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venerdì 1 aprile 2011

LA STIRPE DI CAINO



Il bar del paese era pieno, come tutte le sere. Da una parte i giovani, impegnati con il flipper e il biliardino, dall’altra i vecchi, in piedi al banco a concionare e a bestemmiare, o seduti, spesso da soli, a qualche tavolo isolato, a bere il quartino in santa pace. Lo guardavano, il quartino, sembravano studiarlo a lungo, poi, all’improvviso, lo abbrancavano tra quelle mani nodose, ormai dure come la pietra, e lo portavano avidi alla bocca. Parevano tanti morti di sete, e lo buttavano giù quasi tutto in una sola golata e dopo facevano schioccare le labbra, per il momento soddisfatti. Ma la compiacenza non durava a lungo, e allora si guardavano attorno come smarriti, a cercare l’occhiata dell’oste, per ordinarne un altro. Mai stare con il bicchiere vuoto, che portava subito malinconia.
Il giovane Eugenio, dopo aver maltrattato il flipper come si deve, che quello faceva versi di tutti i tipi e si accendeva come l’albero di Natale, alla fine si ruppe i coglioni e, dopo aver scolato di gusto la quarta birra, andò verso il vecchio Tonio, che era seduto solitario e guardava, tutto concentrato, il bicchiere ormai asciutto.
Anche se si fosse drizzato in piedi, Tonio sarebbe mica stato tanto più alto. Il vecchio aveva le zampe corte, ma le sue braccia erano grosse come tronchi. In testa aveva ancora tutti i capelli, corti e grigi, tagliati a spazzola. La pelle del suo viso, scura e spessa, pareva corame. I grossi baffi erano gialli di nicotina.
Tonio era pensionato e viveva da solo, che da qualche anno gli era morta la moglie, e figli non ne aveva. Ma era ancora pieno di vitalità, e di lavorare non aveva smesso. Faceva andare il suo grande orto, dava una mano a uni e agli altri quando c’era da fienare, e faceva delle ore per conto del municipio. Ed era sempre in ordine, pulito e stirato, che sapeva fare di tutto anche in casa. Il vecchio era di poche parole, e quando attaccava a farlo si esprimeva in un miscuglio di tre o quattro dialetti. Lui diceva che veniva dal Veneto, a volte citava Treviso ma altre diceva Pordenone, e nessuno aveva mai capito bene da dove arrivasse veramente. E a nessuno importava, d'altra parte.
“Tonio, come va? Hai già fatto il pieno? Non è ora di ritirarsi? O aspetti l’ultimo cicchetto?” lo burlò Eugenio, che gli piaceva far girare le balle ai vecchi.
L’altro lo guardò di storto e poi gli fece segno di accomodare le chiappe.
“Canaj, perché te venì a stortarmi i coglioni?” disse, a brutto muso.
“Eh! Cerca di star calmo, non ti ho mica fatto niente!”
Tonio si alzò e Eugenio fece lo stesso. Drizzato, il vecchio arrivava poco più su della vita del ragazzo, che lo guardò da l’alto in basso e sorrise, come a schernirlo.
“Vièn, andiamo presso al cagatoio, che qui non si riese gnanca a parlare. E mi son an po’ surd.”
I due si diressero verso la porta del bagno, il posto più tranquillo del locale, che mai nessuno ci andava, nel bagno. Se c’era da fare un bisogno leggero, tutti prendevano e uscivano, giravano dietro all’edificio, dove stavano ben allineati alcuni cespugli, e lì si liberavano. Sempre fuori, mai dentro, estate e inverno. Andare dentro era roba da donne. Poi tornavano che stavano ancora trafficando con i bottoni della patta e il primo pensiero era quello di ordinare subito un altro quartino di rosso.
“Ma ti sai che lavoro faso?” disse Tonio.
“Certo che lo so. Fai il becchino” rispose Eugenio, un po’ stupito da quella domanda.
“Bèn. Quelo lè il più bel lavoro del mundo!”
“Sotterrare i morti?”
“Mi li curo da principio a la fine. Prima li scavo la tampa, bèla prufunda perché i mòrt a l’han da stè comut. Basta fracàss e basta ciacole, gnan già sentì tròp! E poi, anche da mòrt, dopo un po’ gli girano i coglioni anche a loro. Li sutta non si può né mangiare né trincare, e a la fine gli vièn la noia pure a loro. E alura toca sempre a mi tirarli fora. E vedesi come son contenti quandi senton di nuovo l’aria!”
“Ma che dici?”
