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domenica 24 aprile 2011

I RIBELLI DELLA MONTAGNA




Luciano Secchia, il comandante Lenìn, si inerpicava a fatica sul ripido sentiero. Sulle spalle, oltre al fucile, portava un grosso sacco, colmo di patate. Ancora mezz’ora di cammino e sarebbe giunto al campo. L’autunno era appena iniziato, ma l’aria, lassù in montagna, si stava già rinfrescando. L’inverno non era lontano, e con la brutta stagione sarebbero arrivati presto il freddo e la neve. Le speranze, sue e dei suoi compagni, erano state deluse. Il desiderio di trascorrere l’inizio del nuovo anno in pianura, liberi dall’invasore, non si sarebbe avverato. Ormai ne erano consapevoli, tutto era rimandato alla primavera. Ma i ribelli della montagna non si erano persi d’animo e avevano da tempo cominciato ad accumulare provviste in vista della stagione fredda. Quel giorno, Lenìn era stato nella cascina dei Bordiga i quali, fin dall’inizio della lotta partigiana, li avevano sempre aiutati, pur esponendosi a rischi enormi. Il comandante pensò che Edoardo Bordiga e i suoi figli fossero degli autentici patrioti, e che meritassero tutta la loro riconoscenza. D’altra parte, chi in pianura e chi nascosto sui monti, tutti lottavano per lo stesso ideale: la libertà.
Lenìn, sfiancato per la lunga camminata e per il gravoso peso che gli spezzava la schiena, decise di fare una breve pausa. Uscì dalla traccia e, aiutandosi con il bastone, risalì un pendio erboso, posò il sacco e si sedette a terra appoggiandosi a un esile larice. Poi, con gesti lenti ma abili, si arrotolò una sigaretta e l’accese. Intorno a lui, solo silenzio. Anche la moltitudine di uccelli che popolavano i boschi e i cieli della montagna si erano, a quell’ora, ormai chetati, esausti dopo un’intera giornata trascorsa a cantare. In lontananza, il sole stava ormai calando dietro le vette, colorando il cielo di rosso. E fu proprio in quel momento di quiete assoluta che udì il rumore di rami spezzati. Lenìn, da combattente esperto quale era, mantenne i nervi saldi. Spense la sigaretta schiacciandola con lo scarpone, imbracciò il fucile e si distese pancia a terra. Subito dopo, lo vide apparire da dietro un grosso masso.
“Fermo!” gridò, facendo scattare l’otturatore.
Il ragazzino si arrestò di colpo, sorpreso. Alzò le braccia, ma non sembrava affatto spaventato. Lenìn si alzò in piedi e gli andò incontro, senza sollevare il fucile. E se fosse stata un’imboscata? E quel bambino una semplice esca? I suoi sensi erano all’erta.
“Fermo lì! Non muoverti e non abbassare le mani!”
“Che, vuoi spararmi?” disse il ragazzino. Il suo tono era lievemente beffardo.
“Sei solo?”
“Non lo vedi? Sei orbo? Certo che sono solo. Mi sono perso.”
“Chi sei? Come ti chiami?” lo incalzò il partigiano.
Il bambino sospirò, stizzito.
“Mi chiamo Silvio, ma i miei genitori mi chiamano Silvietto.”
“Dove sono i tuoi genitori? Perché non sei con loro?”
“Loro sono giù, in paese. Siamo sfollati da Milano, da pochi giorni, e siamo ospiti di parenti. Io ho deciso di esplorare un po’ la zona, ho camminato a lungo e adesso non riesco più a ritrovare la strada.”
“Qui vicino c’è il sentiero. Perché non sei sceso?”
“Il sentiero? È proprio ciò che stavo cercando, ma sono molto stanco, è tutto il giorno che cammino.”
Lenìn continuava a guardare il bambino con diffidenza. E con sospetto. Che cosa ci faceva lì, da solo? Era forse una spia dei repubblichini? Scacciò quel pensiero, frutto di timore e apprensione eccessivi. Probabilmente, stava dicendo la verità. Non conoscendo i posti, si era davvero smarrito. Ma continuò ugualmente a tenere il fucile puntato.
“Che cosa fa tuo padre?” domandò Lenìn.
“Lavora in banca. O meglio, lavorava. Siamo dovuti scappare. Per colpa dei tuoi amici, che bombardano tutto il giorno” rispose il bambino.
“Non sono miei amici, sono i nostri alleati, miei e tuoi, e ci stanno aiutando a liberarci dei tedeschi.”
“Non è vero. Stanno distruggendo tutto e ammazzando la gente!”
“Taci! Sei troppo piccolo per capire. Stai parlando di questioni ben più grandi di te!”
“Guarda che io a Milano andavo a scuola e che so molte cose!” disse Silvietto, con strafottenza.
Lenìn sorrise, scuotendo il capo.
“Scommetto che a scuola eri bravissimo” disse, con ironia.
“Certo! Ero il primo della classe, e aiutavo sempre i miei compagni in difficoltà.”
“Bene. Questo ti fa onore.”
