Powered By Blogger

sabato 4 febbraio 2012

IL PASTO FISSO



“Che monotonia avere un posto fisso per tutta la vita!”. Così  si è espresso il Presidente del Consiglio alcuni giorni fa durante una trasmissione televisiva. Tali parole, come prevedibile, hanno suscitato vasta risonanza. Le forze politiche, il sindacato e l’intero mondo del lavoro (con la scontata eccezione della Confindustria) hanno reagito manifestando sorpresa, stupore e, in alcuni casi, addirittura sdegno. L’affermazione di Mario Monti è stata, senza dubbio, alquanto infelice, anche se in fondo esprime, sebbene in maniera incompleta causa l’eccessiva sintesi, il suo pensiero. Concetti che il professore della Bocconi non hai mai, tra l’altro, nascosto. Certamente meraviglia un po’ questo inedito aspetto “battutistico” da parte del compassato Monti, anche se occorre dire che la televisione spesso induce in errore chi è più inesperto nell’utilizzo del potente e implacabile strumento. I destinatari dell’osservazione del Presidente del Consiglio erano i giovani e l’intenzione era quella di stimolare la loro propensione al cambiamento, un invito a non fossilizzare la loro vita professionale. Intento apprezzabile, dunque, ma piuttosto inopportuno fino a che il livello di disoccupazione nel nostro Paese non calerà in misura significativa. In ordine nazionale i giovani privi di occupazione ammontano al trenta per cento mentre ancora peggiore è la situazione nel Meridione, dove un giovane su due è senza lavoro. Questi dati impietosi, di conseguenza, rendono le considerazioni sul posto fisso del tutto prive di rilievo, le riconducono a un ambito teorico, puramente accademico. Nessuno, in linea di principio, è contrario alla flessibilità del mercato del lavoro. Da sempre il lavoratore che intravede la possibilità di migliorare il suo stato approfitta senza indugio delle opportunità che eventualmente incontra. La duttilità si sposa perfettamente con un mercato del lavoro che insegue la piena occupazione. Nel nostro Paese, tuttavia, per tanti anni si è venuto a creare un pericoloso equivoco. La flessibilità è stata confusa con la precarietà, e spesso ciò è avvenuto in colpevole malafede. Proprio chi era preposto a formulare e ad attuare proposte per fronteggiare la grave crisi occupazionale ha presentato il lavoro precario, a termine, e tutta la babele di tipologie contrattuali che lo accompagna, quale soluzione. Gli esiti di tale politica sono stati disastrosi. Si è creata un’intera generazione di precari, giovani sforniti di aspettative sicure di lavoro e, cosa ancor più deplorevole, senza prospettive solide di vita personale.
È assolutamente indispensabile creare lavoro. Ciò si può fare soltanto inducendo una crescita economica. In una congiuntura critica come quella attuale è però possibile produrre sviluppo? Questa è la grande sfida in cui è impegnato il governo. Anche nell'evenienza di uno sbocco positivo, in ogni caso, i risultati potranno essere evidenti e significativi soltanto nel medio e nel lungo periodo. Come è possibile invece fornire risultati immediati? Innanzitutto con la rapida chiusura del negoziato sulla riforma del mercato del lavoro. Le tipologie contrattuali devono essere ridotte, meglio ancora se si potesse giungere all’adozione di un contratto unico, prevalente. È doveroso introdurre nuove tutele, un salario di cittadinanza, pesanti disincentivi per chi assume a tempo determinato e, viceversa, benefici fiscali per le imprese che investono sui contratti a tempo indeterminato e sulla formazione. Tutto questo a costo di rinunciare, almeno in parte, a feticci normativi come l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, carico di enorme valore simbolico ma un po’ fuori dal tempo. Lo scambio, in ogni modo, dovrà alla fine risultare fruttuoso per i lavoratori affinché il sacrificio sia giustificato.
Dove si possono trovare, in un bilancio soffocato dalla furia rigoristica, in parte imposta in maniera cieca dall’Europa, le risorse indispensabili per l’attuazione di tali importanti e decisive riforme? Si deve agire su quell’elemento che, pur essendo stato indicato dal governo come prioritario (insieme a rigore e sviluppo), è stato finora troppo trascurato: l’equità sociale. La redistribuzione del reddito tra le diverse fasce sociali deve essere, per lo stato di necessità, più robusta. Occorre maggiore coraggio, più determinazione. In attesa di tempi migliori, oltretutto, ci si chiede quanto sia davvero essenziale inseguire la crescita a tutti i costi (al momento appare come un’illusione) e non piuttosto ripensare l’intero sistema economico – le crisi a volte offrono tali occasioni – e indirizzarsi invece verso una decrescita controllata. Un’inversione di tendenza rispetto ai modelli prevalenti di crescita e sviluppo illimitati in questo momento non realizzabili né sostenibili. Un’economia utopica che ha per obiettivo pace e felicità, anche fatalmente se più sobria, più povera e che implica rinunce.
In attesa che vengano ben ponderate tali fondamentali risoluzioni, gli italiani sono interessati, più che alle discussioni sterili sul posto fisso - che in verità non esiste più da tempo - al pasto fisso quotidiano.

1 commento:

  1. Nella vita, nulla è sempre certo, solo che stabilirlo per regola, sarebbe meglio venisse fatto ai politici ed ai furbi industriali. Etc. Monti è un servo della BCE e dell'FMI. SALUTI DA SALVATORE.

    RispondiElimina