Esco da scuola abbastanza soddisfatto, in un luminoso giorno
di marzo.
E tre! La mia prestazione è stata buona. Anzi, ottima. Tre
volte, come non mi riusciva da tanto tempo. Perché spesso mi capita di tornare
a casa sconfitto e frustrato, con un nulla di fatto al mio attivo.
Invece, oggi sono riuscito a rivolgere la parola a
Giuseppina per ben tre volte!
Alla prima ora era in programma l’interrogazione di latino. Appena
entrato in aula ho respirato profondamente e mi sono fatto coraggio, ho cercato
di sfruttare quel momento di attenuata consapevolezza che deriva dai sensi
ancora appannati e intorpiditi dal sonno. Mi sono avvicinato a lei, a quella
ragazza che mi piace tanto, e le ho parlato.
“Sei preparata? Hai studiato tutto?” ho detto con voce tremante.
Si tratta sempre della stessa domanda, ben collaudata, che mi
permette di realizzare con facilità il primo punto. La risposta di Giuseppina
di solito è ovvia, scontata. Senza guardarmi dice di sì, poi rituffa gli occhi
tra le pagine del libro, per un ultimo inutile ripasso.
Questa mattina, al contrario, non ha distolto lo sguardo.
“Ieri non ho potuto studiare” ha detto.
“Perché?” chiedo. Trattengo a stento un gesto di esultanza.
Ho già messo a segno il secondo punto e non sono ancora le otto.
“Ero indisposta, ecco perché” ha risposto lei.
Il mio imbarazzo è stato notevole. Conosco perfettamente il
significato di quella parola. A quel
punto avrei potuto insistere, fare un’altra domanda, rimpinguare il punteggio,
ma non ho osato. E se Giuseppina avesse dettagliato le cause di quel suo
incomodo? Se avesse iniziato a parlare di dolori mestruali o roba del genere?
Sarei sprofondato dalla vergogna. Sicuro. Allora sono andato a sedermi al mio
posto, e proprio in quell’attimo ho udito il suono della campanella.
Il professore di latino doveva aver trascorso una pessima
nottata. Si è presentato con i capelli arruffati, grigio in volto. Non ha
salutato, si è seduto alla cattedra e subito ha aperto il registro. Ha scorso
più volte i nostri nomi. Neanche per un istante ho pensato che avrei potuto
essere interrogato. Ero sereno, e infatti non sono stato chiamato. Avevo però
un brutto presentimento, che alcuni secondi dopo si è puntualmente avverato. Il
professore, con la sua voce bassa, catarrosa, ha chiamato lei.
Giuseppina non ha battuto ciglio, né ha addotto alcuna
giustificazione. Si è alzata e si è diretta, stoica, verso la cattedra,
incontro al suo carnefice. Soltanto io, credo, ho notato il pallore diffuso sul
suo bel viso.
L’interrogazione è andata come doveva andare, cioè male.
Giuseppina non ha risposta a nessuna delle domande. Ha preso un brutto voto e ha
trattenuto a stento le lacrime. Non sono stato capace di aiutarla, anche se io
sto seduto al primo banco. Lei ha sempre tenuto gli occhi bassi, non ha mai
guardato nella mia direzione, non sono mai riuscito a incrociare il suo
sguardo. Altrimenti avrei potuto suggerirle qualche risposta. Forse, dal
momento che anch’io non avevo studiato, anche se per me è una cosa insolita. E
poi, avrei avuto il coraggio di farlo? L’audacia mi difetta un po’ e il
professore di latino è davvero una brutta bestia.
Ero depresso e spiaciuto per Giuseppina quando il bidello ha
fatto irruzione in aula, senza bussare. In un primo momento, nessuno di noi ha
compreso ciò che stava accadendo. Abbiamo soltanto percepito una grande
tensione nell’aria. Il bidello ha sussurrato qualche parola al professore che
prima si è irrigidito e poi ha annuito con enfasi. Poi si è rivolto a noi, che
eravamo tutti in attesa di sapere qualcosa.
“Un commando di terroristi ha rapito Aldo Moro. Uscite dalla
classe e andate nell’atrio. Ci sarà un’assemblea con il preside.”
Il professore raccoglie la borsa ed esce. Rispetto a un’ora
prima sembra invecchiato di dieci anni.