“Te diso che lo sentono, di esser di novo fora, a l’aria! Son disfatti, e mi colgo le ossa, ciò che lè restato, e son legère come tocchi di tronco bei secchi. E alùra vardo la testa, cui denti tüti in fora, la testa lè sempi intera, e mi somiglia che ridono perché son felici, perché senton par l’ultima volta il calùr del sòl! E poi li piglio e li sparpaglio, quei povri tocchi, e alùra fine, sun mort sul serio.”
“Ma perché mi racconti tutte ‘ste cose? A me mica mi interessa cosa fai tu con i tuoi morti!”
“Citu! E porta rispèt ai veci!”
“Tonio, adesso devo proprio andare…”
“Stà bon lì! E scùtta! Te andà a la dutrina, da bocia?”
“Certo che ci sono andato. Preferivo andare a giocare a pallone, ma mia madre mi mandava al catechismo a calci in culo.”
“Ben fàtt! Santa dona! Te ricordi de Caìn e Abèl?”
“Sì che mi ricordo…”  
Tonio gli fece gesto di stare zitto.
“Eran dùi fradèi, ma  andavan pà d’acordi. L’uno, il Caìn, a lavurava la tèra, ma na volta n’era pà cume adès. La tèra l’era düra, tüta polvere e sàss. Niuno l’aveva mai rivultata prima, e il por Caìn l’aveva sol attrezzi de ligno, che si rumpeva sempri. Mica c’era la forgia, a l’èpuca! Gnenti badili e sape de fèr! E cojiva pòc, poca früta e verdüra misera, tüta fiapa. Abèl, anvece, l’era an pastùr. A fasea an casso tüt al dì, andava drè a le bestie e gnente d’artro. E le bestie si che mangiavu! C’era erba dapertüt, niuno l’aveva mai mangiata prima, tuto era verde, e quela l’era erba buona, bela grassa, propri come piase a le bestie, che diventavano sempre più grose. Sia l’uno che l’artro fradèl facea i sacrifizi al Signùr, perché così li avevano insegnato, ma anche per tenerlo buono, che quello aveva un càrater che ti racùmando! Somigliava esser buono, ma se li prendevano i cinque minuti… L’era süperbi! Abèl copava li agnelli più beli e li offriva al Signùr. Ma non ti credere, quelo mica si faceva il cosciotto rostito, lo lasciava lì finché marciva e alùra tocava coparne n’artro. E via così, che tanto di bestie ce n’erano tante. E Abèl, citu citu, così fasendo, s’ingrasiava il Signùr. El por Caìn, anvece, aveva sol früta e verdüra tuta ciospa, e il Signùr lu cagava pà! Pasa un giorno, pasa n’artro, a Caìn a la fine li girarono i coglioni! Un po’ par l’invidia, e ‘n po’ perché Abèl, anche se l’era so fradèl, li pareva un ruffian! Alura li prese un giramento di bale come mai prima e na volta spetò Abèl nel bosco e gli diè giù con il ligno e lo copò. E poi scapò via…
“Tonio, si può sapere per quale motivo mi racconti tutte ‘ste storie da vecchio? C0s’è, hai la ciucca stramba?”
“Te le conto perché ti non porti rispèt ai veci!”
“Proprio non ti capisco…”
“Te volevo dir che la violensa lè dintra de nui, nui omini, fin dai primi tèmp, dai tèmp di Caìn e Abèl. E a volte, dopo che lè gunfià ben ben dintra, a la vèn fora. E alura son disastri.”
“Ma dàì, smettila di predicare. O non parli o parli troppo, a sproposito. Guarda che ho mica paura di te. Sei vecchio, se ti tocco con una mano finisci subito con i piedi davanti!”
“Rispet, canaj! Ti te grand e gròss, ma tè le man mole! Se mi dai no sgiaff e poi mi me drizzo da tera sàs che capita?”
“Tonio, per favore…”
“Mi te copo.”
“Eh? Che hai detto?”
“Te diso che se non mi stiri al primo colpo, non so se con un calcio o un pugno, o col cortello, ma de sicuro te copo, e non me lo dai un artro colpo. Mi non faso a busche, mi copo.”
Eugenio, all’improvviso, perse tutta la sua baldanza e si fece bianco.
“Tonio, non ho capito…” farfugliò.
“No? Te ripeto par l’ultima volta. Ho dit che te faso la pèl, giuven o nen giuven che tè. O, come che diso da le mie parti, te tiro fora da le spese!”
Tonio, lesto, tirò fuori dalla tasca una roncola e la aprì con un movimento fulmineo.
“Varda ben, che con questo te foro e ti cadi giù come un tronco passato al segòn!”
“Ma sei pazzo? Io non volevo offenderti… Giorgio!”
“Lassa stà Giors! Lo conti dopo a lui e a tüta la cumpagnia, così imparano anche loro. Mi l’ho contato a ti perché mi pari il più svicio de tuti.”
Tonio richiuse la roncola e uscì dal bar. Nessuno aveva notato niente. Eugenio rimase immobile per un buon minuto, poi uscì a sua volta e si diresse di corsa verso i cespugli.

          

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