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sabato 24 novembre 2012

IL SOGNO DI ABRAHAM



Scendo le scale lentamente e guardo le pareti, cerco di distinguere nelle crepe dell’intonaco le familiari figure del leone, del delfino e della giraffa. Ma oggi non riesco a scorgerle. Vedo al loro poste altre sagome, che mi mettono i brividi. Lassù un aereo da combattimento, più in basso un carro armato. E qui, proprio vicino alla mia spalla, la forma allungata di un missile. Sopraffatto da un pesante senso di inquietudine distolgo lo sguardo, accelero il passo ed esco in strada. Ma il marciapiede non c’è, e non c’è nient’altro. Non ci sono gli alti palazzi, e neppure automobili, né i soliti passanti frettolosi del primo mattino. C’è soltanto sabbia, tutto intorno a me. E silenzio, un angosciante silenzio. I miei piedi affondano fino al polpaccio, i miei occhi sono abbagliati da una luce intensa, quasi bianca. Provo a spostarmi, ad andare verso il mare, ma le mie gambe sono ormai bloccate in una morsa di fine polvere dorata. Mi volto, in preda al terrore, e vedo che anche la mia casa non c’è più. Dove prima sorgeva l’edificio, adesso c’è soltanto sabbia. Una immensa distesa di polvere che sembra non avere fine. Poi…

Il risveglio fu brusco. Abraham attese che il cuore in tumulto smettesse di martellargli il petto, poi scostò la coperta e si alzò. Nella stanza faceva freddo, e rabbrividì. Niente doccia, decise. Andò in bagno, si sciacquò il viso e si rasò con cura. Quindi si vestì. Mentre ispezionava la borsa per verificare che tutti i documenti fossero al loro posto squillò il telefono. Con un po’ di apprensione raggiunse l’apparecchio, posto nel piccolo ingresso dell’appartamento, e sollevò la cornetta.
Ascoltò a lungo, senza parlare.
“D’accordo, ho capito. È tutto chiaro” disse infine, prima di riattaccare. Poi si sedette. Dopo alcuni minuti tornò nella stanza da letto, si tolse l’abito e indossò dei jeans e una maglietta. Quel giorno non sarebbe andato al lavoro, e neppure in quelli successivi. Si spostò in cucina, scaldò del latte al quale aggiunse una manciata di corn-flakes. Travasò il tutto in una tazza e mangiò camminando. Fumò due sigarette, una dietro l’altra, quindi consultò l’orologio e decise che poteva chiamare in ufficio. Il suo collega Amos di sicuro era già sistemato dietro la scrivania. Era sempre il primo ad arrivare. E infatti rispose subito, già dopo il primo squillo.
Abraham gli fornì una succinta spiegazione, lo pregò di occuparsi di una pratica che stava seguendo e alla quale teneva molto.
“Non ti preoccupare, ci penso io” lo rassicurò il collega e amico.
“Grazie, Amos.”
“Comunque me lo sentivo” aggiunse l’altro.
“Eh? Che cosa?” domandò Abraham.
“Che ti avrebbero chiamato. Non possono proprio fare a meno di te.”
“Non dire sciocchezze. Poteva accadere oppure no. Be’… è capitato.”
Amos sogghignò.
“Già! Il fatto è che a te capita sempre!” esclamò, divertito.
“Guarda che prima o poi potrebbe toccare anche a te.”
“Figurati! Con il mio piede! E poi, se proprio così fosse, vorrebbe dire che il nostro paese si troverebbe in una condizione di grave pericolo. Che sarebbe la sua fine, insomma.”
“Quante stronzate dici! Ti saluto, mio caro.”
“D’accordo. Mi raccomando, appena puoi fatti sentire.”
“Va bene, prima o poi lo farò.”
Abraham pose così termine alla conversazione. Si sentiva nervoso, eccitato, non riusciva a stare fermo. Fumò con ingordigia altre due sigarette. Dal momento che disponeva di un intero giorno libero decise di fare una passeggiata, per calmare un po’ i nervi, per tentare di rilassarsi. Il camminare a lungo, senza una meta precisa, tra le strade trafficate della sua città, rappresentava per lui sempre un ottimo sistema per allentare la tensione. E in quel momento ne sentiva proprio la necessità.
