“Sei un tipo romantico?” mi chiede.
Non c’è che dire: è bella. Ed è seduta proprio di fronte a
me, al tavolino del bar. A separarci, ci sono due tazzine di caffè. Osservo con
attenzione i suoi lunghi capelli, neri e crespi. I suoi occhi luminosi, il
trucco perfetto. Le sue labbra piene. Infine, mi riscuoto e rispondo alla
domanda, alla sua banale domanda. Formulata in maniera così ordinaria,
irritante.
“Vedi, se tu per romanticismo intendi quell’atteggiamento
comune, sdolcinato e svenevole, tutto fiori e bigliettini, tanto per
intenderci, allora ti posso dire che sentimentale non lo sono per nulla.”
Lei rimane attonita. La meraviglia le ha fatto socchiudere
la bocca. Intravedo i suoi denti candidi e lucidi.
“Ah no?” dice, superato l’attimo di sbalordimento.
“No” confermo. “A mio parere è dotato di autentico spirito
romantico l’individuo nel quale l’emotività e le suggestioni prevalgono sulla
razionalità. Tutto il resto, cioè i comportamenti melensi e stucchevoli, le apparenze
spacciate per sostanza, è stomachevole e mi provoca disgusto.”
Alla mia perentoria affermazione, lei rimane di nuovo senza
parole. E si inquieta. Lo si comprende dai suoi gesti. Tormenta tra le mani la
bustina dello zucchero ma non la apre. Gira e rigira all’infinito il caffè,
anche se non ce ne sarebbe bisogno. Probabilmente riteneva di conoscermi, e
invece si è resa conto che non è così. Questo le provoca tormento interiore. Forse
si è addirittura pentita di aver accettato l’invito. Porta la tazzina alle
labbra, ma non beve. Mi osserva. Sospira.
Ci conosciamo da tanti anni. Lavoriamo nella stessa azienda,
anche se non nello stesso ufficio. Tante volte, in tutto questo tempo, l’ho
invitata a bere un caffè con me. E lei ha sempre rifiutato. La medesima cosa
non è avvenuta con altri colleghi. Con loro si è sempre dimostrata molto
disponibile, non c’è mai stato nessun diniego. Oggi, quasi per scherzo, per una
ormai vecchia consuetudine, ho rinnovato la solita richiesta e lei, con mia
enorme sorpresa, ha finalmente accettato. In un primo momento sono rimasto un
po’ spiazzato, perché proprio non me l’aspettavo. Che cosa le ha fatto cambiare
idea? La mia freddezza, nei suoi confronti, degli ultimi tempi? Tale
comportamento ha destato in lei una curiosità che in precedenza non aveva mai
provato? Non lo so, confesso che non lo so, e non ho alcuna intenzione di
domandare spiegazioni.
Mi limito a stare in silenzio, e ciò accentua la sua ansia.
“Devi essere una persona molto intelligente” dice infine,
rompendo quella imbarazzante condizione di quiete.
“Non ho mai fatto il test” rispondo.
“Come?” Poi comprende, tuttavia si sforza di non mostrarsi
contrariata per la mia espressione derisoria. Posa la tazzina. Noto che la sua
bella mano sta tremando. Ha le unghie dipinte di blu.
“Intendevo dire che tu sei piuttosto colto, conosci tante
cose” aggiunge.
Quasi non la lascio terminare.
“A che serve?” chiedo.
Mi guarda, stupita.
“Tutta la mia cultura - sempre se ciò corrisponde al vero, cioè
se tu davvero hai ragione, se la tua valutazione è corretta – e tutto quello
che ho appreso, a che cosa mi servono?” domando.
Sgrana gli occhi, i suoi occhi luminosi, bellissimi, con le
ciglia di una lunghezza infinita.
“Non lo so” dice, con un filo di voce. Già, quella voce così
bella, chiara e squillante, nella quale ora però si scorge una strana
inflessione dovuta al panico, alla totale confusione.
“Te lo dico io. Tutto ciò non è utile a nessuno. O forse è
utile soltanto a me stesso. Forse. Non ne sono del tutto sicuro.”
Allora lei si sforza di sorridere, ma non ci riesce. Dopo un
istante le sue splendide labbra si deformano, assumono una piega triste e
sconsolata che lei non riesce a correggere.
Porto la tazzina alle labbra e bevo rapidamente il caffè.
Tutto di un fiato, tanto ormai è quasi freddo. Lei, il suo, non lo ha bevuto.
“Andiamo?” dico.
Lei annuisce, con un atteggiamento di immensa infelicità.
Ci alziamo. Io mi dirigo risoluto verso l’uscita del bar.
Lei rimane in piedi, immobile e affranta. Mi cerca con gli occhi. Quanto sono
belli i suoi occhi! Non mi stancherei mai di guardarli.
“Avevi già pagato?” domanda, timorosa. Tutta la sua
sicurezza, quella che ha sempre sfoggiato, è svanita. Che cosa le ho fatto per ridurla così?
“Mi dispiace, ma ho lasciato il portafoglio in ufficio”
dico, con indifferenza.
“Ah! Allora pago io” dice, affranta.
“Grazie per il caffè” rispondo mentre esco dal locale.
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