È piuttosto tardi, ma sono ancora in pigiama. Cioè, non si tratta di
un vero e proprio pigiama, piuttosto di un qualcosa di simile. Un bene succedaneo,
avrebbe detto il mio vecchio professore di economia. In realtà soltanto adesso
sarebbe veramente vecchio, di età intendo, perché sono trascorsi ormai tanti
anni dai tempi della scuola. Allora invece era giovane – non quanto me
all’epoca, naturalmente – ma sono certo che allora fosse giovane. I professori,
anche se non sono stagionati, sono sempre più vecchi dei loro studenti. Questo
è certo. E lui era quello che si portava sempre il cane appresso, in classe. Un
cane piccolo, quasi microscopico – non mi ricordo più il nome né della razza né
del cane – e che non dava per niente fastidio. La bestiola si accucciava sotto
la cattedra e se ne stava buona e tranquilla per tutta la durata della lezione.
Però non dormiva mai, ed era questa la cosa che mi faceva imbestialire. Esatto,
diventavo proprio come una bestia, diventavo come lui, il cane. Anzi, peggiore
di lui. Quello prestava attenzione a tutto, alle spiegazioni ma soprattutto alle
interrogazioni. Finché ascoltava le prodezze dei miei compagni, la cosa non mi
dava fastidio più di tanto, ma quando toccava al sottoscritto essere torchiato
da quel sadico del suo padrone be’… allora era diverso. Appena iniziavo a
balbettare qualcosa, lui rizzava le orecchie e piegava quel minuscolo muso
nella mia direzione. Si vedeva che era concentrato, attentissimo a ogni parola
che pronunciavo. Sono certo che quel figlio di un cane fosse piuttosto
preparato in quelle materie che a me invece risultavano ostiche, di conseguenza
i miei enormi strafalcioni lo colpivano profondamente; così si esibiva in
strane smorfie e arricciava il naso. Insomma, soffriva davvero. Altre volte la
sua minuscola bocca assumeva una strana piega, appena accennata, che però gli
conferiva un’espressione inconfondibile, molto simile a un sorriso, un sorriso
maligno però, di dileggio. Ciò avveniva quando il professore – e suo adorato
padrone – mi rispediva al posto dopo avermi affibbiato l’ennesima sonora
insufficienza. E in quel momento sulla bocca dell’insegnante scorgevo tratteggiato
quello stesso sorriso beffardo che già avevo sperimentato su sembianze canine
qualche attimo prima. Da allora ho iniziato a odiare i cani. Tutti.
Intendiamoci, non ho paura di essere aggredito, di essere assalito da loro
oppure morso. Li temo nel loro insieme, nella loro universalità, per così dire.
Sono convinto che da qualche tempo stiano ordendo, in gran segreto, qualcosa di
terribile; il loro obiettivo finale, a mio parere, non può che essere quello di
annientare il genere umano. Perché ci considerano – a torto - oppressori e
schiavisti e pretendono vendetta. La mia è un’ossessione immotivata? Si tratta
forse di pazzia? No, ritengo di essere una persona abbastanza equilibrata, sana
di mente. Certo, non nego di soffrire di una fastidiosa forma di esaurimento
nervoso – così almeno il medico definisce il mio disturbo – ma i miei pensieri
fluiscono con incredibile lucidità. Qualche tempo fa ho esposto a un conoscente
queste mie congetture, quelle sui cani; ebbene, quel tale è rimasto senza
parole a causa delle mie ardite argomentazioni. Già, i cani. Proprio ieri ho letto,
sulla rivista “Cani & Gatti” – alla
quale sono abbonato da anni - un articolo che mi ha impressionato. Vi si
affermava che ogni ora vengono al mondo più cani e gatti che esseri umani, anche
se i dati non sono certi per via del fenomeno del randagismo. Spaventoso. Ho
dovuto prendere tre pastiglie - delle mie intendo - tutte in una volta.
Comunque, riconosco che i gatti mi fanno meno paura. Sarà perché sono creature
più individualiste, più egoiste e quindi non in grado di organizzarsi, di pianificare
un’eventuale insurrezione. Impossibile per loro mettersi d’accordo su un
progetto comune. I cani no, i cani sono molto più pericolosi. Loro hanno menti
pragmatiche, razionali, e conoscono alla perfezione le debolezze dell’uomo.
Sanno come colpirci, e sono perfettamente in grado di mettere in pratica
efficaci e devastanti azioni militari. Possono difettare in tattica, ma la loro
strategia mi è ben chiara. Rimane un unico, grande interrogativo: il momento.
