SBAM! Mi chiudo dietro
la porta con una pedata e rimango immobile al buio per qualche istante. Poi
accendo la luce del mio monolocale. Scalcio via le scarpe, una dopo l’altra,
quelle scarpe così costose che mi piacciono tanto, e le mando a sbattere contro
la parete. Scalza sul pavimento di legno lucido mi guardo attorno inebetita e,
con gesti automatici, mi sfilo la gonna. La ripiego con estrema cura quindi, in
un improvviso impeto d’ira, la lancio attraverso la stanza. La veste, ridotta a
misero cencio senza più forma, vola scomposta e va a posarsi su una sedia.
Slaccio con furia i bottoni della camicetta di seta, quella beige che mi ha
regalato mia madre al compleanno e che è stata da lei definita “tanto
elegante”, e la getto a terra proprio di fronte a me. Incurante della sua ormai
inutile presenza la calpesto con indifferenza e mi butto sul letto.
Vorrei poter piangere
ma non ci riesco. Sono troppo nervosa, troppo eccitata, troppo sconnessa e
disorientata e le lacrime non arrivano. Comunque singhiozzo frigno lagno per
qualche minuto senza trovare in ciò il minimo appagamento. Uno sfogo vano e
inefficace, una crisi di nervi bella e buona come a volte mi succede quando
qualcosa mi turba e mi tormenta. Quando non riesco a ottenere quel che
desidero, una manifestazione del tutto infantile, mi rendo conto, ma alla quale
non riesco in nessun modo a oppormi e a resistere. Si tratta soltanto di
aspettare che tale doloroso e penoso stato d’animo mi abbandoni e cessi di
angosciarmi. Respiro a lungo, in maniera profonda, come mi è stato insegnato
alle lezioni di yoga, ormai abbandonate, e stando ben attenta (mi raccomando
signorina!) a non entrare in iperventilazione che pure mi piace perché la
momentanea piacevole euforia è sempre accompagnata da una violenta nausea. E poi
ho pure bevuto, anzi ho soltanto bevuto a quel maledetto aperitivo dato che il
mio stomaco era completamente serrato sbarrato chiuso ermetico e tutte quelle
tartine colorate che mi sono passate davanti agli occhi non hanno suscitato in
me nessuna reazione, nessuna voglia di agguantarne una e portarla alla bocca
per soddisfare l’appetito che pure c’era, prima.
Prima di vedere lui,
naturalmente.
Mi alzo di scatto dal
letto, in preda a una inspiegabile frenesia e mi sistemo di fronte allo
specchio, quello grande che rimanda l’intera mia figura. Mi esamino con
attenzione, con sguardo un po’ critico e non so decidere quanto mi possa
piacere quella donna che vedo riflessa. Tuttavia considero che non sono poi
così male, mica ho vent’anni no? Ma quando penso in quale misura la stessa donna, proprio quella che sto
osservando in questo momento producendomi in smorfie con la bocca ancora
impiastricciata di rossetto arancione, possa piacere a qualcun altro, a lui
intendo, mi coglie una inquietudine che mi mozza il fiato. Distolgo lo sguardo
dal mio viso, quello proprio non l’ho mai amato perché è troppo paffuto e mi fa
sembrare una vecchia bambina, e lo dirigo sul corpo. Prima sul busto, su quel
seno che appare prosperoso solo in virtù della decisa azione di sostegno
esercitata da quell’attrezzo che vero indumento non è e che lo sospinge in
alto. C’è il trucco mi dico, ma che importa, quasi tutte le donne ricorrono a
qualche artificio per apparire migliori di quel che sono e nel mio caso lo
stratagemma è del tutto veniale perché il mio petto è davvero esuberante, o
almeno lo era prima di diventare un po’ cascante. Contro gli anni che passano,
contro la forza di gravità che schiaccia tutto verso il basso non si può fare
altro che barare.