“Facendomi pagare…” aggiunse il ragazzino. I suoi occhi sfavillavano di cupidigia.
“Bel lazzarone che sei!” disse il comandante, e finalmente abbassò la canna del fucile.
“Sei un comunista?”
“Che cosa?”
“Ti ho chiesto se sei un comunista. Sai, mio padre li odia, quelli come te,  dice che vogliono rubare i soldi ai padroni e prendere il loro posto!”
“Tutte sciocchezze. E comunque io sono un patriota, a me sta a cuore soltanto la libertà, i soldi non mi interessano.”
“Non avevo mai visto un comunista in carne e ossa” disse tra sé Silvietto.
“Falla finita, ragazzino” lo rimbeccò Lenìn, che l’aveva sentito.
Quel bambino, dalla testa grossa e dalla precoce stempiatura,  proprio non gli piaceva. Non gli piaceva il suo sguardo furbo, né il suo sorriso sardonico, sfrontato. Da adulto. In più, doveva decidere che cosa fare di lui, in tutta fretta.
“I miei genitori saranno in pensiero, mi staranno cercando, devi accompagnarmi a casa.”
Lenìn lo guardò, strabiliato.
“Che cosa? Tu mi stai dicendo che devo fare?” strepitò.
L’altro non si scompose.
“Vuoi fucilarmi? So che vi divertite a farlo.” disse Silvietto, sarcastico.
“Stai zitto! E scordati che ti riaccompagni a casa! Ormai è tardi e la strada è troppo lunga. Tu stesso non ce la faresti. I tuoi, per ora, si dovranno mettere il cuore in pace. Domani, si vedrà. Vieni vicino a me!” ordinò Lenìn.
Silvietto, un po’ sconcertato per quel comando imperioso, prima sbuffò ma poi ubbidì.
Il partigiano legò una corda alla vita del ragazzo, quindi assicurò il capo alla sua cintura.
“In questo modo non potrai perderti di nuovo” disse Lenìn.
“Sono tuo prigioniero?”
Lenìn sospirò, esasperato, ma non rispose. Si rimise il fucile a tracolla e il sacco sulle spalle. Poi riprese il cammino, seguito dal ragazzino che marciava due metri dietro, tanto quanto gli era consentito dalla lunghezza della fune.
Quando Lenìn fece il suo ingresso al campo, con il bambino legato alla cintura, fu subito attorniato dai suoi uomini, i cui sguardi esprimevano muta meraviglia. Lui fece intendere che avrebbe spiegato tutto dopo. Ordinò a Baldo, la loro staffetta, un ragazzo poco più che adolescente, di rinchiudere Silvietto nella stalla, di dargli da bere e qualcosa da mangiare, e di preparargli un giaciglio per la notte. Nessuno osò fare domande fino a quando tutti si riunirono, dopo la cena, in un piccolo edificio di pietra, dove tenevano le armi e le scorte alimentari. Il comandante Lenìn godeva di una indiscussa autorità presso i suoi compagni. Era giovane, non aveva combattuto nell’esercito, perché si era rifugiato sui monti subito dopo l’armistizio, ma il fatto che fosse l’unico, tra tutti, ad aver studiato, oltre ad aver dato prova di capacità e coraggio in tante azioni disperate, gli conferiva un riconosciuto prestigio. E il rispetto che ne derivava. Tuttavia, la discussione si accese subito.
“Non dovevi farlo. Ti rendi conto del pericolo al quale ci hai esposto?” disse Olga.
“Olga ha ragione. Avresti dovuto riflettere di più. Lo staranno cercando” aggiunse Millio.
“E cosa avrei dovuto fare? Comunque, state tranquilli, per adesso non siamo in pericolo” cercò di giustificarsi Lenìn.
“Già. Ma domani? Dobbiamo decidere ora che cosa fare” disse Millio.
“D’accordo, che cosa proponete allora?”
La domanda spiazzò i presenti. Tutti speravano che il loro comandante avesse una soluzione. La sua indecisione li disorientò. Seguì un lungo silenzio.
“Non possiamo farlo tornare” disse Olga.
Gli altri partigiani si guardarono. Avevano compreso.
“Dov… dov… dovremmo ucciderlo?” balbettò Baldo. Era impallidito.
“Olga, sei impazzita? Si tratta di un bambino!” esclamò il vecchio Alberto, sgomento.
“Potrebbe essere una spia. E comunque non possiamo mettere a repentaglio la nostra sicurezza. E quella di interi paesi, che hanno bisogno della nostra protezione. Lo so, posso sembrarvi cinica e crudele, ma la nostra lotta è troppo importante per essere compromessa da un moccioso, devono prevalere gli interessi della collettività, anche a scapito del sentimento di umanità.”
“Olga! Ma ti rendi conto di che cosa stai dicendo? Quel bambino ha l’età di tuo figlio!” Alberto era strabiliato. Credeva di conoscere bene Olga, quella ragazza coraggiosa ai limiti dell’incoscienza che non si tirava mai indietro di fronte a nessun pericolo, che tutti i giorni rischiava la vita. Per lui era come fosse la figlia che non aveva mai avuto. Invece non era così, in realtà non la conosceva veramente. Oppure, da quando era salita in montagna, Olga era cambiata, si era indurita.
