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lunedì 9 aprile 2012

GIORNO DI MARZO



Esco da scuola abbastanza soddisfatto, in un luminoso giorno di marzo.
E tre! La mia prestazione è stata buona. Anzi, ottima. Tre volte, come non mi riusciva da tanto tempo. Perché spesso mi capita di tornare a casa sconfitto e frustrato, con un nulla di fatto al mio attivo.
Invece, oggi sono riuscito a rivolgere la parola a Giuseppina per ben tre volte!
Alla prima ora era in programma l’interrogazione di latino. Appena entrato in aula ho respirato profondamente e mi sono fatto coraggio, ho cercato di sfruttare quel momento di attenuata consapevolezza che deriva dai sensi ancora appannati e intorpiditi dal sonno. Mi sono avvicinato a lei, a quella ragazza che mi piace tanto, e le ho parlato.
“Sei preparata? Hai studiato tutto?” ho detto con voce tremante.
Si tratta sempre della stessa domanda, ben collaudata, che mi permette di realizzare con facilità il primo punto. La risposta di Giuseppina di solito è ovvia, scontata. Senza guardarmi dice di sì, poi rituffa gli occhi tra le pagine del libro, per un ultimo inutile ripasso.
Questa mattina, al contrario, non ha distolto lo sguardo.
“Ieri non ho potuto studiare” ha detto.
“Perché?” chiedo. Trattengo a stento un gesto di esultanza. Ho già messo a segno il secondo punto e non sono ancora le otto.
“Ero indisposta, ecco perché” ha risposto lei.
Il mio imbarazzo è stato notevole. Conosco perfettamente il significato di quella parola. A  quel punto avrei potuto insistere, fare un’altra domanda, rimpinguare il punteggio, ma non ho osato. E se Giuseppina avesse dettagliato le cause di quel suo incomodo? Se avesse iniziato a parlare di dolori mestruali o roba del genere? Sarei sprofondato dalla vergogna. Sicuro. Allora sono andato a sedermi al mio posto, e proprio in quell’attimo ho udito il suono della campanella.
Il professore di latino doveva aver trascorso una pessima nottata. Si è presentato con i capelli arruffati, grigio in volto. Non ha salutato, si è seduto alla cattedra e subito ha aperto il registro. Ha scorso più volte i nostri nomi. Neanche per un istante ho pensato che avrei potuto essere interrogato. Ero sereno, e infatti non sono stato chiamato. Avevo però un brutto presentimento, che alcuni secondi dopo si è puntualmente avverato. Il professore, con la sua voce bassa, catarrosa, ha chiamato lei.
Giuseppina non ha battuto ciglio, né ha addotto alcuna giustificazione. Si è alzata e si è diretta, stoica, verso la cattedra, incontro al suo carnefice. Soltanto io, credo, ho notato il pallore diffuso sul suo bel viso.
L’interrogazione è andata come doveva andare, cioè male. Giuseppina non ha risposta a nessuna delle domande. Ha preso un brutto voto e ha trattenuto a stento le lacrime. Non sono stato capace di aiutarla, anche se io sto seduto al primo banco. Lei ha sempre tenuto gli occhi bassi, non ha mai guardato nella mia direzione, non sono mai riuscito a incrociare il suo sguardo. Altrimenti avrei potuto suggerirle qualche risposta. Forse, dal momento che anch’io non avevo studiato, anche se per me è una cosa insolita. E poi, avrei avuto il coraggio di farlo? L’audacia mi difetta un po’ e il professore di latino è davvero una brutta bestia.
Ero depresso e spiaciuto per Giuseppina quando il bidello ha fatto irruzione in aula, senza bussare. In un primo momento, nessuno di noi ha compreso ciò che stava accadendo. Abbiamo soltanto percepito una grande tensione nell’aria. Il bidello ha sussurrato qualche parola al professore che prima si è irrigidito e poi ha annuito con enfasi. Poi si è rivolto a noi, che eravamo tutti in attesa di sapere qualcosa.
“Un commando di terroristi ha rapito Aldo Moro. Uscite dalla classe e andate nell’atrio. Ci sarà un’assemblea con il preside.”
Il professore raccoglie la borsa ed esce. Rispetto a un’ora prima sembra invecchiato di dieci anni.
