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venerdì 22 aprile 2011

LE TRE CROCI



Moab, il conciatore di pelli, si fece largo a fatica nello stretto vicolo, imboccato dopo aver superato la zona del mercato. I venditori, in piedi sulla soglia dello loro minuscole botteghe, cercavano di attirare l’attenzione dei potenziali clienti urlando a squarciagola. A ingombrare la via era presente ogni sorta d’umanità: carrettieri, sacerdoti del Tempio stretti nei lunghi caffetani scuri, giocatori d’azzardo dallo sguardo astuto, mendicanti storpi e prostitute abbigliate in maniera vistosa.
Il conciatore, gli occhi bassi, le dita strette sul borsellino con le monete, ignorò tutti e si diresse, affrettando il passo, verso un laboratorio artigiano dal quale provenivano, secchi e ritmati, ripetuti colpi di martello. Entrò.
Levi, il falegname, appena vide l’amico interruppe subito il lavoro. Sorrise. Si passò una mano sulla fronte, per asciugare il sudore, e posò la mazzuola su uno sgabello.
“Levi!” disse il conciatore. “Che cosa è successo? Non ti ho mai visto così impegnato già di buon mattino!”
L’altro sospirò e si sedette. Indicò all’amico di accomodarsi su una panca, che scricchiolò sotto il peso del corpulento artigiano.
“C’è pericolo che mi ritrovi con le terga a terra?”
“Stai tranquillo, l’ho costruita io, e ti posso assicurare che reggerebbe il peso di un…”
“… elefante?” lo interruppe Moab, che poi scoppiò a ridere.
“Ascolta” proseguì il conciatore. “Avresti, per puro caso, ancora un po’ di quel fresco vinello della Galilea? La camminata mi ha seccato la gola.”
“Capisco” disse semplicemente il falegname. Si alzò, andò nel retro della bottega e tornò dopo pochi istanti recando due boccali colmi di un liquido rosato.
“Hai molto lavoro?” domandò Moab, finalmente serio.
“Purtroppo sì. Mi è arrivata un’ordinazione improvvisa e urgente, da parte degli uomini del governatore. Per domani.”
Il conciatore guardò alcune lunghe travi che erano appoggiate su rudimentali cavalletti. Vide che il lavoro era a buon punto. Il legno era già quasi del tutto piallato e lisciato.
“Si tratta di queste?”
“Sì, sono tre croci. Mi rimane da finirne una sola, la più grande, quella che dovrà essere posta in mezzo.”
Moab annuì, pensieroso.
“È quella destinata al nazareno, vero?” disse.
“Credo di sì. Non mi sono stati forniti molti particolari. Mi è stato soltanto raccomandato che fossero robuste, in particolare quella.” Levi si strinse nelle spalle.
“L’altro giorno io c’ero” disse Moab, svuotando il boccale.
“Dove?”
“In piazza, quando hanno condannato quello sconosciuto, quel Gesù. Che avrà mai fatto? Non ha rubato né ammazzato, eppure sarà crocefisso! Dov’è la giustizia in tutto ciò?”
“Non possiamo aspettarci giustizia da Erode. E tantomeno da Roma” disse Levi, cupo.
“Però il governatore ha liberato Barabba. Così ha voluto la folla.”
“Barabba è uno di noi” disse il falegname.
“Può darsi. Ma chi è veramente Barabba? Un delinquente? Un patriota?” domandò il conciatore, infervorandosi.
“Entrambe le cose” disse Levi, sarcastico.
“Forse hai ragione tu, vecchio mio. Il fatto è che, per i capricci della gente, quel poveraccio sarà giustiziato.”
“Ascolta, Moab. In fondo, che ne sappiamo noi? Siamo solo due poveri e ignoranti artigiani. Come facciamo a essere sicuri che il nazareno non fosse davvero implicato in qualche congiura?”
“Congiura? E contro chi? Contro il nostro re? Oppure contro l’usurpatore romano? Magari!”
“Moab! Non urlare, dalla via potrebbero sentirti” esclamò il falegname, spaventato.
“A Pilato non importa nulla se un innocente sarà ammazzato. Quello, il nazareno, ha semplicemente pestato i piedi a qualche pezzo grosso del Tempio! E il nostro buon governatore, con la sua sentenza, ha compiaciuto in un colpo solo i sacerdoti e il desiderio di sangue e di morte del popolo.”
“Quindi la mia croce sarà utilizzata per mettere a morte un incolpevole?” domandò Levi all’amico.
“Non te la prendere. Tu non puoi fare nulla, se non cercare di svolgere bene il tuo lavoro. Purtroppo, non sarà di certo l’ultima volta che una cosa simile accadrà. La giustizia terrena non esiste, è solo un’illusione.”
“Sai per caso a chi sono destinate le altre due croci?” chiese il falegname. “A me non l’hanno voluto dire.”
Moab rifletté un attimo.
“Credo di sì. Se ne parlava ieri sera all’osteria. Si tratta di due ladri, Tito e Gestas. Li conosci?”
“Certo!” disse con enfasi Levi. “Non si tratta di due ladri, sono due assassini!”
“Diciamo che per rubare hanno sempre utilizzato modi spicci. Giusto?”
“È così. Tuttavia Gestas in realtà è un poveraccio. Sai, quando era bambino…”
“Ma come! Dicono tutti che sia il più crudele e spietato dei due!” lo interruppe Moab.
“Si sbagliano. Ho avuto modo, per mia sfortuna, di conoscere bene Tito. È un criminale scaltro e smaliziato, anche se non appare come tale. Per salvarsi sarebbe disposto a vendere l’anima al demonio!”
“Invece questa volta dovrà rassegnarsi. Chi può ormai salvare lui o almeno la sua anima? Il nazareno, forse? Quello è messo peggio di lui!”
“Lo conosco, ti dico. Tito è in grado di ingannare chiunque!”
“Stai tranquillo, amico mio. Cerchiamo di non pensare a tutta questa brutta situazione. Tanto, noi non contiamo nulla” disse Moab allargando le braccia.
“Sì, hai ragione” rispose Levi. Poi si alzò e impugnò una grossa pialla.

I lugubri profili delle tre croci si stagliano sul Golgota. Tre uomini vi sono inchiodati. Il nazareno, nel mezzo, ha il capo piegato. Da poco ha esalato l’ultimo respiro. Alla sua sinistra, una smorfia terribile disegnata sul volto del ladrone Gestas esprime tutta l’atroce sofferenza che ha preceduto la sua morte. Alla destra del presunto Re dei Giudei c’è Tito, ormai senza vita, che sembra invece sorridere.
“Le croci hanno retto. Hai fatto un buon lavoro, Levi” dice Moab, il conciatore.
“Sì, davvero un ottimo lavoro” risponde il falegname, amaro.  




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