Prima di uscire, tuttavia, ritornò nella stanza da letto e aprì l’armadio. Il suo sguardo si fissò sulla divisa militare. Era lavata e stirata, in perfetto ordine. L’aveva indossata per l’ultima volta soltanto qualche mese prima, quando aveva preso parte a un’esercitazione, una delle tante. In basso c’era il grosso zaino, fabbricato con robusto tessuto mimetico. Controllò con cura anche quello. Tutto a posto. Soddisfatto, richiuse l’armadio e si diresse verso il ripostiglio. In un angolo scorse la sagoma minacciosa ma a suo modo rassicurante del fucile d’assalto M4 dal quale proveniva un pungente odore di olio lubrificante, e le cui esalazioni avevano del tutto impregnato il minuscolo ambiente.
Rassicurato, Abraham afferrò un pesante giubbotto e le chiavi di casa e finalmente si apprestò a lasciare l’appartamento. Proprio allora squillò di nuovo il telefono. Sbuffando, il ragazzo tornò sui suoi passi e si avvicinò all’apparecchio. Prima di rispondere guardò il display. Era sua madre. Quella donna apprensiva, come tutte le madri ebree d’altronde, trascorreva l’intera giornata di fronte al televisore a sorbirsi un notiziario dopo l’altro. Di sicuro era molto preoccupata, e il suo istinto le aveva suggerito di fare quella chiamata al figlio. Lui però non sollevò il microfono. L’avrebbe cercata l’indomani, decise, appena fosse giunto in caserma.
Abraham chiuse l’uscio dietro sé e si fiondò giù per le scale, di corsa, senza degnare di una sola occhiata le pareti che scorrevano veloci ai suoi lati, come invece faceva ogni giorno. Il ricordo del brutto sogno era ancora troppo vivido nella sua mente, e non era proprio il caso di ravvivarlo. Uscì in strada e iniziò a camminare, con le mani in tasca, fischiettando il ritornello di un motivetto arabo che le radio trasmettevano in continuazione. Stava percorrendo Ben Yehuda Street, con il mare alla sua sinistra, quando udì le sirene. Si bloccò. Intorno a lui, la gente iniziò a correre. Qualcuno gridava, altri si scambiavano sguardi carichi di angoscia e di incredulità. Il suono lancinante dell’allarme penetrava i timpani, accresceva la paura delle persone. Una ragazza si lanciò su di lui, che era rimasto fermo sul marciapiede. Lo abbracciò, in preda a un incontrollabile terrore. I suoi occhi erano spalancati, e tremava. Abraham, non sapendo che cosa fare, la strinse a sé, nel tentativo di calmarla. Sentì le unghie della giovane sulla sua schiena attraverso la stoffa del giubbotto. E di nuovo l’ululato delle sirene, sempre più forte. Si staccò dalla ragazza, che lo guardò senza dire una parola, la prese per mano e la costrinse a correre.
“Vieni con me” disse il ragazzo. Lei ubbidì, arrendevole.
Giunsero in prossimità dell’Hahovevim Garden e, sempre tenendosi per mano entrarono nel parco, dove si era già rifugiata altra gente.
“I rifugi, saranno aperti i rifugi?” domandò un pallido quarantenne prima di raggomitolarsi accanto a un grosso cespuglio.
Abraham costrinse la ragazza a gettarsi a terra, poi si adagiò su di lei, allo scopo di proteggerla con il proprio corpo. Seguì un lungo, interminabile istante di silenzio quasi assoluto prima che si percepisse un acuto sibilo, e subito dopo ci fu una violenta deflagrazione.
“Un missile” disse Abraham, rivolgendosi quasi a se stesso.
E poi un altro scoppio, più soffocato, più lontano.
“Questo è finito in mare” aggiunse il ragazzo.
Ancora le sirene, ma questa volta il suono era diverso. Cessato allarme, dicevano.
