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venerdì 29 marzo 2013

IL CANE DEI VICINI



È piuttosto tardi, ma sono ancora in pigiama. Cioè, non si tratta di un vero e proprio pigiama, piuttosto di un qualcosa di simile. Un bene succedaneo, avrebbe detto il mio vecchio professore di economia. In realtà soltanto adesso sarebbe veramente vecchio, di età intendo, perché sono trascorsi ormai tanti anni dai tempi della scuola. Allora invece era giovane – non quanto me all’epoca, naturalmente – ma sono certo che allora fosse giovane. I professori, anche se non sono stagionati, sono sempre più vecchi dei loro studenti. Questo è certo. E lui era quello che si portava sempre il cane appresso, in classe. Un cane piccolo, quasi microscopico – non mi ricordo più il nome né della razza né del cane – e che non dava per niente fastidio. La bestiola si accucciava sotto la cattedra e se ne stava buona e tranquilla per tutta la durata della lezione. Però non dormiva mai, ed era questa la cosa che mi faceva imbestialire. Esatto, diventavo proprio come una bestia, diventavo come lui, il cane. Anzi, peggiore di lui. Quello prestava attenzione a tutto, alle spiegazioni ma soprattutto alle interrogazioni. Finché ascoltava le prodezze dei miei compagni, la cosa non mi dava fastidio più di tanto, ma quando toccava al sottoscritto essere torchiato da quel sadico del suo padrone be’… allora era diverso. Appena iniziavo a balbettare qualcosa, lui rizzava le orecchie e piegava quel minuscolo muso nella mia direzione. Si vedeva che era concentrato, attentissimo a ogni parola che pronunciavo. Sono certo che quel figlio di un cane fosse piuttosto preparato in quelle materie che a me invece risultavano ostiche, di conseguenza i miei enormi strafalcioni lo colpivano profondamente; così si esibiva in strane smorfie e arricciava il naso. Insomma, soffriva davvero. Altre volte la sua minuscola bocca assumeva una strana piega, appena accennata, che però gli conferiva un’espressione inconfondibile, molto simile a un sorriso, un sorriso maligno però, di dileggio. Ciò avveniva quando il professore – e suo adorato padrone – mi rispediva al posto dopo avermi affibbiato l’ennesima sonora insufficienza. E in quel momento sulla bocca dell’insegnante scorgevo tratteggiato quello stesso sorriso beffardo che già avevo sperimentato su sembianze canine qualche attimo prima. Da allora ho iniziato a odiare i cani. Tutti. Intendiamoci, non ho paura di essere aggredito, di essere assalito da loro oppure morso. Li temo nel loro insieme, nella loro universalità, per così dire. Sono convinto che da qualche tempo stiano ordendo, in gran segreto, qualcosa di terribile; il loro obiettivo finale, a mio parere, non può che essere quello di annientare il genere umano. Perché ci considerano – a torto - oppressori e schiavisti e pretendono vendetta. La mia è un’ossessione immotivata? Si tratta forse di pazzia? No, ritengo di essere una persona abbastanza equilibrata, sana di mente. Certo, non nego di soffrire di una fastidiosa forma di esaurimento nervoso – così almeno il medico definisce il mio disturbo – ma i miei pensieri fluiscono con incredibile lucidità. Qualche tempo fa ho esposto a un conoscente queste mie congetture, quelle sui cani; ebbene, quel tale è rimasto senza parole a causa delle mie ardite argomentazioni. Già, i cani. Proprio ieri ho letto, sulla rivista “Cani & Gatti” – alla quale sono abbonato da anni - un articolo che mi ha impressionato. Vi si affermava che ogni ora vengono al mondo più cani e gatti che esseri umani, anche se i dati non sono certi per via del fenomeno del randagismo. Spaventoso. Ho dovuto prendere tre pastiglie - delle mie intendo - tutte in una volta. Comunque, riconosco che i gatti mi fanno meno paura. Sarà perché sono creature più individualiste, più egoiste e quindi non in grado di organizzarsi, di pianificare un’eventuale insurrezione. Impossibile per loro mettersi d’accordo su un progetto comune. I cani no, i cani sono molto più pericolosi. Loro hanno menti pragmatiche, razionali, e conoscono