Il tonfo è stato udito in tutta la ricca pianura. E tra le
montagne. È crollato l’idolo, il totem, il feticcio. Il capo, il fiero condottiero,
il comandante, la guida. Il velo verde si è squarciato. La sempre proclamata
diversità si è trasformata in misera conformità. Tutti uguali, nel peggio,
nella drammatica mancanza di ogni etica. Nella rincorsa al denaro, al facile
arricchimento. Un conformismo triste, che non lascia speranza.
E i delfini, dietro ai sorrisi artificiali, ai falsi
cordogli, riprendono a tessere le loro trame di potere. Triumviri da operetta. Le
trote ottuse sono diventate famelici squali. Maturi nullafacenti, generati dai
virili lombi del generale, avidi dissipatori. Amici ipocriti, collaboratori fraudolenti.
Il sole delle Alpi con i suoi raggi ingannatori. E i commedianti, raccolti in
cerchio e ingrassati nei pascoli romani. Tutti sapevano e nessuno sapeva. Il
tesoriere ladro. E il duce padano geme, borbotta, sbava, crolla e si ribella. I
complotti delle procure, evocazione del nulla, infelice raffigurazione di una
malinconica deriva. La malattia, la sofferenza. Di colpo tutto è
realtà virtuale, finta, un immenso spettacolo in onore del leader. Dove trionfano
la menzogna, la truffa e il raggiro. L’infelice capopopolo è manipolato, piegato
agli interessi personali, buggerato. Ridotto a ridicola macchietta a sua
insaputa. E sono sempre loro, i compagni, le consorti, gli amati e sfrontati
pargoli, le astute e spietate badanti nero crinite. Sono loro gli artefici
della caduta, i barbari cupidi e smaniosi, tutt’altro che sognanti. E poi i simboli, gli emblemi, le sciocche
allegorie. Spadoni di cartapesta, elmi cornuti, scudi e ampolle. Acque magiche.
Cerimonie da farsa. E il linguaggio duro, sprezzante, tracotante, pervaso da
razzismo talmente esibito da apparire falso, costruito. Come tutto il resto. Come
gli insulti, le ingiurie, gli oltraggi e le offese. Il ripetuto e impunito
vilipendio. Le sbruffonate, le guasconate, le spacconate. E smargiassate e
vanterie, fucili, baionette e uomini pronti al sacrificio. Il sindacato padano
che non c’é. Le automobili, gli immobili. Ma anche le spese del dentista, del
chirurgo plastico, del muratore e dell’idraulico. I diplomi comprati, le scuole
private. Simbologia e magia, tutto insieme, con le corse ciclistiche e i tornei
di calcio, le gite sul battello. E i sospetti ed oscuri legami con gente criminale, il patto di ferro con il satiro di Arcore. I danni, la devastazione di un intero
Paese. Mafiosi e camorristi in salvo, sprofondati beati sui rossi scranni del
Parlamento. La supina complicità nell’attestare, senza vergogna, senza alcun
pudore, di giovani e procaci nipoti di sovrani egizi. La reincarnazione di Alberto
da Giussano brontola e bofonchia, agita il dito medio e il sigaro spento. Il
sigaro e il dito, sbiadita rievocazione fallica di un celodurismo ormai scomparso, di una vigorosa e ostentata fisicità
che è ormai lontano ricordo. Ma lui non si rassegna, anche se ormai è un vinto.
Sconfitto dalla vita, dalle azioni svolte ma ancora di più da quelle non
compiute, la gran parte. Promesse e illusioni tante, tutte vane. Ormai il vecchio e patetico guerriero è storia,
è cronaca recente e passata, non presente e mai più futura, è miserabile
narrazione di un tempo che è stato.
È rimasto un popolo tradito, un popolo orfano e incredulo e
sbigottito ora come sempre in passato è stato convinto e fiducioso. Nelle virtù
del Capo, nelle sue idee e nei suoi sconsiderati ideali, nei sogni che invece
non si realizzeranno mai.
Tutto è franato, tutto si è dissolto o si dissolverà. Nulla
sarà come prima.
L’edificio sarà ricostruito, ma sarà diverso. Un’altra casa.
Un’altra cosa.
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