I miei fianchi, benché
un po’ appesantiti, conservano quasi del tutto intatta l’antica sinuosità,
quella di cui sono stata sempre orgogliosa. Così le gambe, abbastanza slanciate
anche se racchiuse strizzate imprigionate compresse nella morsa dei collant che
mi segnano la vita, che quasi mi impediscono di respirare e che non vedo l’ora
di togliere. Mi volto di sbieco e scruto le natiche e rabbrividisco per
l’orrore. Strizzo chiudo gli occhi, solo buio, poi mi sollevo sulle punte dei
piedi mi giro di nuovo e già mi piaccio di più. Ma subito dopo scappo, non
reggo più l’immagine del mio corpo, quell’insieme di materia dentro al quale
vivo, che ogni giorno espongo al giudizio di tutti quelli che incontro, quel
corpo del quale a volte mi compiaccio e che altre volte, le più, mi provoca
vergogna senso di inadeguatezza e disagio.
Be’, penso, prima di
ributtarmi a capofitto sul letto, anche lui non è proprio perfetto. Il fatto è
che mi piace lo stesso, con i suoi difetti imperfezioni mancanze. È alto alto
magro magro però ha un fascino del tutto particolare, una maniera tutta sua di
muoversi e atteggiarsi, un che di attraente, e adoro tutte le premure che
manifesta nei miei confronti la sua dolcezza e gentilezza, la sua voce suadente
dal colore basso. Non importa se ci siamo incontrati poche volte e mai da soli,
quel minimo tempo è stato più che sufficiente per farmi innamorare di lui, per
far sì che percepissi nei suoi occhi brillanti il suo sicuro interesse per me. Da
come mi osserva mi tocca la mano e la spalla e sfiora i miei capelli con le sue
lunghe dita e so che vorrebbe osare di più ma qualcosa lo frena e lo fa
indugiare e trattenere e gli impedisce di essere veramente se stesso. E pure io
sono rigida esitante imbarazzata, forse con la mia eccessiva ritrosia gli
impedisco di sbloccarsi di sciogliersi.
A pancia in giù su quel
materasso ultra-moderno, ultra-morbido e ultra-confortevole e anche tanto
costoso allungo un braccio, quasi alla cieca, e apro il cassetto del comodino e
frugo nei suoi più reconditi anfratti nell’immenso disordine finché non la
trovo e la afferro e la porto davanti agli occhi, dai quali finalmente
cominciano a scorrere stentate calde lacrime, e la scruto e la riconosco è
proprio lei, la mia moneta porta-fortuna che custodisco da sempre, sfavillante
come appena lucidata.
La stringo nel pugno e
mi rizzo a sedere, ahi l’elastico dei collant che tira sempre più e mi spezza
in due, mi concentro un attimo e formulo quella richiesta alla quale soltanto
lei saprà dare una risposta: io e Alberto, perché quello è il suo nome, il nome
di quell’uomo meraviglioso, ci baceremo mai? Non oso chiedere di più, anche se
lo vorrei, ma non ne ho il coraggio, non ho intenzione di sfidare la sorte
oltre misura, non voglio dovermi dolere per la mia smodata sfrontatezza.
Allora lancio in aria
la moneta, in alto, molto in alto, e mentre lei volteggia impazzita ribadisco
mentalmente un’ultima volta la mia disperata richiesta: testa ci baceremo,
croce le nostre labbra non si incontreranno mai.
E la moneta ricade
sulla coperta, quella di color rosa antico molto signorile, e il responso è
quello che desideravo auspicavo sognavo. Testa, Testa. Testa. Bacio. Bacio. Bacio.
Non posso domandarti
altro, adorata monetina, mia diletta! Carissima amica mia!
Il resto lo conosci
soltanto tu, e non lo dividerai con nessuno, neppure con me.
No, non posso chiederti quando ciò che hai predetto accadrà.
Nessun commento:
Posta un commento