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lunedì 18 aprile 2011

RIFLESSI



Guardo i suoi capelli, e vedo che sono meno folti di un tempo. La stempiatura si è accentuata e, seppure non sia ancora molto evidente, questa triste particolarità non sfugge a un’occhiata attenta, partecipe. Noto alcuni fili grigi, altri addirittura bianchi, localizzati soprattutto in corrispondenza dei lati del capo, proprio sopra le orecchie. Pare impossibile, tanto che tale peculiarità potrebbe di sicuro sfuggire a un osservatore disattento, superficiale, ma anche le sopracciglia appaiono più rade, pressoché inconsistenti. Sembra quasi che tutti i bulbi piliferi, di comune accordo, si siano ammutinati e abbiano rallentato la loro azione, una volta vigorosa ed energica. Sono stanchi, deboli e affaticati, ormai stremati. La fronte, dunque, si presenta più ampia, molto più spaziosa. Ciò infonde, in qualche misura, una maggiore autorevolezza all’intero ovale del volto, una ingannevole impronta di maggiore credibilità, di acquistato prestigio. Percezione, in ogni modo, fittizia, e del tutto illusoria. Perché l’epidermide ha una colorazione grigia, opaca, ha perso da tempo la sua luminosità, la sua morbida elasticità. Si mostra arida, scabra, tesa come la pelle di un tamburo, e sempre sul punto di lacerarsi. Gli occhi, adesso esamino con attenzione gli occhi. Il colore è quello solito, indefinito, sfuggente. Una tonalità che non colpisce, che non affascina, piatta e anonima. Quei pozzi oscuri sono privi di luce, sono spenti, è impossibile cogliere nella loro profondità un guizzo che non evochi spossatezza e estenuazione, un balenio speciale, capace di rapire e di coinvolgere. Bulbi smorti quanto l’anima, separati dal tratto netto del naso che procede dritto e regolare verso il basso, incurante di quella minuscola gibbosità basale posta più in evidenza dal trascorrere del tempo, indifferente ai capillari dilatati che, nella parte distale, conferiscono alla severa appendice cartilaginea un aspetto farsesco, oppure di  malinconica preda di Bacco. Le labbra, non più turgide, non più rosse, ma rilassate e sbiadite, sono atteggiate in modo fisso e rigido in una smorfia sconsolata che invece vorrebbe essere un sorriso. Ai lati di quella bocca avvilita, che non sa più esprimersi, si intreccia una fitta rete di piccolissime rughe, solchi scolpiti dal tempo, grinze tanto innocue quanto definitive, spaccature provocate dalla vita, dalla prolungata e inevitabile esposizione alle intemperie dei sentimenti, degli ardori e delle sofferenze. Il mento, infine, che dire del mento? Nulla, non ho più nulla da dire, perché è giunto il momento di porre fine a questo doloroso tormento, di distogliere lo sguardo dallo specchio.

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