“Siamo in guerra. Comunque, fate ciò che volete!” aggiunse Olga, lapidaria. Poi afferrò la borsa del tabacco e uscì sbattendo la porta.
Lenìn, che aveva assistito in silenzio al violento scambio di battute, spense la sigaretta e poi fece a tutti il segno di tacere. Quindi parlò.
“Olga è spaventata, è fuori di sé e in questo momento non è lucida. Vedrete che le passerà e allora si pentirà di ciò che ha detto. Chiederà scusa. È chiaro che non possiamo uccidere il bambino, non siamo degli assassini, e lui non ha fatto nulla di male.”
“E allora che cosa proponi?” domandò Lothar, un partigiano dal fisico erculeo, che fino a quel momento non era ancora intervenuto nella discussione.
Lenìn sospirò. Aveva l’aria stanca, sofferente.
“Dobbiamo riportare indietro il ragazzino. Non ci sono altre soluzioni” disse.
“Ma lui conosce l’ubicazione del campo!” esclamò Millio.
“Po… po… posso accompagnarlo io dai Bordiga. Poi troverà la strada da solo” si intromise Baldo.
“No, è troppo rischioso. Non voglio che quella famiglia corra rischi inutili. Quel bambino ha la lingua lunga” disse Lenìn.
“E allora?” chiese Mitraglia, un ragazzo magro con baffetti appena accennati che gli sporcavano il labbro superiore.
“Dovremo spostare il campo” disse il comandante con aria grave.
“Che cosa? Proprio adesso che sta per arrivare l’inverno? E dove andremo?” Millio era sconcertato.
Lenìn, cercando di mantenere la calma, riprese.
“Andremo più in alto, alla malga Bertani.”
“Cristo! Moriremo di freddo! E poi è troppo lontana da qui, come faremo a mantenere i collegamenti con le altre brigate?”
“Non abbiamo altra scelta. E comunque si tratterà solamente di trascorrere l’inverno, dal momento che non saremo impegnati in azioni importanti fino alla primavera. Inoltre, qualcuno di voi potrebbe anche passare la stagione in pianura. Sarebbe utile per avere informazioni. Che ne dite?” Lenìn aveva fatto il possibile per apparire convincente.
“L’hai detto tu. Non abbiamo altra scelta. E il bambino?”
“Me ne occuperò io. Inizieremo subito a smantellare il campo. Domani all’alba, mentre voi comincerete a salire, lo accompagnerò in prossimità del paese. Poi vi raggiungerò prima che sia buio.” A quelle parole del comandante tutti annuirono, convinti e ormai rassegnati.
“E chi lo dirà a Olga?” chiese Millio.
“Ci mandiamo Baldo! Olga ha un debole per lui!” esclamò Alberto.
“Ma… ma… ma…” Di fronte all’imbarazzo del ragazzo, finalmente i partigiani sorrisero.
“Non dimenticarti di dirle che è un ordine!” aggiunse Lenìn, anche lui più sereno.
Il mattino dopo, quando il cielo cominciava ad arrossire, Lenìn andò a svegliare Silvietto, lo costrinse a mangiare pane e formaggio, poi lo assicurò di nuovo saldamente alla cintura con una corda, – continuava a non fidarsi di quel ragazzino, anche se non sapeva dire per quale motivo – quindi i due si misero in cammino. Silvietto, dapprima silenzioso, appena fu sveglio del tutto ricominciò a parlare con il suo tono insolente.
“Alla fine avete deciso di non farmi fuori, vero? Sei stato tu a impietosirti oppure è stata la ragazza? Secondo me sei stato tu, quella mi pare una con le palle. Lei mi avrebbe di sicuro accoppato.”
“Smettila! Anzi, fai una bella cosa, stai zitto! E soprattutto cerca di tacere quando sarai tornato a casa.”
“Non mi fai paura. Sai bene che dirò tutto.”
“Sei veramente un ragazzino sgradevole! Mi chiedo che cosa farai quando sarai cresciuto…”
“Lo vuoi davvero sapere? Voglio fare ciò che fai tu.”
Lenìn lo guardò stupito.
“Che cosa? Il partigiano?” chiese.
“Ma no! Voglio comandare, dare ordini, come te. E in più essere un famoso imprenditore, diventare ricco e potente. A te i soldi non interessano, a me invece sì! E il potere mi attira ancora di più. ”
Silvietto sogghignò, il comandante Lenìn scosse il capo, desolato.
“Sei soltanto un giovane sbruffone. Quando sarai diventato una persona matura, cambierai opinione. E allora sarai contento di vivere e lavorare in un Paese libero. A quel punto proverai riconoscenza per chi ha lottato e si è sacrificato per conquistarla, quella libertà. Tu rappresenti il futuro della nostra nazione, e sono certo che non mi deluderai."
Si sbagliava.







  

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