Quando scateneranno la loro offensiva? Sono certo che si tratterà di un attacco
a livello planetario, pianificato nei minimi particolari. Non avremo scampo. La
nostra unica possibilità di salvezza consiste nel prevenire una simile azione,
nel riconoscerne i segnali premonitori. Da tanto tempo mi considero una specie
di sentinella del genere umano, ma pochi tra i miei simili collaborano a
quest’opera in maniera attiva. In fondo, noi siamo peggiori dei gatti. Questi
pensieri – che non mi abbandonano mai – provocano in me ansia e turbamento. Per
prudenza, negli ultimi tempi ho preferito non abbandonare mai la mia
abitazione, dove mi sento più sicuro. Ho dovuto però lasciare il lavoro, ma la
piccola pensione che percepisco per la mia infermità mi consente comunque di
vivere. Perso nelle mie elucubrazioni, mi sono scordato di fare colazione. La
bottiglia del latte è sul tavolo, ancora da aprire; al suo fianco ci sono una
pagnotta di pane e un vasetto di marmellata, di quella buona, confezionata con
cura da mia madre. Guardo ancora una volta il mio misero pigiama - vale a dire le
abbondanti mutande e la maglietta stinta che porto - e decido che non è il caso
di toglierlo. Stasera, prima di andare a letto, lo dovrò indossare di nuovo e
pertanto decido di non levarlo. Non avrebbe senso. Proprio mentre sto cercando
di infilare sopra i soliti pantaloni, sento il suono del campanello.
Claudicando, mi precipito verso la porta. Chi sarà? Forse il postino, oppure i soliti
ragazzacci in vena di scherzi stupidi. Da qualche tempo mi hanno preso di mira
e non riesco a spiegarmene le ragioni. Mi avvicino allo spioncino e guardo
fuori. Nessuno. Subito dopo percepisco un lieve raspare sull’uscio, in basso.
Con cautela, socchiudo la porta ma mi scordo di inserire la catenella di
sicurezza. Sorprendendomi, lui spinge con il muso ed entra, con prepotenza.
“Argo!” esclamo.
È il cane dei vicini, si chiama Argo ed è un enorme rottweiler con
il manto lucido e scuro. Lo conosco bene – e lui conosce me – perché spesso lo
incontro fuori, a passeggio con il padrone. In quelle occasioni faccio di tutto
per evitarlo, ma non riesco mai a sfuggire al suo sguardo torvo, cattivo. Stizzito,
richiudo la porta con una pedata e torno in cucina, dove vedo il cane che,
noncurante della mia presenza, si aggira indisturbato annusando qua e là.
L’inquietudine, dentro di me, cresce a dismisura. Allora mi affaccio alla
finestra e guardo la casa dei vicini, la casa di Argo. Tutte le finestre sono
chiuse, così come il grande cancello, quello sulla strada. Il bestione è
rimasto chiuso fuori? E i suoi padroni non se ne sono accorti e sono andati
tranquillamente al lavoro? E Katia, la loro bambina, è a scuola? Mi sforzo di
normalizzare il ritmo del respiro, ma non ci riesco. Cerco di convincermi che
ciò che sto vivendo è puro frutto del caso. Forse Argo si è sentito solo e, non
potendo tornare nella propria abitazione, è venuto a cercare la mia compagnia.
Ma so che non è così. Questa spiegazione non mi convince per nulla. All’improvviso,
sono colpito da un pensiero terrificante. E se il momento, quel momento tanto
temuto, fosse arrivato? E se il compito di Argo fosse di neutralizzare me, uno
dei pochi umani ad avere intuito la mostruosa cospirazione? Comincio a sudare
in maniera copiosa, le gambe quasi cedono. Dove ho messo le pastiglie? Mi
aggrappo al tavolo e mi accascio su una sedia. Argo si immobilizza, mi lancia
un’occhiata ostile e poi prosegue la sua ispezione. Poco alla volta mi calmo e
riacquisto la capacità di ragionare. Solo con un grande sforzo riesco a
dissimulare la mia paura, anche se lui ormai l’avrà già percepita. Devo
riuscire a escogitare un modo di ingannare quel bastardo bestione peloso.
“Argo, vieni qua!” pronuncio con voce abbastanza ferma.