I due giovani si rialzarono. I loro abiti si erano sporcati, perché l’erba era umida, ma loro non vi badarono. Adesso che era ritornata la calma, Abraham osservò con attenzione la sua occasionale compagna. Notò che la ragazza era molto giovane, e piuttosto graziosa. Aveva i capelli neri e corti, tagliati a caschetto. La pelle del suo viso era bruna, così come i suoi occhi.
“Mi chiamo Abraham” disse, rivolto a lei.
“E io sono Leah. Ti chiedo scusa per il mio comportamento di poco fa, ma avevo davvero paura” rispose la ragazza. La sua espressione non esprimeva più sorpresa e timore, come qualche istante prima, bensì crescente indignazione.
“Nessun problema, ormai è tutto finito. Per ora, almeno.”
“Hanno attaccato Tel Aviv! Incredibile!”
“Non è la prima volta, e temo non sarà neppure l’ultima.”
“Vuoi dire che era già accaduto?” domandò Leah.
“Certo, non ti ricordi? No, in effetti non puoi ricordare, perché di sicuro non eri ancora nata. È successo più di vent’anni fa, io ero un ragazzino ma ne conservo chiara memoria. Fu quella volta quando aiutai i miei genitori a rivestire i vetri delle finestre con il nastro adesivo. Per me si trattò quasi di un divertimento. I continui allarmi non mi facevano paura. Sai, era come una specie di gioco. L’unica cosa che davvero mi inquietava era la maschera antigas, che i miei mi costringevano sempre a indossare, anche quando non esisteva un reale bisogno. Mi sembrava di vivere in mezzo a tanti grossi insetti, e provavo un senso di soffocamento che mi atterriva. Non vedevo l’ora di toglierla e di tornare a respirare normalmente.”
“I missili Scud!” esclamò Leah.
Abraham sorrise.
“Già, proprio loro. E avevo pure molta paura di quel pazzo di Saddam Hussein. A tutte le ore della giornata il suo faccione feroce, con quei grossi baffi neri, compariva in televisione. Non guardavo più i miei programmi preferiti, nel timore che all’improvviso sullo schermo spuntasse lui.”
“È per questo che prima non hai perso il sangue freddo?” domandò la ragazza.
“Può essere, ma anche per altre vicende che ho vissuto. Sono stato in Libano, qualche anno fa.”
“In guerra?”
“Sì.”
“Allora sei un militare?”
“In verità sono un impiegato di banca, però faccio parte della riserva, come sottufficiale.”  
“Ah!”
Abraham distolse le sguardo dagli occhi scuri e penetranti di Leah. Lo diresse verso il cielo, che era grigio.
“Sai, sono stato richiamato proprio oggi. Domani parto.”
“No!”
“E invece sì! Qualcuno lo dovrà pur difendere questo disgraziato paese, no?” disse il ragazzo, quasi divertito.
Lei annuì, seria.
“Ehi! Che ne dici se andassimo a prendere un caffè? Credo che ne abbiamo entrambi bisogno” propose Abraham.
“Tutti i locali saranno chiusi!”
“Stai scherzando? Il nostro popolo non si abbatte di certo per un paio di missili!”
“Dici?”
“Su, vieni” disse lui, riprendendola per mano.
Camminarono per un paio di isolati, poi entrarono in un caffè, che naturalmente era aperto. Come previsto da Abraham, la vita aveva già ripreso a scorrere in modo regolare per gli abitanti di Tel Aviv. Le strade erano tornate a riempirsi di frettolosi passanti, il traffico era di nuovo intenso.
I due giovani presero posto a un minuscolo tavolo situato in un angolo del locale. Dalla parte opposta un vecchio, che indossava una kippah bianca e azzurra, era intento a intrattenere altri anziani, semplici e remissivi assentitori, urlando invettive.
“Quelli ci vogliono annientare! Distruggere! Se avessi vent’anni avrei già imbracciato il fucile. E invece i nostri giovani se stanno qui tranquilli, e pensano soltanto a bere e a fottere!”
Le ultime parole erano state pronunciate volgendo lo sguardo proprio in direzione di Abraham e Leah. Il ragazzo fu lì per reagire. Lei gli appoggiò una mano sull’avambraccio, e questo fu sufficiente a calmarlo.
