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venerdì 5 aprile 2013

IL COMPAGNO DI SCUOLA



Oggi mi sono alzato tardi. Era da parecchio tempo che pregustavo questa lunga dormita. Gli ultimi due mesi di lavoro sono stati terribili. Sono stato impegnato a lungo, giorno e notte si può dire, in quella delicata inchiesta sulle presunte – e ora accertate – complicità tra la criminalità organizzata e alcuni esponenti di spicco del Partito della Nazione. Ho ricevuto molte pressioni, intimidazioni e minacce ma, con l’aiuto di un valido collega, sono riuscito ad arrivare fino in fondo. Proprio ieri è stata pubblicata l’ultima parte del mio lavoro, quella più esplosiva – e grave per le conseguenze che ne potrebbero derivare per l’assetto politico nazionale – e dunque ho deciso di concedermi un’intera giornata di riposo, in serena attesa delle inevitabile reazioni che di sicuro non si faranno attendere. Il mio direttore mi ha invitato a essere prudente, ha proposto per l’ennesima volta l’impiego di una scorta per garantire la mia protezione, pagata dal giornale tra l’altro, ma ho rifiutato. Non ho paura, non temo vendette tuttavia mi ripugna l’idea, seppure del tutto intangibile a mio parere, di mettere a repentaglio vite di altri incolpevoli esseri umani. Ormai ho scritto tutto ciò che sono venuto a conoscere, in dettaglio. Un atto di violenza nei miei confronti non farebbe altro che confermare e rafforzare quanto contenuto in quei famosi articoli. Inoltre, ritengo che ciò non torni per nulla utile, in questo momento, a chi ne è coinvolto. Temo di più, nel lungo periodo, tentativi di delegittimazione, campagne diffamatorie, secchiate di fango che potrebbero colpirmi appena avrò abbassato la guardia.
Non sono uscito a comprare i giornali, non ho acceso il computer. Ho intenzione di non rispondere al telefono. Non voglio sapere nulla, almeno fino a domani. Quando tornerò in redazione, so che troverò l’inferno. Ma oggi no, oggi mi voglio godere in assoluta tranquillità questo magico momento di sospensione. Sarà breve, e nulla e nessuno lo dovrà turbare.  
Metto sul fuoco la seconda caffettiera. Preparo, con cura, una fetta di pane tostata e la ricopro con un abbondante strato di marmellata. Accendo lo stereo, attendo l’attacco del pianoforte nel concerto di Brahms – una vera delizia – e mi siedo. Chiudo gli occhi e proprio in quell’istante sento il suono del campanello. Scatto in piedi, con il battito del cuore accelerato. Chi può essere? Il postino? Oppure qualcuno con brutte intenzioni? Mi avvicino alla porta d’ingresso e sbircio dallo spioncino. Vedo un uomo, pressappoco della mia età e con un aspetto per nulla minaccioso. La prudenza mi suggerisce di non aprire, ma la mia incoscienza e la mia innata curiosità prevalgono. Socchiudo la porta e noto che l’uomo non ha nulla tra le mani.
“Buongiorno. Desidera?” Lui mi guarda e non parla. Sembra sorridere, anche se il movimento della sua bocca è quasi impercettibile.
“Mi dispiace, ma non ho bisogno di niente” aggiungo, nel tentativo di congedarlo. Mi sforzo di essere gentile, la sua aria dimessa un po’ mi intenerisce.
“Non mi riconosci?” dice finalmente.
“Come?”
“Sono io. Bellini Angelo, il tuo compagno di scuola.”
Dice proprio così, Bellini Angelo, prima il cognome e poi il nome, come sta scritto sui registri scolastici. La sua voce è bassa e dal tono ruvido. Allora mi concentro sui tratti del suo viso. Sono sottili, sfuggenti. I capelli, sporchi, gli ricadono sugli occhi. Ma ciò che alla fine mi colpisce sono quelle macchie, quella spruzzata di lentiggini proprio alla radice del naso. È solo in quel momento, quando il mio sguardo si fissa in quel punto, che davvero lo riconosco. Sono trascorsi più di trent’anni, eppure qualcosa all’improvviso scatta nella mia mente. L’immagine che mi trovo di fronte, di quest’uomo ormai maturo, è messa a confronto con un’altra, quella di un bambino minuto, con il muso appuntito, con le gambette nude e secche – simili a due ramoscelli – che spuntano dal grembiulino nero. Mi sovviene, di colpo, anche il ricordo di un enorme fiocco azzurro, sempre slegato, fissato a un colletto rigido, di plastica bianca. Adesso ne sono sicuro, è proprio lui. Angelo, il mio compagno di banco della prima elementare. Dopo un attimo di incredulità, reagisco.