Lui mi guarda, sorpreso. Poi, con mia grande incredulità, si
avvicina e si accuccia ai miei piedi. Nessuno dei due, l’uomo e il cane, vuole
scoprire le proprie carte. Siamo impegnati entrambi in una lotta psicologica che
può avere un esito mortale. Mi affido alla mia intelligenza, di sicuro
superiore a quella della bestia. Se fosse un essere umano, se lavorasse in una
fabbrica, Argo sarebbe un ottimo capo reparto, ma non un dirigente. Se
prestasse servizio nell’esercito, sarebbe un efficiente sergente, ma non certo un
ufficiale. Il mio nemico non è nient’altro che un esecutore, una semplice
pedina in un grande disegno. Posso sconfiggerlo, ne sono certo. Fingendo indifferenza
affetto il pane e, proprio mentre sto per portarlo alla bocca, sento un ringhio
sordo.
“Argo, ne vuoi anche tu? Hai fame?”
Gli getto il pezzo di pane, che lui divora in un attimo. Senza
masticare, come fanno i cani. Non riprovo a mangiare, capisco che può essere
pericoloso; è probabile che il cane abbia ricevuto l’ordine di impedirmi di
farlo, anche se non ne capisco le ragioni. Vuole forse affamarmi? Devo fare
qualcosa, non posso più rimanere in attesa. Con cautela, avvicino la mano al
telecomando appoggiato sul tavolo. Voglio avere notizie, sapere se sono vittima
di un’azione isolata oppure se la rivolta si è già scatenata ovunque, in tutto
il mondo, come purtroppo temo. Proprio quando sto per pigiare il tasto
d’accensione, Argo si alza di scatto, appoggia le sue grosse zampe sul tavolo e
sposta il telecomando fino a farlo rovinare a terra, dove si frantuma in mille
pezzi. Mi blocco, raggelato, mentre il cane ritorna dov’era prima, accanto alla
sedia. Che cosa intendeva fare? Voleva giocare, seppure in modo goffo e
maldestro? Ha forse scambiato quell’aggeggio di plastica, lungo e nero, per il
bastone che il suo padrone gli lancia in cortile? Mi passo le mani sul viso,
lentamente. Perché? Perché mi illudo ancora? Sono precipitato in un incubo, ingannare
me stesso non mi assicurerà la salvezza, e tantomeno ciò sarà di alcuna utilità
ai miei simili. Mi guardo intorno, alla ricerca di una potenziale arma, ma non
scorgo nulla di adatto. Quel cane è una montagna di muscoli, e le sue fauci
sono spaventose. Il mio fisico invece è gracile, e la mia gamba rigida di certo
non mi aiuta. Che cosa posso fare, a mani nude, contro quella macchina
perfetta, progettata per uccidere? Allora mi sento perso. Nessuno può aiutarmi,
sono assalito dalla disperazione. Non posso muovermi, non posso scappare. Lui
me lo impedirebbe. Che cosa aspetta a finirmi? Perché vuole continuare a
tormentarmi? A questo c’è una sola risposta: è la sua malvagità che lo fa agire
in questo modo, è la crudeltà propria della sua razza. Maledetto! In bocca non
ho più saliva, un sottile velo di sudore freddo ricopre la mia fronte. Le mie
mani sono gelide. Il terrore si impadronisce di me.
“Dong! Dong!”
Le campane! È già mezzogiorno ed io mi trovo qui, bloccato da quasi
due ore. Argo adesso è disteso sotto il tavolo, ma sono certo che non sta
dormendo, finge. Le sue orecchie, a tratti, sono animate da impercettibili
movimenti. Che cosa sta aspettando? Nuovi ordini, forse?
“Argo! Argo!”
Una voce infantile, che proviene dall’esterno. La piccola Katia!
Il cane balza in piedi, scattando come una molla. Si scrolla e poi
si lancia contro la porta. Il suo moncone di coda si agita frenetico. Mi alzo
anch’io e lo seguo, zoppicando. Il mostro gratta contro l’uscio con le sue
grosse unghie. Lo apro. Sono frastornato, stordito. Mi sono dunque sbagliato? Le
mie – come non si stanca mai di ripetere il mio medico – sono davvero soltanto
ossessioni? Esco per guardare, e non mi accorgo che la porta si richiude alle
mie spalle. Vedo la bambina, felice e con le braccia aperte, pronta ad
accogliere il suo grosso cane che le sta correndo incontro. Infatti, qualche
istante dopo, Argo le balza addosso, la atterra con il suo peso e la azzanna
alla gola. Un paio di violenti strattoni ed è tutto finito. Katia adesso è
esanime sul selciato, ridotta a un mucchio di miseri stracci. Argo si volta e
mi guarda. Le sue orribili fauci sono insanguinate. Con il suo passo pesante,
torna lentamente verso casa mia. Sono spacciato.
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