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giovedì 23 febbraio 2012

UNA TAZZINA DI CAFFE'



“Sei un tipo romantico?” mi chiede.
Non c’è che dire: è bella. Ed è seduta proprio di fronte a me, al tavolino del bar. A separarci, ci sono due tazzine di caffè. Osservo con attenzione i suoi lunghi capelli, neri e crespi. I suoi occhi luminosi, il trucco perfetto. Le sue labbra piene. Infine, mi riscuoto e rispondo alla domanda, alla sua banale domanda. Formulata in maniera così ordinaria, irritante.
“Vedi, se tu per romanticismo intendi quell’atteggiamento comune, sdolcinato e svenevole, tutto fiori e bigliettini, tanto per intenderci, allora ti posso dire che sentimentale non lo sono per nulla.”
Lei rimane attonita. La meraviglia le ha fatto socchiudere la bocca. Intravedo i suoi denti candidi e lucidi.
“Ah no?” dice, superato l’attimo di sbalordimento.
“No” confermo. “A mio parere è dotato di autentico spirito romantico l’individuo nel quale l’emotività e le suggestioni prevalgono sulla razionalità. Tutto il resto, cioè i comportamenti melensi e stucchevoli, le apparenze spacciate per sostanza, è stomachevole e mi provoca disgusto.”
Alla mia perentoria affermazione, lei rimane di nuovo senza parole. E si inquieta. Lo si comprende dai suoi gesti. Tormenta tra le mani la bustina dello zucchero ma non la apre. Gira e rigira all’infinito il caffè, anche se non ce ne sarebbe bisogno. Probabilmente riteneva di conoscermi, e invece si è resa conto che non è così. Questo le provoca tormento interiore. Forse si è addirittura pentita di aver accettato l’invito. Porta la tazzina alle labbra, ma non beve. Mi osserva. Sospira.
Ci conosciamo da tanti anni. Lavoriamo nella stessa azienda, anche se non nello stesso ufficio. Tante volte, in tutto questo tempo, l’ho invitata a bere un caffè con me. E lei ha sempre rifiutato. La medesima cosa non è avvenuta con altri colleghi. Con loro si è sempre dimostrata molto disponibile, non c’è mai stato nessun diniego. Oggi, quasi per scherzo, per una ormai vecchia consuetudine, ho rinnovato la solita richiesta e lei, con mia enorme sorpresa, ha finalmente accettato. In un primo momento sono rimasto un po’ spiazzato, perché proprio non me l’aspettavo. Che cosa le ha fatto cambiare idea? La mia freddezza, nei suoi confronti, degli ultimi tempi? Tale comportamento ha destato in lei una curiosità che in precedenza non aveva mai provato? Non lo so, confesso che non lo so, e non ho alcuna intenzione di domandare spiegazioni.
Mi limito a stare in silenzio, e ciò accentua la sua ansia.
“Devi essere una persona molto intelligente” dice infine, rompendo quella imbarazzante condizione di quiete.
“Non ho mai fatto il test” rispondo.
“Come?” Poi comprende, tuttavia si sforza di non mostrarsi contrariata per la mia espressione derisoria. Posa la tazzina. Noto che la sua bella mano sta tremando. Ha le unghie dipinte di blu.
“Intendevo dire che tu sei piuttosto colto, conosci tante cose” aggiunge.
Quasi non la lascio terminare.
“A che serve?” chiedo.
Mi guarda, stupita.
“Tutta la mia cultura - sempre se ciò corrisponde al vero, cioè se tu davvero hai ragione, se la tua valutazione è corretta – e tutto quello che ho appreso, a che cosa mi servono?” domando.
Sgrana gli occhi, i suoi occhi luminosi, bellissimi, con le ciglia di una lunghezza infinita.
“Non lo so” dice, con un filo di voce. Già, quella voce così bella, chiara e squillante, nella quale ora però si scorge una strana inflessione dovuta al panico, alla totale confusione.
“Te lo dico io. Tutto ciò non è utile a nessuno. O forse è utile soltanto a me stesso. Forse. Non ne sono del tutto sicuro.”
Allora lei si sforza di sorridere, ma non ci riesce. Dopo un istante le sue splendide labbra si deformano, assumono una piega triste e sconsolata che lei non riesce a correggere.
Porto la tazzina alle labbra e bevo rapidamente il caffè. Tutto di un fiato, tanto ormai è quasi freddo. Lei, il suo, non lo ha bevuto.
“Andiamo?” dico.
Lei annuisce, con un atteggiamento di immensa infelicità.
Ci alziamo. Io mi dirigo risoluto verso l’uscita del bar. Lei rimane in piedi, immobile e affranta. Mi cerca con gli occhi. Quanto sono belli i suoi occhi! Non mi stancherei mai di guardarli.
“Avevi già pagato?” domanda, timorosa. Tutta la sua sicurezza, quella che ha sempre sfoggiato, è svanita. Che cosa le ho fatto per ridurla così?
“Mi dispiace, ma ho lasciato il portafoglio in ufficio” dico, con indifferenza.
“Ah! Allora pago io” dice, affranta.
“Grazie per il caffè” rispondo mentre esco dal locale.

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