“Scusami, ma subito non ti avevo riconosciuto. Vieni, entra.”
“Non vorrei disturbare.”
“Ma che dici? Ci rivediamo dopo così tanto e non vuoi nemmeno entrare? Dai, non fare complimenti.” Si guarda attorno, guardingo, poi finalmente si decide. Si liscia la giacca marrone, di una taglia più grande, e fa due passi in avanti. Mi accorgo che è nervoso perché si muove a scatti. Lo guido verso il salotto. Passando, tolgo la caffettiera dal fuoco e guardo con rimpianto la fetta di pane cosparsa di marmellata che era pronta per essere addentata, ma che invece dovrà aspettare.
“Posso offrirti qualcosa?”
“No, grazie. Preferisco non prendere nulla.” Allora anch’io rinuncio al caffè, un gesto di cortesia che tuttavia mi costa molto.
“Siediti, almeno” lo invito.
“No, grazie. Non intendo fermarmi a lungo.”
“Hai premura? Devi andare al lavoro?” Non risponde. Forse non ha sentito, oppure ha finto di non aver sentito. Insisto con delicatezza.
“Ma... dopo tanti anni ricompari, a sorpresa, e non vuoi neppure fermarti un po’?”
“Un’altra volta. Intendevo solo salutarti” ribadisce.
Allora decido di prendere l’iniziativa. Mi avvicino a lui – è molto più basso di statura rispetto a me – appoggio dolcemente le mani sulle sue spalle e lo costringo ad accomodarsi sull’enorme poltrona di pelle nera. Mi siedo anch’io, proprio di fronte, sul divano.
“Allora Angelo, che cosa mi racconti?” Vedo che, poco alla volta, si rilassa. I tratti del suo viso che fino a qualche istante fa sembravano come accartocciati, si distendono.
“Ti devo delle scuse” dice. Anche il suo tono di voce è più sicuro.
“Perché?”
“Me ne sono andato senza neppure salutarti. Non è stata una cosa bella da fare, tuttavia vorrei che tu comprendessi che non è stata colpa mia, non è dipeso da me.”
“Non preoccuparti. Ti credo.”
Mentre sto parlando, mentre lo ascolto, cerco di scavare nella memoria, in quei ricordi lontani, ormai sfumati e indefiniti. Mi torna in mente il primo giorno di scuola, mia madre che mi accompagna in classe e, su indicazione della maestra, mi fa sedere al primo banco, dove è già accomodato, a braccia conserte e con lo sguardo serio – questo lo rammento con precisione – un altro bambino, Angelo Bellini, la versione infantile di questo singolare individuo seduto ora davanti a me. Penso alla paura che mi assale quando mia madre esce dall’aula, al terrore che provo di fronte a quel gesto che, dentro di me, considero come un abbandono, pur sapendo che non così. Nei giorni precedenti, tutto mi è stato spiegato più volte dai miei genitori, senza risparmiarmi nulla; conosco bene ciò che mi aspetta, vale a dire la scuola, la maestra, i compagni e così via, però la sensazione che avverto in quel preciso istante rappresenta un qualcosa che poche volte ho poi riprovato nel corso della vita. Anche adesso, rivivendo quell’evento a distanza di tanti anni, ne patisco.
“Per quale motivo non tornasti più a scuola dopo le vacanze di Natale? La maestra non ci diede alcuna spiegazione. Un nostro compagno – non ricordo quale – le chiese se per caso tu fossi morto. Tutti gli altri si misero a ridere e fummo rimproverati con severità.”
“Mio padre cambiò lavoro all’improvviso, da un giorno all’altro, e allora ci trasferimmo in un’altra città.”
“Quindi ti toccò cambiare scuola. Fu una brutta esperienza?” Non risponde, mi guarda, sorride ma non risponde. Allora non insisto.
“Ti ricordi quando mi chiedesti in prestito il temperino?” mi domanda invece.
“Sì.” È vero, me lo ricordo sul serio. Vedo la mia matita che cade dal banco, quasi al rallentatore, e che atterra di punta sul pavimento. Lesto, mi abbasso e la recupero, aiutandomi con il piede. Ma la punta non c’è più, si è spaccata. Allora mi volto verso Angelo e, bisbigliando, gli chiedo in prestito il suo temperamatite giallo – il mio, come spesso mi capita, l’ho dimenticato. Lui è già lì pronto, con il braccio teso. La maestra, vigile, percepisce il mio movimento, capisce e mi richiama urlando, imputandomi sbadataggine e trascuratezza. Poi mi costringe ad andare alla cattedra, dove lei ha installato un grosso temperamatite a manovella. Per punizione mi fa appuntire una gran quantità di matite colorate, di varie dimensioni, e tutti sghignazzano per i miei gesti maldestri. 