Dopo un primo attimo di puro sbigottimento, ci alziamo e
usciamo dall’aula. Con gli occhi cerco Giuseppina ma, nella gran confusione,
non riesco a scorgerla. Mi trovo accanto a Rina e Adriana. Stanno parlando tra
loro, come fanno sempre, e sembrano contente. Ridono ed esultano. Insomma,
quella notizia le ha rese contente. Con Rina e Adriana non ho problemi. Non c’è
bisogno di ricorrere a conteggi e punteggi, non devo stare a meditare per mezz’ora
prima di rivolgere loro la parola. Entrambe le ragazze sono politicamente molto
impegnate e militano in organizzazioni di estrema sinistra. Extraparlamentari,
come amano definirle loro. Portano sempre in classe giornali come Lotta Continua e Il Quotidiano dei lavoratori, oppure fogli ciclostilati di dubbia
provenienza.
Rina ha un ovale del viso perfetto, la carnagione olivastra,
i capelli neri, lunghi e lisci. Sembra una squaw
indiana. Ai miei compagni non piace perché ha il corpo un po’ troppo robusto, e
soprattutto perché la sua lingua è molto tagliente, da convinta femminista.
Adriana va a rimorchio dell’amica del cuore. Lei è piccolina di statura, con la
pelle bianca, i capelli castani dal taglio corto. Non è bella, perché i tratti
del suo volto sono un po’ grossolani, non ben rifiniti. Però è vivace e simpatica.
Sia lei che Rina vestono sempre con pesanti maglioni senza forma e jeans che
mai hanno conosciuto la lavatrice.
Una volta le due simpaticone mi hanno giocato un brutto
tiro. Mi hanno costretto a intervenire durante un consiglio di classe per dire
che i professori sono degli incapaci, che i programmi adottati sono vecchi e
inutili. In breve, che l’organizzazione scolastica fa schifo. Gli insegnanti,
increduli, mi hanno considerato un traditore. Da me una cosa del genere proprio
non se l’aspettavano. Credo ne abbiamo parlato anche con i miei genitori. Ho
trascorso tempi difficili. Però, in fondo, mi sono anche divertito. Grazie alle
mie due strambe compagne ho acquisito una maggiore sicurezza in me stesso, perché
sono riuscito a mettere in discussione il sistema, ho contribuito a sostenere
il loro perpetuo obiettivo.
Arriviamo nell’atrio, dove regna un disordine indescrivibile.
Il preside parla, ma nessuno lo ascolta.
“Aldo Moro è un ladro e un corrotto!” esclama Adriana con
rabbia. Bella scoperta! Si sa che tutti i politici democristiani lo sono.
“Quel porco è ricco e potente. La sua famiglia possiede
mezza Puglia! Sono sporchi latifondisti!” rinforza Rina. Poi si dirige al
centro dell’assemblea. Strappa il megafono e ribadisci di fronte a tutti,
compreso l’attonito preside, i suoi concetti.
“I terroristi hanno fatto bene a rapirlo. Avrà la giusta
punizione!” grida, ormai invasata.
Il preside, rosso in volto, la blocca. Minaccia di chiamare
i carabinieri e di denunciarla. Parla di apologia di reato. Non so bene che
cosa significhi, ma deve essere qualcosa di grave. Rina, stizzita, si allontana
imprecando, seguita da Adriana. Ho l’impressione che passerà dei guai, e mi
dispiace.
Finalmente vedo Giuseppina, proprio di fronte a me.
“Che cosa sta succedendo?” domanda, forse rivolta a me,
forse solo a se stessa.
“Non lo so” le rispondo e, mentalmente, annoto il terzo
punto della giornata.
Baccano, urla, caos. Non ne posso più, ho un forte mal di
testa.
Esco dall’istituto e decido di tornare a casa. A piedi, per
smaltire la tensione. Sono confuso.
Cammino e cammino, perso nei miei pensieri. Penso a
Giuseppina, ai tre punti ottenuti, buon risultato, alla incosciente temerarietà
di Rina. Penso ad Aldo Moro nelle mani dei terroristi. Una cosa incredibile,
inaudita. Non riesco a capire quanto davvero mi dispiaccia. E ciò mi turba.
Arrivo finalmente a casa. Vedo mia madre incollata al
televisore acceso. Apprendo che i cinque uomini della scorta di Moro sono stati
barbaramente trucidati. Non lo sapevo. Impietrisco. Perché il preside non ce l’ha
detto? Oppure, perché non abbiamo ascoltato ciò che voleva dire?
Tutto cambia.
Che bel pezzo, complimenti
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