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domenica 15 aprile 2012

L'ARMADIO



Il nostro dirigente ha appena ottenuto una promozione. Un’altra. È sempre la stessa storia: chi non merita progredisce mentre gli altri, ad esempio il sottoscritto, rimangono fermi al palo. Purtroppo è così, le ingiustizie tendono a perpetuarsi. Non c’è proprio nulla da fare.
A differenza delle altre volte, però, il comportamento del nostro responsabile è stato differente.
Dovete sapere che sto parlando di un uomo molto riservato, qualcuno dice addirittura villano, che non ama il contatto con la gente, e ancora meno con i suoi sottoposti. Che se ne sta tutto il giorno chiuso nel suo elegante ufficio a impartire direttive attraverso il telefono.
Quindi siamo rimasti tutti piuttosto sorpresi quando, di buon mattino, si è presentato nella nostra stanza. Erano trascorsi anni dall’ultima volta che l’aveva fatto.
Immediatamente abbiamo smesso di parlare, abbiamo chinato la testa e abbiamo finto di lavorare. Ma lui non ha badato a questo aspetto della nostra attività lavorativa, alludo alla eccessiva indolenza, bensì ha sorriso e annunciato che ci sarebbe stata una piccola festa. Il dirigente è un uomo di alta statura, rigido nei movimenti, con una gran testa. Mi riferisco alle dimensioni del cranio, ovviamente. I suoi pochi e sottili capelli, dall’attaccatura arretrata sulla fronte ampia, sono sempre arruffati e bisognosi di pettine.
Ha comunicato che ci sarebbe stato un rinfresco per festeggiare il suo ulteriore avanzamento di carriera. Rilassati ma non troppo, io e i miei colleghi ci siamo alzati dalle scrivanie e lo abbiamo attorniato. Io gli ho stretto la mano senza dire nulla, e mi sono sentito alquanto stupido. La mia collega Mary, più espansiva, ha pronunciato ingarbugliate parole di congratulazione e poi lo ha baciato sulle guance. Lui dapprima si è ritratto, poi si è sottomesso a quella inaspettata violenza anche se è arrossito come un peperone. Di quelli rossi, naturalmente.
Subito dopo, a sorpresa, sono entrati due camerieri. Li abbiamo riconosciuti come tali perché indossavano una giacca uguale, di un tremendo colore giallognolo. Con gesti svelti e precisi hanno steso una tovaglia di carta sul nostro inutilizzato e impolverato tavolo per riunioni.
Al loro successivo ingresso hanno portato le bevande: acqua naturale, acqua gassata e… acqua lievemente frizzante. C’è stato un generale sospiro di delusione. D’altra parte, si sa che non è consentito bere alcolici durante l’orario di lavoro. Tuttavia avremmo gradito volentieri un’eccezione alla regola, anche se era mattino. Poi è arrivato il primo vassoio, non tanto grande, per la verità. Conteneva dei pasticcini di svariati colori, troppi colori, e perciò non molto invitanti. Ne abbiamo consumato uno a testa, cercando di masticare in silenzio e facendo bene attenzione a non spandere crema su giacche, cravatte e camicette. Lui non ha mangiato. Poi i camerieri sono di nuovo usciti e hanno fatto ritorno dopo alcuni secondi con un piccolo vassoio di pizzette e salatini. Io e i miei colleghi abbiamo scambiato uno sguardo obliquo. Perché servire le paste salate dopo quelle dolci? Un vero e proprio orrore alimentare. Ci siamo domandato, stando muti, se quel deficiente l’avesse fatto apposta. Se la sua intenzione fosse la solita, cioè quella di umiliarci. Non pareva così. Il dirigente ha continuato a dispensare sorrisi. Mi ha invitato a prendere un secondo salatino, raccomandandomi di scegliere quello con le alici piccanti, un’autentica delizia, a suo dire. Vincendo la nausea e i conati di vomito, l’ho accontentato. Come prima, lui non ha consumato nulla. A un tratto ha avvicinato alle labbra il bicchiere di plastica pieno a metà di acqua naturale, ma non ha bevuto. Nessuno se n’è accorto, tranne me.
Poi, all’improvviso, ha detto che la festa era finita. Ha aggiunto che per noi ci sarebbe stata ancora un’ultima sorpresa. Aveva deciso di farci un regalo. Qualcosa di utile, ha precisato.
La porta dell’ufficio si è spalancata di colpo, e due facchini sudati hanno trascinato all’interno un grosso armadio. Badate bene, non un mobile da ufficio, di quelli in lamiera sottile e con i battenti di vetro. No, si trattava invece di un ingombrante armadio di legno, usato ma di certo non un pezzo di antiquariato. Enorme, marrone scuro, cupo e opprimente.
Il dirigente ha impartito comando ai due uomini di collocare l’armadio accanto alla mia scrivania. Loro hanno risposto con un grugnito e hanno eseguito. Il grosso mobile ha ostruito per metà la finestra, l’unica presente nel locale. Non ho osato esprimere rimostranze. Nessuno ne ha avuto il coraggio. Qualcuno, forse quel cretino di Pino, deve pure aver ringraziato. Ci siamo guardati in faccia, depressi e allibiti.
Quando ci siamo voltati, il dirigente non c’era più.

Da allora è trascorso un po’ di tempo. Da quando sono costretto a convivere con quel catafalco al mio fianco, voglio dire. La luce sul mio piano di lavoro è scarsa. Non ci vedo bene, e sono stato obbligato a procurarmi un nuovo paio di occhiali. Nessuno di noi ha mai aperto l’armadio. Non ne abbiamo mai avuto il coraggio. E non sappiamo se dentro ci sia qualcosa. Né lo abbiamo utilizzato per riporre le nostre pratiche. In verità ne abbiamo paura. Io ne sono terrorizzato. Perché di quell’uomo, del nostro dirigente, non mi sono mai fidato.

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