riscaldato che viaggiano tra un tavolo e l’altro in una immensa confusione e che vengono ingurgitati in tutta fretta.
Il bancone era vecchio, rivestito di formica di colore verde chiaro.
Era invece pomeriggio, per esattezza l’ora del tè. Ma in locali come quello nessuno beve tè. Per tale ragione eravamo soli. Il barista, al nostro ingresso, si era sforzato di essere gentile. Però si intuiva la sua fretta. Quella di chiudere, probabilmente, perché considerava la sua giornata ormai conclusa. Di sicuro il suo non era un posto da frequentare la sera. Si percepiva la sua impazienza, la sua voglia di rovesciare le sedie sui tavolini, di passare uno straccio lurido sul pavimento lercio, di rimettere al loro posto bicchieri, tazze, tazzine e bottiglie, e di abbassare finalmente la pesante serranda arrugginita. E invece no, non lo poteva fare, perché noi avevamo avuta la bella pensata di entrare proprio in quel momento cruciale. Quando non ci eravamo fermati al bancone ma ci eravamo diretti risoluti, un po’ furtivi, al tavolino nell’angolo, per un istante avevo letto nei suoi occhi sbiaditi la più limpida disperazione. Un attimo, soltanto un attimo, poi l’uomo si era ripreso, aveva atteso qualche minuto e si era avvicinato a noi per prendere le ordinazioni.
Ci eravamo rifugiati in quel bar non per desiderio di consumare qualcosa, ma perché sfiniti, non tanto nel corpo quanto nell’anima. Ci stupimmo quasi quando l’uomo si accostò. Che cosa voleva da noi quel tipo? Poi recuperammo un lembo di lucidità, ben poca in verità, il minimo necessario per ordinare due caffè. Quando si è colti alla sprovvista si finisce sempre per ordinare un caffè.
Fuori, attraverso la vetrata, vedevamo scorrere un traffico incessante di automobili. Le lame di luce dei fari fendevano lo scuro nascente del pomeriggio invernale.
Ci guardammo. Ancora e ancora, finché un lieve sorriso deformò la linea delle nostre labbra screpolate.
Lui appoggiò la sua mano sulla mia. Mi accarezzò con finta indifferenza la punta delle dita. Poi la spostò sul dorso. I suoi gesti erano incerti e impacciati, perché io stavo immobile, non reagivo e mi limitavo a fissarlo, anche se il mio corpo era percorso da brividi. Mi sistemai meglio sulla sedia. Nel farlo, mi avvicinai di più a lui, sporgendo il busto in avanti. Lui, con l’altra mano, mi scostò una ciocca di capelli. Lo fece in maniera goffa, ma con grande tenerezza. I suoi occhi chiari brillavano febbrili.
Piegai il capo di lato, imbronciai le labbra, cercai di assumere un’espressione che apparisse allo stesso tempo seducente e divertita.
“Che cosa vorresti fare?” domandai.
Mi godetti per alcuni secondi il suo stupore, il suo grande sbalordimento. Sapevo bene che cosa avrebbe voluto rispondere. Sapevo bene che non lo avrebbe fatto. E infatti.
“Non lo so” disse.
La sua mano si era spostata sulla mia coscia.
“Tu sai che cosa voglio” aggiunsi. E lui comprese. Nello stesso momento intesi il suo sconforto, il suo profondo abbattimento. Subito mi pentii della mia affermazione. Troppo diretta, addirittura crudele, ma ormai era troppo tardi.
Colpito, cercò comunque di reagire, facendo ricorso alla sua abituale elegante eloquenza. Una dote che, quando era solo con me, spesso smarriva.
“Un saggio cinese diceva che quando stai per essere travolto dagli avvenimenti della vita ti devi fermare” disse, incerto.
“Non capisco” risposi, anche se non era vero. Lui cercò di precisare, ma era in difficoltà.
“Dobbiamo smettere di correre” disse. “Cerchiamo di congelare questo momento, che dovrebbe essere bello e non doloroso, e riflettiamo. Cerchiamo di usare la ragione, non roviniamo tutto.”
“Il sentimento prevale sempre sulla ragione” dissi.
Lui mi accarezzò la spalla, la massaggiò per alcuni istanti. Poi ritirò la mano, sconfitto. Abbattuto. Annientato. Il suo volto, una maschera di dolore e tristezza.
I caffè, nel frattempo, si erano raffreddati. Li bevemmo lo stesso. Poi lui guardò l’orologio.
“Per te è tardi” disse, con un filo di voce.
“È vero, non mi ero accorta che fosse trascorso così tanto tempo”.
Presi il giaccone e lo indossai, lui fece lo stesso. I nostri gesti erano lenti, sofferti. Andò alla cassa e pagò. Il barista non riuscì a nascondere il suo sollievo. Ci diede la buonasera con eccessivo entusiasmo, e in tal modo si tradì.
Uscimmo fuori, al freddo e al buio. Il gelo autentico era però racchiuso all’interno dei nostri corpi. Fui assalita da un tremendo senso di sconforto. Nessuno dei due parlò per alcuni minuti. Infine ci lasciammo, con un saluto timido, appena sussurrato. Lo osservai sparire nella foschia, il passo trascinato, ingobbito.
Avevo recitato la mia parte, e non avevo potuto evitare di farlo. Era essenziale per conservare la stima nei confronti di me stessa. Tuttavia per lui provavo compassione. Una pena che in breve si trasformò in rinnovato affetto, forse anche qualcosa di più ma che non osavo ammettere. In fondo aveva cercato di essere leale, non aveva tentato di incantarmi. Meritava il mio rispetto.
Avrei tentato di rimediare l’indomani, quando ci saremmo rivisti. Perché era qualcosa a cui non potevo rinunciare. Almeno per il momento…