“Sai, quella volta ci sono rimasto male, per te. E non ho riso. La notte, per il dispiacere, non ho dormito.”
“Ti ringrazio.”
“Il giorno dopo è stato ancora peggiore.” Osservo i suoi occhi, che ora sono diventati tristi, e capisco ciò che sta per dire. Sorrido imbarazzato, vorrei sviare l’argomento ma non ho la prontezza necessaria.
“Te la sei fatta addosso.”
Quello non è certo un bel ricordo. Mi rivedo, mentre cerco di resistere allo stimolo sempre più pressante. Ma non ho il coraggio di chiedere di uscire dall’aula e allora cedo. A un certo punto la maestra si zittisce e si avvicina a me. I miei compagni si tappano il naso. Soltanto Angelo, nonostante sia invaso dalla puzza più di tutti, rimane impassibile. La maestra, con gesti bruschi, mi strappa dal banco e mi conduce in bagno, dove mi spoglia e cerca di lavarmi. Poi mi riveste, ma senza rimettermi le mutande, che getta in un cestino. La mia mortificazione è assoluta, devastante. Non ho mai più provato una cosa del genere, per mia fortuna. Ancora adesso, al solo pensiero, ne sono profondamente turbato.
“Angelo, ma tu ti ricordi proprio tutto!” Non risponde, ma incrocia le braccia sul petto, come allora, un gesto che evoca fatalità e rassegnazione. E anche compatimento. Nei confronti di chi?
Prima di sprofondare nella malinconia, cerco di riportare il discorso ai giorni nostri.
“Quando sei tornato in città? Da poco, vero?”
“No, quattro anni fa.”
“Quattro anni? E come mai mi hai cercato soltanto adesso se ci tenevi a rivedermi?”
“Non ti ho cercato, ti ho incontrato per caso, appena ritornato in città, alla fermata di un bus ma tu non mi hai visto. Io invece ti ho riconosciuto subito. Anzi, ti confesso che speravo proprio di imbattermi in te.”
“Incredibile. E come hai fatto a scoprire dove abito?” L’espressione sul suo viso volpino diventa furba. Ammicca.
“Ti ho seguito.”
“Che cosa?” domando, sorpreso da quella risposta inaspettata.
“Quella volta ti ho seguito. Ho visto che sei entrato in quel grande palazzo in centro, dove lavori, ho atteso che uscissi e ti sono venuto dietro fin qui.”
“Vuoi dire che hai aspettato fuori tutto il giorno?”
“Sì, ma non l’ho fatto solo quella volta, da allora l’ho fatto quasi tutti i giorni.”
Sono sconvolto, una sottile inquietudine mi percorre, tuttavia cerco di mantenere la calma.
“Angelo, sai che lavoro faccio?” Scuote la testa.
“No, non l’ho ancora capito. Ci ho provato, ma quel palazzo è troppo grande, pieno di mille attività diverse.  Fai l’assicuratore?”
“Sono un giornalista.” Il suo viso esprime un sincero stupore. E compiacimento.
“Scrivi sui giornali? Su tutti i giornali?”
“No, su uno soltanto.”
“Lo sapevo! Eri già bravo a scrivere anche ai tempi della scuola.”
“Angelo! Che cosa stai dicendo? Facevamo la prima elementare!” Vedo che scuote il capo. Non vede l’ora di ribattere, di confutare la mia affermazione. Ai lati della sua bocca, dove le labbra si congiungono, si accumula della saliva. Distolgo lo sguardo, un po’ disgustato.
“Ti ricordi quando la maestra ci faceva copiare dalla lavagna le lettere dell’alfabeto? Tu riuscivi a farle belle rotonde, quasi senza staccare la penna dal foglio, e non ti cadeva mai una macchia. Io invece non ci riuscivo, facevo fatica e cercavo di imitarti ma senza risultati. Eri veramente bravo! Ti confesso che qualche volta ho pure provato un po’ di invidia.”
Cerco di non farmi distrarre dalle sue precise, minuziose rievocazioni. In lui, nelle sue parole, colgo – devo ammetterlo, a questo punto – un preoccupante elemento ossessivo. Tento di approfondire l’aspetto che più mi turba.
“Dimmi, quante volte mi hai pedinato, in realtà? E perché l’hai fatto? Non potevi semplicemente farti riconoscere come hai fatto oggi?”