Dopo un primo attimo di puro sbigottimento, ci alziamo e usciamo dall’aula. Con gli occhi cerco Giuseppina ma, nella gran confusione, non riesco a scorgerla. Mi trovo accanto a Rina e Adriana. Stanno parlando tra loro, come fanno sempre, e sembrano contente. Ridono ed esultano. Insomma, quella notizia le ha rese contente. Con Rina e Adriana non ho problemi. Non c’è bisogno di ricorrere a conteggi e punteggi, non devo stare a meditare per mezz’ora prima di rivolgere loro la parola. Entrambe le ragazze sono politicamente molto impegnate e militano in organizzazioni di estrema sinistra. Extraparlamentari, come amano definirle loro. Portano sempre in classe giornali come Lotta Continua e Il Quotidiano dei lavoratori, oppure fogli ciclostilati di dubbia provenienza.
Rina ha un ovale del viso perfetto, la carnagione olivastra, i capelli neri, lunghi e lisci. Sembra una squaw indiana. Ai miei compagni non piace perché ha il corpo un po’ troppo robusto, e soprattutto perché la sua lingua è molto tagliente, da convinta femminista. Adriana va a rimorchio dell’amica del cuore. Lei è piccolina di statura, con la pelle bianca, i capelli castani dal taglio corto. Non è bella, perché i tratti del suo volto sono un po’ grossolani, non ben rifiniti. Però è vivace e simpatica. Sia lei che Rina vestono sempre con pesanti maglioni senza forma e jeans che mai hanno conosciuto la lavatrice.
Una volta le due simpaticone mi hanno giocato un brutto tiro. Mi hanno costretto a intervenire durante un consiglio di classe per dire che i professori sono degli incapaci, che i programmi adottati sono vecchi e inutili. In breve, che l’organizzazione scolastica fa schifo. Gli insegnanti, increduli, mi hanno considerato un traditore. Da me una cosa del genere proprio non se l’aspettavano. Credo ne abbiamo parlato anche con i miei genitori. Ho trascorso tempi difficili. Però, in fondo, mi sono anche divertito. Grazie alle mie due strambe compagne ho acquisito una maggiore sicurezza in me stesso, perché sono riuscito a mettere in discussione il sistema, ho contribuito a sostenere il loro perpetuo obiettivo.
Arriviamo nell’atrio, dove regna un disordine indescrivibile. Il preside parla, ma nessuno lo ascolta.
“Aldo Moro è un ladro e un corrotto!” esclama Adriana con rabbia. Bella scoperta! Si sa che tutti i politici democristiani lo sono.
“Quel porco è ricco e potente. La sua famiglia possiede mezza Puglia! Sono sporchi latifondisti!” rinforza Rina. Poi si dirige al centro dell’assemblea. Strappa il megafono e ribadisci di fronte a tutti, compreso l’attonito preside, i suoi concetti.
“I terroristi hanno fatto bene a rapirlo. Avrà la giusta punizione!” grida, ormai invasata.
Il preside, rosso in volto, la blocca. Minaccia di chiamare i carabinieri e di denunciarla. Parla di apologia di reato. Non so bene che cosa significhi, ma deve essere qualcosa di grave. Rina, stizzita, si allontana imprecando, seguita da Adriana. Ho l’impressione che passerà dei guai, e mi dispiace.
Finalmente vedo Giuseppina, proprio di fronte a me.
“Che cosa sta succedendo?” domanda, forse rivolta a me, forse solo a se stessa.
“Non lo so” le rispondo e, mentalmente, annoto il terzo punto della giornata.
Baccano, urla, caos. Non ne posso più, ho un forte mal di testa.
Esco dall’istituto e decido di tornare a casa. A piedi, per smaltire la tensione. Sono confuso.
Cammino e cammino, perso nei miei pensieri. Penso a Giuseppina, ai tre punti ottenuti, buon risultato, alla incosciente temerarietà di Rina. Penso ad Aldo Moro nelle mani dei terroristi. Una cosa incredibile, inaudita. Non riesco a capire quanto davvero mi dispiaccia. E ciò mi turba.
Arrivo finalmente a casa. Vedo mia madre incollata al televisore acceso. Apprendo che i cinque uomini della scorta di Moro sono stati barbaramente trucidati. Non lo sapevo. Impietrisco. Perché il preside non ce l’ha detto? Oppure, perché non abbiamo ascoltato ciò che voleva dire?
Tutto cambia. 

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