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sabato 9 aprile 2011

MAGNÍN AL CIMITERO



“Stamattina, di buon'ora, è passata Pina d’l Ciuch ed era tutta spaventata” disse Albino, l’oste.
La donna aveva ereditato lo stranome dal padre, che era stato un grande bevitore, e per questo stimato e rispettato da tutto il paese.
Dalla zona buia del locale si udì la voce di Dolfo.
“Spaventata? Di sicuro aveva già fatto il pieno!”
“No” riprese Albino. “Ha comandato un vino chinato per ripigliarsi ma ha detto che era il primo della giornata. Era stata al cimitero, a portare i fiori al suo povero Fernando, e aveva visto una roba strana.”
“Che cosa?” domandò Dolfo, curioso.
“Ha detto che ha notato qualcosa muoversi dentro ai nuovi loculi, quelli in costruzione, e allora è scappata via di corsa. Per poco non le prendeva un colpo!”
L’osteria di Albino era del tutto particolare. Da un lato c’era l’edicola mentre dall’altra parte si trovava il banco della mescita, di fronte al quale erano disposti alcuni tavolini. Uno era sempre occupato: mattino, pomeriggio e sera. Da Magnìn e la sua banda.
“Sarà stata una bestia” disse Giors.
“Impossibile” replicò l’oste. “Pina ha detto di aver visto una scarpa muoversi, e le bestie non portano scarpe.”
“Al giorno d’oggi può essere di tutto!” sentenziò Luigino.
I suoi compagni di bevuta annuirono all’unisono, poi portarono il bicchiere alle labbra e ingollarono una robusta sorsata di rosso. Tutti, tranne Luigino. Lui beveva solo liquore alla prugna.
Dolfo picchiò un gran pugno sul tavolo. L’oste sobbalzò, gli altri invece rimasero impassibili.
“Dolfo, che c’è?” domandò Albino, allarmato.
“Niente, così” rispose il corpulento camionista.
Poi ci fu un lungo silenzio.
“Andiamo a vedere” esclamò all’improvviso Magnìn. E si alzò in piedi.
“Dove? Al cimitero? Vengo anch’io!” disse Matasèt, entusiasta.
“Non adesso, stanotte. Adesso vado a casa, per la cena, altrimenti mia madre mi rompe i coglioni.”
“A mezzanotte il cimitero è chiuso” disse Giors, il più saggio della compagnia ma pure lui gran bevitore.
“Salto il muro” disse Magnìn.
“No” affermò Abino. “Pasquale non chiude mai. Dice che tanto i morti non scappano.”
“Ormai ho detto che salto il muro e salto il muro” ribadì torvo Magnìn.
L’oste si strinse nelle spalle. Sapeva che era impossibile far cambiare idea a quell’uomo. Nessuno c’era mai riuscito.
Tutti in piedi, gli amici scolarono di gusto l’ultimo bicchiere, poi uscirono.
Magnìn si diresse verso la moto. Si sedette a cavalcioni del mezzo, poi afferrò il serbatoio con le due mani e iniziò a scuoterlo forte. Si percepì un lieve sciabordìo.
“È quasi asciutto. Questa beve più di me ma fino a casa ci arrivo. Albino, mi daresti il giornale?”
“Pronti” disse l’oste. “Ti do il mio. Che cosa vuoi vedere? Non l’ho ancora letto ma…”
Magnìn lo afferrò, lo piegò in due e lo infilò sotto la camicia.
“È per l’aria” spiegò. Poi indossò enormi occhiali da saldatore, si legò al collo un fazzoletto rosso e cominciò a trafficare con la leva della messa in moto, scalciando come un matto.
Nel frattempo, Matasèt si guardava attorno, smarrito.
“Non trovo più la moto” disse con la sua voce sottile, da vecchio bambino. Allora si infilò due dita in bocca e iniziò a fischiare.
“Che fai?” domandò Dolfo.
“Provo a chiamarla” rispose Matasèt, imperterrito. “Con il cane funziona.” E continuò.
Dolfo scosse il capo, sconsolato.
“È tedesca?” chiese Luigino.
“Che cosa?” disse Matasèt.
“La tua moto, è tedesca?” ribadì Luigino.
“È una Negrini, non ti ricordi?”
“Allora non funziona, puoi pure andare a casa a piedi.”
“Ah! Grazie, Luigino” disse l’altro e si incamminò di buon passo, dopo essersi abbottonato il giaccone. Era molto magro e aveva sempre freddo. Neppure il vino riusciva a riscaldarlo.
“Perché, vuoi dire che se era tedesca…” iniziò a dire Giors, stupefatto, rivolgendosi a Luigino. Albino lo bloccò con uno sguardo eloquente.
La moto di Magnìn non ne voleva proprio sapere di partire. Allora il figlio dello stagnino iniziò a spingerla. Dopo una breve corsa balzò sulla sella, di lato, proprio come sedevano le donne, con tutto il suo peso. Dallo scappamento uscì un fumo denso e nero e la moto prese l’abbrivio scoppiettando. Magnìn, imperturbabile, proseguì la corsa rimanendo in quella posizione tutt’altro che comoda per la guida.
“È partita” sentenziò Luigino. Tutti annuirono, compunti. Tutti, tranne Dolfo, che era scivolato a terra e stava già russando. Dolfo aveva sempre la sbornia torpida.