“Te l’ho detto, ti ho seguito quasi tutti i giorni. Anche se avevo paura, perché non sapevo come avresti reagito. Finalmente, oggi mi sono fatto coraggio. Ho aspettato che tua moglie uscisse…”
“Perché?” Lo interrompo, in modo brusco. Sto cominciando a irritarmi.
“Scusami, ma ho paura delle donne sconosciute.”
La mia mente allenata di cronista si mette in moto. Cerco di essere freddo e riepilogo i fatti: i tre mesi alla scuola elementare, l’abbandono improvviso di Angelo, la sua ricomparsa dopo tanti anni, i suoi morbosi pedinamenti, la sua precisa memoria di episodi ormai lontani, il suo strano atteggiamento.
Le mie riflessioni sono stroncate sul nascere.
“Ti ricordi cosa accadde a Michele? Mi vengono ancora i brividi a pensarci!”
“No! Non me lo ricordo!” La mia voce si alza di tono. E si incrina.
“Dici sul serio? Come hai fatto a dimenticarlo? Allora, lui si mette a cancellare con la gomma, quella di due colori, blu e rossa, però non si accorge che la sta usando dal lato sbagliato. Lo sanno tutti – persino io, pensa – che per cancellare quanto si sia scritto con la matita bisogna usare la gomma dalla parte più morbida – quella rossa, giusto? – e invece lui continua a premere e sfregare sul foglio con la parte blu, quella dura, finché la carta si buca. Ti ricordi come ci rimase male? Si fece tutto rosso in faccia e poi, piagnucolando, chiamò la maestra. Lei arriva, guarda un attimo il foglio e poi lo strappa, e dopo afferra il povero Michele per le orecchie e lo solleva da terra. Lo solleva da terra! Ci pensi? Chissà che dolore…”
“Angelo, vorrei dirti che…”
“E le pantofole? Ti ricordi le pantofole? Quella maestra, voglio dire la nostra maestra, ci impediva di camminare in aula con le scarpe – forse per il rumore, forse per non sporcare, chissà – e allora ci costringeva, prima di entrare in classe, a infilare delle pantofole. Non so tu, ma io mi sentivo sempre umiliato ogni volta che dovevo sottostare a quell’imposizione.”
Angelo ormai è come un fiume in piena, sembra inarrestabile. Mi butta addosso un ricordo dopo l’altro, mi travolge con le sue tristi memorie. Sì, tristi, perché quasi tutti i fatti evocati sono intrisi di mestizia e malinconia seppure prevalga sempre, in lui, nel suo giudizio riguardo tali lontani avvenimenti, un senso di struggente nostalgia. Mi spiego: è come se, in quel poveraccio seduto di fronte a me, l’intera vita fosse concentrata in quei tre mesi di scuola. Ma che cosa ha fatto dopo? Com’è vissuto?
“Angelo, ma tu che lavoro fai?” Ci riprovo ma lui, ancora una volta, non risponde. Mi guarda senza parlare, estatico; osservandolo comprendo che, in questo momento, con la mente lui non si trova qui, nel salotto di casa mia, bensì in quella piccola aula con i muri verdi e il pavimento di legno, seduto nel banco, a fianco del suo ammirato compagno di un tempo.
“Angelo, ascolta. Perché ti sei tanto fissato su quei tre mesi di scuola? Nella tua vita avrai fatto tante altre cose. Avrai conosciuto molti altri compagni, altri insegnanti, avrai lavorato, avrai incontrato tante persone, avrai avuto delle donne, forse dei figli, perché – rispondi, ti prego – ti sei tanto intestardito su di me e su quel breve periodo di tanti anni fa?”
Per la prima volta da quando è iniziata la nostra surreale conversazione, lo vedo scosso. Qualcosa di ciò che ho detto – con veemenza, lo ammetto – è penetrato in lui. Abbassa il capo e lo incassa in quella sua giacca enorme, tanto che mi ricorda una tartaruga spaventata che si nasconde per sfuggire al pericolo. E inizia a parlare, comincia finalmente a rispondere alla mia domanda. Lo fa con una voce che non sembra più la sua, simile com’è a uno straziante pigolio. Mi vengono i brividi.
“Dopo quei tre mesi non sono più andato a scuola. E quei tre mesi sono stati il periodo più felice della mia vita. L’unico che voglio ricordare.” A quel punto si alza e comincia a dirigersi verso la porta. Il suo passo è strascicato, l’andatura di un uomo sconfitto. È come se reggesse, sulle sue fragili spalle, tutto il peso del mondo. Comprendo a stento le sue ultime parole.
“Non ho più avuto altri compagni, né altri insegnanti. Non ho mai lavorato e non ho mai avuto una donna. Figli?”
Esce e chiude la porta, dolcemente.

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