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venerdì 6 aprile 2012

GIU' AL NORD



Il tonfo è stato udito in tutta la ricca pianura. E tra le montagne. È crollato l’idolo, il totem, il feticcio. Il capo, il fiero condottiero, il comandante, la guida. Il velo verde si è squarciato. La sempre proclamata diversità si è trasformata in misera conformità. Tutti uguali, nel peggio, nella drammatica mancanza di ogni etica. Nella rincorsa al denaro, al facile arricchimento. Un conformismo triste, che non lascia speranza.
E i delfini, dietro ai sorrisi artificiali, ai falsi cordogli, riprendono a tessere le loro trame di potere. Triumviri da operetta. Le trote ottuse sono diventate famelici squali. Maturi nullafacenti, generati dai virili lombi del generale, avidi dissipatori. Amici ipocriti, collaboratori fraudolenti. Il sole delle Alpi con i suoi raggi ingannatori. E i commedianti, raccolti in cerchio e ingrassati nei pascoli romani. Tutti sapevano e nessuno sapeva. Il tesoriere ladro. E il duce padano geme, borbotta, sbava, crolla e si ribella. I complotti delle procure, evocazione del nulla, infelice raffigurazione di una malinconica deriva.   La malattia, la sofferenza. Di colpo tutto è realtà virtuale, finta, un immenso spettacolo in onore del leader. Dove trionfano la menzogna, la truffa e il raggiro. L’infelice capopopolo è manipolato, piegato agli interessi personali, buggerato. Ridotto a ridicola macchietta a sua insaputa. E sono sempre loro, i compagni, le consorti, gli amati e sfrontati pargoli, le astute e spietate badanti nero crinite. Sono loro gli artefici della caduta, i barbari cupidi e smaniosi, tutt’altro che sognanti.  E poi i simboli, gli emblemi, le sciocche allegorie. Spadoni di cartapesta, elmi cornuti, scudi e ampolle. Acque magiche. Cerimonie da farsa. E il linguaggio duro, sprezzante, tracotante, pervaso da razzismo talmente esibito da apparire falso, costruito. Come tutto il resto. Come gli insulti, le ingiurie, gli oltraggi e le offese. Il ripetuto e impunito vilipendio. Le sbruffonate, le guasconate, le spacconate. E smargiassate e vanterie, fucili, baionette e uomini pronti al sacrificio. Il sindacato padano che non c’é. Le automobili, gli immobili. Ma anche le spese del dentista, del chirurgo plastico, del muratore e dell’idraulico. I diplomi comprati, le scuole private. Simbologia e magia, tutto insieme, con le corse ciclistiche e i tornei di calcio, le gite sul battello. E i sospetti ed oscuri legami con gente criminale, il patto di ferro con il satiro di Arcore. I danni, la devastazione di un intero Paese. Mafiosi e camorristi in salvo, sprofondati beati sui rossi scranni del Parlamento. La supina complicità nell’attestare, senza vergogna, senza alcun pudore, di giovani e procaci nipoti di sovrani egizi. La reincarnazione di Alberto da Giussano brontola e bofonchia, agita il dito medio e il sigaro spento. Il sigaro e il dito, sbiadita rievocazione fallica di un celodurismo ormai scomparso, di una vigorosa e ostentata fisicità che è ormai lontano ricordo. Ma lui non si rassegna, anche se ormai è un vinto. Sconfitto dalla vita, dalle azioni svolte ma ancora di più da quelle non compiute, la gran parte. Promesse e illusioni tante, tutte vane.  Ormai il vecchio e patetico guerriero è storia, è cronaca recente e passata, non presente e mai più futura, è miserabile narrazione di un tempo che è stato.
È rimasto un popolo tradito, un popolo orfano e incredulo e sbigottito ora come sempre in passato è stato convinto e fiducioso. Nelle virtù del Capo, nelle sue idee e nei suoi sconsiderati ideali, nei sogni che invece non si realizzeranno mai.
Tutto è franato, tutto si è dissolto o si dissolverà. Nulla sarà come prima.
L’edificio sarà ricostruito, ma sarà diverso. Un’altra casa. Un’altra cosa.

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