alla perfezione le debolezze dell’uomo. Sanno come colpirci, e sono perfettamente in grado di mettere in pratica efficaci e devastanti azioni militari. Possono difettare in tattica, ma la loro strategia mi è ben chiara. Rimane un unico, grande interrogativo: il momento. Quando scateneranno la loro offensiva? Sono certo che si tratterà di un attacco a livello planetario, pianificato nei minimi particolari. Non avremo scampo. La nostra unica possibilità di salvezza consiste nel prevenire una simile azione, nel riconoscerne i segnali premonitori. Da tanto tempo mi considero una specie di sentinella del genere umano, ma pochi tra i miei simili collaborano a quest’opera in maniera attiva. In fondo, noi siamo peggiori dei gatti. Questi pensieri – che non mi abbandonano mai – provocano in me ansia e turbamento. Per prudenza, negli ultimi tempi ho preferito non abbandonare mai la mia abitazione, dove mi sento più sicuro. Ho dovuto però lasciare il lavoro, ma la piccola pensione che percepisco per la mia infermità mi consente comunque di vivere. Perso nelle mie elucubrazioni, mi sono scordato di fare colazione. La bottiglia del latte è sul tavolo, ancora da aprire; al suo fianco ci sono una pagnotta di pane e un vasetto di marmellata, di quella buona, confezionata con cura da mia madre. Guardo ancora una volta il mio misero pigiama - vale a dire le abbondanti mutande e la maglietta stinta che porto - e decido che non è il caso di toglierlo. Stasera, prima di andare a letto, lo dovrò indossare di nuovo e pertanto decido di non levarlo. Non avrebbe senso. Proprio mentre sto cercando di infilare sopra i soliti pantaloni, sento il suono del campanello. Claudicando, mi precipito verso la porta. Chi sarà? Forse il postino, oppure i soliti ragazzacci in vena di scherzi stupidi. Da qualche tempo mi hanno preso di mira e non riesco a spiegarmene le ragioni. Mi avvicino allo spioncino e guardo fuori. Nessuno. Subito dopo percepisco un lieve raspare sull’uscio, in basso. Con cautela, socchiudo la porta ma mi scordo di inserire la catenella di sicurezza. Sorprendendomi, lui spinge con il muso ed entra, con prepotenza.
“Argo!” esclamo.
È il cane dei vicini, si chiama Argo ed è un enorme rottweiler con il manto lucido e scuro. Lo conosco bene – e lui conosce me – perché spesso lo incontro fuori, a passeggio con il padrone. In quelle occasioni faccio di tutto per evitarlo, ma non riesco mai a sfuggire al suo sguardo torvo, cattivo. Stizzito, richiudo la porta con una pedata e torno in cucina, dove vedo il cane che, noncurante della mia presenza, si aggira indisturbato annusando qua e là. L’inquietudine, dentro di me, cresce a dismisura. Allora mi affaccio alla finestra e guardo la casa dei vicini, la casa di Argo. Tutte le finestre sono chiuse, così come il grande cancello, quello sulla strada. Il bestione è rimasto chiuso fuori? E i suoi padroni non se ne sono accorti e sono andati tranquillamente al lavoro? E Katia, la loro bambina, è a scuola? Mi sforzo di normalizzare il ritmo del respiro, ma non ci riesco. Cerco di convincermi che ciò che sto vivendo è puro frutto del caso. Forse Argo si è sentito solo e, non potendo tornare nella propria abitazione, è venuto a cercare la mia compagnia. Ma so che non è così. Questa spiegazione non mi convince per nulla. All’improvviso, sono colpito da un pensiero terrificante. E se il momento, quel momento tanto temuto, fosse arrivato? E se il compito di Argo fosse di neutralizzare me, uno dei pochi umani ad avere intuito la mostruosa cospirazione? Comincio a sudare in maniera copiosa, le gambe quasi cedono. Dove ho messo le pastiglie? Mi aggrappo al tavolo e mi accascio su una sedia. Argo si immobilizza, mi lancia un’occhiata ostile e poi prosegue la sua ispezione. Poco alla volta mi calmo e riacquisto la capacità di ragionare. Solo con un grande sforzo riesco a dissimulare la mia paura, anche se lui ormai l’avrà già percepita. Devo riuscire a escogitare un modo di ingannare quel bastardo bestione peloso.
“Argo, vieni qua!” pronuncio con voce abbastanza ferma.
