Mi piace pensare mentre cammino, anche se spesso i pensieri
mi sfuggono. Non riesco a trattenerli a lungo, scivolano via, come se fossero
ricoperti di sapone. Arrivano, si sovrappongono e si confondono, tutto dura un attimo e
nulla si fissa nella mia mente. A meno che le mie riflessioni riguardino qualcosa
di ossessivo, di tormentoso, che mi provoca dolore. In tal caso tutta la mia forza
di volontà e la mia concentrazione non sono sufficienti a scacciare ciò che mi
assilla. Dopo un po’, quando mi rendo conto che la mia lotta è vana, mi
arrendo. Accetto la sconfitta, e mi rassegno a soccombere sotto il peso di
elucubrazioni che mi trafiggono così come il coltello penetra il burro. Con
facilità, senza che sia opposta la minima resistenza. Sintomi, questi sono
soltanto i sintomi, gli indizi di una malattia che, proprio quando sono più debole,
più indifeso, a volte mi colpisce. Per questa patologia non esiste cura immediata,
né definitiva, dice il mio medico. Bisogna essere pazienti, saper aspettare. È necessario
attendere lo scorrere del tempo, il solo elemento in grado di lenire tale
affezione, aggiunge. Ogni volta non gli credo e pretendo una cura. Si tratta di
una malattia antica quanto l’umanità, e non è possibile che non esista un
rimedio, qualcosa che mi possa guarire subito, qualcosa che impedisca al male
di ritornare. Quando sarai vecchio, dice sempre il mio medico, quando sarai
vecchio non ti capiterà più e potrai finalmente vivere in pace. Allora sarai
finalmente immune, non dovrai più temere niente. Se non la morte, aggiungo io
prima di congedarmi da lui, sconsolato. Ma io non intendo aspettare di essere
anziano per guarire, voglio vivere sereno fin da ora, voglio gustarmi ogni attimo
della mia vita presente senza il continuo incubo di una possibile ricaduta.
Non mi sento bene, da qualche giorno accuso i soliti
sintomi, quelli che ormai ho imparato a riconoscere. Sto andando da lui, dal
medico. E questa volta dovrà aiutarmi, perché lo pretendo. Non mi potrà liquidare
con le solite scontate parole, mi dovrà curare seriamente, una volta per tutte.
Mi dovrà prescrivere dei farmaci efficaci, che possano risanarmi in breve
tempo. So che esistono, e non riesco a comprendere perché mi siano negati. È proprio
necessario che io soffra? A quale scopo? Non mi interessa se la malattia che mi
affligge sia piuttosto comune, come ripete il medico, ciò che conta per me è
liberarmi per sempre da questa condizione di estrema sofferenza, che mi provoca
sia euforia che tristezza, ma soprattutto tanta indicibile tristezza. Il
dispiacere, la pena e la prostrazione, se duraturi, sono tutti segnali
positivi, afferma il mio medico, perché indicano l’avvenuta guarigione. Già,
la guarigione. Ma fino a quando potrò considerarmi ristabilito? Al prossimo
mese? Al prossimo anno? Fino a domani? È proprio questa incertezza che mi
uccide poco alla volta.
Cammino e penso. Anzi, cammino e subisco i miei pensieri. Sorrido,
e l’istante successivo mi incupisco, vedo tutto nero. Poi mi riprendo, e per
qualche momento sono felice, prima di ripiombare nella più tetra disperazione.
Sto camminando troppo in fretta. Rallento il passo, non
vorrei arrivare in anticipo, quando l’ambulatorio è ancora chiuso. Non voglio
sostare sul marciapiede, attorniato da tutti quei vecchi. Quei logori fantasmi
dal corpo minato ma con l’animo quieto, perché loro non possono più ammalarsi.
Mi riferisco alla mia malattia, naturalmente. Chissà se davvero è così, se è proprio
come dice il medico. Forse lo dice soltanto per consolarmi, per farmi stare
tranquillo. Forse si possono ammalare anche loro, i vecchi. Mi è difficile
immaginarlo, ma ciò non vuol dire che non sia possibile. A tale pensiero
rabbrividisco, mi auguro che il mio medico sia una persona sincera, e che non mi
inganni.
Adesso mi torna in mente Patrizia. Tutte le volte che sto
male penso sempre a lei. Mi sono ammalato la prima volta proprio quando l’ho
incontrata. Allora ero molto giovane, e lei lo era ancora di più. Mi è accaduta
la stessa cosa quando stavo con Erika, anche se in quel caso l’affezione è
stata più leggera, quasi sopportabile. Non è andata così con Gianna, con Francesca
e con Michela. Per non parlare di Fulvia. Ricordo con angoscia quel lungo periodo di tempo, durante il quale sono
stato malissimo. E poi... poi tante altre volte. Tanti nomi, ma sempre la stessa terribile malattia.
Sono arrivato. Entro con decisione nello studio medico. Sono
stufo, non ne posso più. Voglio guarire. Esigo di essere guarito. Non voglio
più stare male, non voglio più soffrire. Mai più.
Non mi voglio più innamorare.
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