Arrivarono al cimitero che era da poco passata la mezzanotte. Poco prima di raggiungere il piazzale, Magnìn e Matasèt spensero fari e motori e proseguirono a ruota libera, in silenzio.
Faticarono un po’ a issare le moto sui cavalletti. Era buio pesto, ed entrambi avevano già bevuto parecchio. Magnìn frugò a lungo nella sacca del veicolo e alla fine estrasse una grossa catena e un lucchetto. Si diresse verso il cancello del cimitero, passò la catena, inserì il lucchetto e lo chiuse. Poi si gettò la chiave dietro le spalle, nel prato.
“Domani mattina come farà Pasquale a entrare?” chiese Matasèt, perplesso da tutta quell’operazione.
“Con la sega da ferro” disse Magnìn. L’altro annuì, soddisfatto per la risposta.
“Così non mi viene la tentazione di passare dal cancello” spiegò ancora Magnìn. “Allora, tu mi aspetti fuori, io salto dentro e vado a vedere.”
“Perché non ti togli gli occhiali scuri? Tanto è buio!” domandò l’amico.
“E tu ci vedi qualcosa, che sei senza occhiali neri?”
“No.”
“Bene. Allora li tengo.”
Magnìn si diresse di nuovo alla capiente sacca della moto. Stavolta tirò fuori un corda. Ne legò un capo a una piccola betulla che cresceva proprio vicino all’alta recinzione del cimitero. Poi lanciò l’altro capo oltre il muro.
“Perché non l’hai legata all’altra pianta? Mi sembra più robusta” chiese Matasèt, aguzzando gli occhi.
“Guarda che qui di pianta ce n’è una sola.”
“Ah! L’ho detto a mia madre che il vino che abbiamo bevuto stasera era un po’ grosso. Ma quella non mi vuole mai dare ragione.”
Magnìn si avvicinò al muro e cominciò a tastarlo con le mani, alla ricerca dei giusti appigli e carcando di individuare piccole cavità. Indossava un giubbotto di pelle, i pantaloni da lavoro e leggere scarpe di corda. Di colpo, si aggrappò alla parete e iniziò a salire, sicuro. Sembrava un gatto. In pochi istanti fu sul culmine. Aiutandosi con la fune, si calò dall’altra parte. Una volta a terra, andò verso i loculi in costruzione, inciampando più volte nelle lapidi e imprecando a bassa voce, per non disturbare i morti. Giunto finalmente sul posto, accese la macchinetta a benzina e cominciò a esplorare i loculi, che erano ancora tutti privi della lastra di copertura. A un certo punto notò un paio di scarpe che quasi spuntavano da una delle nicchie. Si avvicinò e le annusò. Puzzavano, ma come puzzano le scarpe dei vivi. Vide che in quelle grosse e consumate calzature erano infilate due gambe. Ficcò la testa nel vano di cemento e vide anche il resto. E riconobbe quell’uomo. Si trattava di Notu Simmia, una specie di vagabondo che, pur possedendo un’abitazione, seppure misera, preferiva dormire all’aperto. In quel periodo non faceva ancora caldo, e il vecchio aveva scelto quel luogo più riparato. Notu stava ronfando alla grande. Magnìn non lo disturbò. Fu spiaciuto di aver buttato via la chiave del lucchetto, il vecchio era prigioniero all’interno del cimitero. Pazienza, pensò, lo avrebbe liberato Pasquale, il custode, quel poveretto che aveva la disgrazia di avere un figlio che non beveva. Appoggiò sul bordo del loculo alcune sigarette e dei fiammiferi, sicuro che il mattino dopo, al risveglio, Notu avrebbe gradito. Peccato non aver portato anche un quartino di rosso. Avrebbe rimediato pagando da bere al vecchio la prima volta che si fossero incontrati da Albino. Magnìn, soddisfatta la curiosità, e pure un po’ deluso, tornò indietro. Giunse di nuovo in prossimità del muro di cinta. Dopo un po’, riuscì a rintracciare la corda e vi si aggrappò, issandosi. Non tenne però conto che il suo peso fece incurvare la sottile betulla, sempre di più, finché l’albero non si tese come un arco. Appena arrivato in cima, il malcapitato fu scagliato con violenza oltre il bordo. Non emise il minimo suono.
Matasèt, che si era seduto con la schiena appoggiata alla recinzione, vide una grossa ombra scura che lo oltrepassò, volando. Subito pensò fosse un pipistrello, ma era troppo grande e quindi lo escluse. Poi si ripromise di non bere mai più, ma sapeva che quello era un impegno impossibile da mantenere. Alla fine comprese. Era Magnìn! Considerò che il suo amico aveva fatto un volo incredibile e che adesso si trovava da qualche parte in mezzo al prato. Da buon bevitore non perse la calma. Si frugò in tasca e prese un pacchetto di sigarette, di quelle senza filtro. Ne tirò fuori una, la lisciò a lungo, la inumidì con la saliva e poi la accese. Aspirò una profonda boccata. Era inutile andare a vedere, correre a cercare Magnìn. Se era morto, amen. Oltretutto sarebbe anche stato fortunato, si trovava già vicino al cimitero. Se invece se l’era cavata, e Magnìn se la cavava sempre, si sarebbe fatto vivo lui stesso. Passarono alcuni minuti, poi Matasèt percepì uno scatto metallico e, proprio in mezzo al prato, scorse una debole luce. La brace di una sigaretta. Allora si alzò in piedi.
“Magnìn” gridò. “Che cosa hai combinato? Hai svegliato i morti?”
“No, stai tranquillo che dormono. Anzi, russano addirittura.”

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