“Sai che cosa diceva mio nonno?” domandò Abraham.
Lei scosse il capo.
“Diceva che a Gerusalemme si prega, ad Haifa si lavora e che a Tel Aviv ci si diverte. Pare sia un luogo comune piuttosto diffuso, il fatto è che da domani io non mi divertirò affatto…”
“Lascia perdere, Abraham. Quel vecchio è pieno di rabbia.”
“O di paura?” rispose il ragazzo, mentre un giovane cameriere portava loro i caffè.
Mentre sorseggiavano la bevanda, Abraham raccontò a Leah il sogno che aveva fatto e che lo aveva tanto turbato.
“Quale sarà il suo significato, secondo te?”
Lei si strinse nelle spalle, e sembrò ancora più minuta di quanto fosse.
“Non lo so. In ogni caso è soltanto un sogno” rispose.
“Potrebbe essere una sorta di premonizione? Qualcosa che ha a che fare con la guerra?” chiese lui.
Leah lo guardò, un po’ stranita.
“Scusa, di quale guerra stai parlando?” domandò.
“Ehi! Non ti ricordi più? Domani dovrò presentarmi…”
Lei lo interruppe.
“Tu sei un militare, o quasi, quindi correggimi se sbaglio. Le guerre non consistono in due eserciti che si fronteggiano? Dov’è l’esercito nemico? Contro chi combattiamo, insomma?”
“Aspetta…”
“Rispondi alla mia domanda, per favore.”
“Hai ragione, spesso ci tocca combattere contro dei fantasmi. E le vittime, dalla loro parte, sono quasi sempre degli innocenti. Non del tutto incolpevoli, perché l’odio nei nostri confronti è notevole, ma pur sempre innocenti.”
“Soprattutto i bambini…”
“Già” ammise Abraham. “In ogni caso Tsahal fa di tutto per limitare i danni… collaterali. Tra i civili, cioè…”
“Tsahal!” esclamò Leah, in tono quasi sprezzante. “Tsahal è come un elefante che si muove in una cristalleria! Appena si sposta provoca disastri.”
“Hai ragione, tuttavia non scordarti che anche il più grosso degli elefanti può essere abbattuto da un pugno di cacciatori.”
“Abraham…”
“Uh?”
“Ti chiedo scusa…”
“Per quale motivo?”
“Mezz’ora fa ero una ragazzina tremante mentre adesso sto sputando sentenze, e scordo che domani tu andrai in guerra…”
“In gran parte la penso come te, ma non ho scelta. Se cediamo per noi è finita, se ci difendiamo quasi l’intero mondo ci bollerà come assassini. Purtroppo non ci possiamo permettere mezze misure, dobbiamo dimostrare a tutti, ma soprattutto a noi stessi, che siamo forti, molto forti, e che non abbiamo alcuna paura. E lo dobbiamo fare di continuo. Questa è la nostra dannazione, è quello che siamo costretti a sopportare in cambio della nostra esistenza.”
“Avrà mai fine tutto questo?” chiese Leah.
“Vuoi davvero la mia opinione? Desideri che sia sincero fino in fondo? No, tutto ciò non finirà mai! L’odio troverà sempre il suo alimento, e questa folle guerra che, come dici tu, vera guerra non è, sarà proseguita dai nostri figli, e poi dai figli dei nostri figli…”
Leah chinò il capo, affranta. Quindi prese un tovagliolo di carta, sul quale annotò il proprio numero di telefono, prima di darlo ad Abraham.
“Quando tornerai, se vuoi chiamami” disse con un filo di voce, gli occhi lucidi.
“Lo farò, Leah. Lo farò” rispose il ragazzo.
Poi i due giovani si alzarono e uscirono dal locale. Si salutarono con una stretta di mano e ognuno riprese la sua strada. Il vecchio con la kippah bianca e azzurra stava ancora gridando, sempre più infervorato.  

…poi vedo in cielo una palla di fuoco che si ingrandisce sempre di più, fino a diventare enorme, smisurata, e che corre impazzita contro di me…

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