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venerdì 4 febbraio 2011

DISUNITA' D'ITALIA


Ci siamo. È arrivato il momento di festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Ho avuto, per ragioni anagrafiche, la sventura (0 la fortuna?) di non aver potuto assistere all’altro anniversario, quello del secolo, tuttavia mi chiedo che cosa sia cambiato negli ultimi cinquant’anni e, soprattutto, che cosa sia mutato da quel fatidico 1861, quando si svolse l’atto finale delle astuzie sabaudo-cavouriane e dell’idealismo cinico di Mazzini. La risposta è: quasi nulla. Il processo di consolidamento che, con grande fatica, è stato portato avanti dalle classi dirigenti che si sono succedute e alternate non ha dato, in tutta onestà, i frutti sperati.
D’accordo, il paese, nel corso degli anni, ha subito innumerevoli trasformazioni. È passato da realtà in prevalenza agricola a grande potenza industriale, solo negli ultimi tempi decaduta, ma il livello di integrazione economico-sociale non ha accompagnato in maniera adeguata tale evoluzione. La forbice tra Nord e Sud, presente e vistosa già all’epoca dell'unificazione, è rimasta pressoché inalterata. Ma il vero problema è rappresentato dall’identità nazionale, elemento fondamentale percepito, al presente, come incerto e sfumato, conseguenza di un processo di aggregazione mal riuscito. Un’uniformità a lungo inseguita ma ostacolata e impedita dalla mancanza, nel popolo italiano, di un vero spirito nazionale, di un autentico senso dello stato, e di una scarsa e indefinita comprensione del concetto di dovere civico.
Ormai ci siamo, e quindi festeggiamo pure, poi si vedrà, ma è comunque legittimo e doveroso rivolgere una domanda. È ancora possibile porre rimedio a questa non entusiasmante condizione?
Anche in questo caso, è difficile rispondere ricorrendo all’ottimismo. Le profonde difformità esistenti tra le diverse realtà del paese (in particolar modo tra Nord e Sud) sembrano essere assai ardue da colmare, le prospettive appaiono pervase da incertezza e timori. Negli ultimi tempi alcuni osservatori osano finalmente introdurre una questione che, fino a pochi anni fa, era considerata proibita. Il destino della nostra nazione può essere quello della separazione? Si badi bene, separazione e non secessione, essendo quest’ultimo un termine utilizzato soltanto a scopi di bieca propaganda da parte di una formazione politica in prevalenza localistica e preda di spinte egoistiche, e quindi privo di un reale significato. La separazione, al contrario, è negoziata, concordata e non imposta unilateralmente.
Ampliamo gli orizzonti all’intera Europa, tralasciando volutamente le realtà nelle quali sussistono da tempo rivendicazioni autonomiste, come nel caso della Catalogna e dei Paesi Baschi. L’ultimo spauracchio è rappresentato dal Belgio, uno stato nel quale le pretese contrapposte di fiamminghi e francofoni hanno avuto una brusca accelerazione determinando così una grave paralisi a livello istituzionale (manca un governo da oltre sei mesi). Pure in questo caso ci troviamo di fronte a un Nord più ricco di risorse e a un Sud più povero, i contendenti tuttavia parlano lingue diverse anche se ciò non ha impedito la pacifica coesistenza dei due gruppi per più di centosettant’anni. E non dobbiamo scordare il caso dell’ex-Cecoslovacchia che, nel 1993, si è scissa dando origine a due nuovi stati, e il tutto è avvenuto senza grandi clamori e non lasciando in eredità particolari risentimenti. Cechi e slovacchi, anche loro, parlavano lingue diverse. Non è il nostro caso, direte.
La lingua. Può essere ritenuta, in una nazione, elemento essenziale e fondante, garanzia assoluta contro l’azione di spinte separatiste? Non più. Per tale motivo il nostro paese potrebbe, in ogni caso, subire in futuro turbolenze simili a quelle che hanno colpito, per ora con esiti differenti, gli stati menzionati a titolo esemplificativo. Nell’epoca attuale, globalizzata e sempre più interculturale, la prevalenza è rappresentata non più da un tipico elemento identitario quale può essere la lingua comune, ma dall’aspetto economico. L’azione della politica, nel nostro paese, dovrà pertanto essere concentrata soprattutto in campo economico-sociale se si vorrà tentare di impedire il crescere di pulsioni disgregatrici che porterebbero all’inevitabile separazione. È in grado di farlo? La nostra classe dirigente e i suoi mandanti, i cittadini, sono all’altezza di un tale impegnativo compito? Evidentemente no, e pastrocchi quali la famigerata riforma federalista non faranno altro che accelerare il processo di disgregazione in atto.
La fine è ormai nota.

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