Lui mi guarda, sorpreso. Poi, con mia grande incredulità, si avvicina e si accuccia ai miei piedi. Nessuno dei due, l’uomo e il cane, vuole scoprire le proprie carte. Siamo impegnati entrambi in una lotta psicologica che può avere un esito mortale. Mi affido alla mia intelligenza, di sicuro superiore a quella della bestia. Se fosse un essere umano, se lavorasse in una fabbrica, Argo sarebbe un ottimo capo reparto, ma non un dirigente. Se prestasse servizio nell’esercito, sarebbe un efficiente sergente, ma non certo un ufficiale. Il mio nemico non è nient’altro che un esecutore, una semplice pedina in un grande disegno. Posso sconfiggerlo, ne sono certo. Fingendo indifferenza affetto il pane e, proprio mentre sto per portarlo alla bocca, sento un ringhio sordo.
“Argo, ne vuoi anche tu? Hai fame?”
Gli getto il pezzo di pane, che lui divora in un attimo. Senza masticare, come fanno i cani. Non riprovo a mangiare, capisco che può essere pericoloso; è probabile che il cane abbia ricevuto l’ordine di impedirmi di farlo, anche se non ne capisco le ragioni. Vuole forse affamarmi? Devo fare qualcosa, non posso più rimanere in attesa. Con cautela, avvicino la mano al telecomando appoggiato sul tavolo. Voglio avere notizie, sapere se sono vittima di un’azione isolata oppure se la rivolta si è già scatenata ovunque, in tutto il mondo, come purtroppo temo. Proprio quando sto per pigiare il tasto d’accensione, Argo si alza di scatto, appoggia le sue grosse zampe sul tavolo e sposta il telecomando fino a farlo rovinare a terra, dove si frantuma in mille pezzi. Mi blocco, raggelato, mentre il cane ritorna dov’era prima, accanto alla sedia. Che cosa intendeva fare? Voleva giocare, seppure in modo goffo e maldestro? Ha forse scambiato quell’aggeggio di plastica, lungo e nero, per il bastone che il suo padrone gli lancia in cortile? Mi passo le mani sul viso, lentamente. Perché? Perché mi illudo ancora? Sono precipitato in un incubo, ingannare me stesso non mi assicurerà la salvezza, e tantomeno ciò sarà di alcuna utilità ai miei simili. Mi guardo intorno, alla ricerca di una potenziale arma, ma non scorgo nulla di adatto. Quel cane è una montagna di muscoli, e le sue fauci sono spaventose. Il mio fisico invece è gracile, e la mia gamba rigida di certo non mi aiuta. Che cosa posso fare, a mani nude, contro quella macchina perfetta, progettata per uccidere? Allora mi sento perso. Nessuno può aiutarmi, sono assalito dalla disperazione. Non posso muovermi, non posso scappare. Lui me lo impedirebbe. Che cosa aspetta a finirmi? Perché vuole continuare a tormentarmi? A questo c’è una sola risposta: è la sua malvagità che lo fa agire in questo modo, è la crudeltà propria della sua razza. Maledetto! In bocca non ho più saliva, un sottile velo di sudore freddo ricopre la mia fronte. Le mie mani sono gelide. Il terrore si impadronisce di me.
“Dong! Dong!”
Le campane! È già mezzogiorno ed io mi trovo qui, bloccato da quasi due ore. Argo adesso è disteso sotto il tavolo, ma sono certo che non sta dormendo, finge. Le sue orecchie, a tratti, sono animate da impercettibili movimenti. Che cosa sta aspettando? Nuovi ordini, forse?
“Argo! Argo!”
Una voce infantile, che proviene dall’esterno. La piccola Katia!
Il cane balza in piedi, scattando come una molla. Si scrolla e poi si lancia contro la porta. Il suo moncone di coda si agita frenetico. Mi alzo anch’io e lo seguo, zoppicando. Il mostro gratta contro l’uscio con le sue grosse unghie. Lo apro. Sono frastornato, stordito. Mi sono dunque sbagliato? Le mie – come non si stanca mai di ripetere il mio medico – sono davvero soltanto ossessioni? Esco per guardare, e non mi accorgo che la porta si richiude alle mie spalle. Vedo la bambina, felice e con le braccia aperte, pronta ad accogliere il suo grosso cane che le sta correndo incontro. Infatti, qualche istante dopo, Argo le balza addosso, la atterra con il suo peso e la azzanna alla gola. Un paio di violenti strattoni ed è tutto finito. Katia adesso è esanime sul selciato, ridotta a un mucchio di miseri stracci. Argo si volta e mi guarda. Le sue orribili fauci sono insanguinate. Con il suo passo pesante, torna lentamente verso casa mia. Sono spacciato.

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