“Che monotonia avere un posto fisso per tutta la vita!”.
Così si è espresso il Presidente del
Consiglio alcuni giorni fa durante una trasmissione televisiva. Tali parole,
come prevedibile, hanno suscitato vasta risonanza. Le forze politiche, il
sindacato e l’intero mondo del lavoro (con la scontata eccezione della
Confindustria) hanno reagito manifestando sorpresa, stupore e, in alcuni casi, addirittura
sdegno. L’affermazione di Mario Monti è stata, senza dubbio, alquanto infelice,
anche se in fondo esprime, sebbene in maniera incompleta causa l’eccessiva
sintesi, il suo pensiero. Concetti che il professore della Bocconi non hai mai,
tra l’altro, nascosto. Certamente meraviglia un po’ questo inedito aspetto “battutistico”
da parte del compassato Monti, anche se occorre dire che la televisione spesso
induce in errore chi è più inesperto nell’utilizzo del potente e implacabile
strumento. I destinatari dell’osservazione del Presidente del Consiglio erano i
giovani e l’intenzione era quella di stimolare la loro propensione al
cambiamento, un invito a non fossilizzare la loro vita professionale. Intento
apprezzabile, dunque, ma piuttosto inopportuno fino a che il livello di
disoccupazione nel nostro Paese non calerà in misura significativa. In ordine
nazionale i giovani privi di occupazione ammontano al trenta per cento mentre
ancora peggiore è la situazione nel Meridione, dove un giovane su due è senza
lavoro. Questi dati impietosi, di conseguenza, rendono le considerazioni sul
posto fisso del tutto prive di rilievo, le riconducono a un ambito teorico,
puramente accademico. Nessuno, in linea di principio, è contrario alla
flessibilità del mercato del lavoro. Da sempre il lavoratore che intravede la
possibilità di migliorare il suo stato approfitta senza indugio delle
opportunità che eventualmente incontra. La duttilità si sposa perfettamente con
un mercato del lavoro che insegue la piena occupazione. Nel nostro Paese,
tuttavia, per tanti anni si è venuto a creare un pericoloso equivoco. La
flessibilità è stata confusa con la precarietà, e spesso ciò è avvenuto in
colpevole malafede. Proprio chi era preposto a formulare e ad attuare proposte
per fronteggiare la grave crisi occupazionale ha presentato il lavoro precario,
a termine, e tutta la babele di tipologie contrattuali che lo accompagna, quale
soluzione. Gli esiti di tale politica sono stati disastrosi. Si è creata un’intera
generazione di precari, giovani sforniti di aspettative sicure di lavoro e,
cosa ancor più deplorevole, senza prospettive solide di vita personale.
È assolutamente indispensabile creare lavoro. Ciò si può
fare soltanto inducendo una crescita economica. In una congiuntura critica come
quella attuale è però possibile produrre sviluppo? Questa è la grande sfida in
cui è impegnato il governo. Anche nell'evenienza di uno sbocco positivo, in ogni caso, i
risultati potranno essere evidenti e significativi soltanto nel medio e nel
lungo periodo. Come è possibile invece fornire risultati immediati? Innanzitutto
con la rapida chiusura del negoziato sulla riforma del mercato del lavoro. Le
tipologie contrattuali devono essere ridotte, meglio ancora se si potesse
giungere all’adozione di un contratto unico, prevalente. È doveroso introdurre nuove tutele, un salario di cittadinanza, pesanti disincentivi per
chi assume a tempo determinato e, viceversa, benefici fiscali per le imprese
che investono sui contratti a tempo indeterminato e sulla formazione. Tutto
questo a costo di rinunciare, almeno in parte, a feticci normativi come l’art.
18 dello Statuto dei Lavoratori, carico di enorme valore simbolico ma un po’
fuori dal tempo. Lo scambio, in ogni modo, dovrà alla fine risultare fruttuoso
per i lavoratori affinché il sacrificio sia giustificato.
Dove si possono trovare, in un bilancio soffocato dalla
furia rigoristica, in parte imposta in maniera cieca dall’Europa, le risorse
indispensabili per l’attuazione di tali importanti e decisive riforme? Si deve
agire su quell’elemento che, pur essendo stato indicato dal governo come prioritario
(insieme a rigore e sviluppo), è stato finora troppo trascurato: l’equità
sociale. La redistribuzione del reddito tra le diverse fasce sociali deve
essere, per lo stato di necessità, più robusta. Occorre maggiore coraggio, più
determinazione. In attesa di tempi migliori, oltretutto, ci si chiede quanto
sia davvero essenziale inseguire la crescita a tutti i costi (al momento appare
come un’illusione) e non piuttosto ripensare l’intero sistema economico – le crisi
a volte offrono tali occasioni – e indirizzarsi invece verso una decrescita
controllata. Un’inversione di tendenza rispetto ai modelli prevalenti di crescita
e sviluppo illimitati in questo momento non realizzabili né sostenibili. Un’economia
utopica che ha per obiettivo pace e felicità, anche fatalmente se più sobria, più
povera e che implica rinunce.
In attesa che vengano ben ponderate tali fondamentali
risoluzioni, gli italiani sono interessati, più che alle discussioni sterili
sul posto fisso - che in verità non esiste più da tempo - al pasto fisso quotidiano.
Nella vita, nulla è sempre certo, solo che stabilirlo per regola, sarebbe meglio venisse fatto ai politici ed ai furbi industriali. Etc. Monti è un servo della BCE e dell'FMI. SALUTI DA SALVATORE.
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