No, non è proprio come
in Italia.
Si sta parlando degli
Stati Uniti, naturalmente, e delle recenti elezioni presidenziali. Barack Obama
è stato riconfermato, ha sconfitto in maniera netta, al di là di ogni
previsione della vigilia, e dei sondaggi, l’avversario repubblicano Mitt
Romney. La campagna elettorale dei due pretendenti è stata lunga, dura e estenuante,
portata avanti senza esclusione di colpi. Alla fine, però, è stato proprio il
perdente il primo a congratularsi con il nuovo (e vecchio) presidente. La
risposta, pronta e immediata, è stato un invito alla collaborazione, in nome
del bene comune, dell’unità della nazione. Il solito grande e invidiabile
esempio di correttezza. La democrazia americana, pur con tutti i suoi difetti,
i suoi limiti e le sue contraddizioni, continua comunque a stupire e a
rappresentare un modello al quale tutti dovrebbero ispirarsi.
Romney è un politico
grigio, del tutto privo di carisma (oltre che un miliardario). Di sicuro non il
miglior candidato che il partito repubblicano potesse presentare. Ma le
elezioni primarie hanno designato lui, e a lui è toccato soccombere di fronte
all’indubitabile maggior appeal del
rivale afro-americano.
Barack Obama, nell’ultimo
periodo del suo primo mandato, era apparso un po’ stanco, meno brillante. Al
momento giusto ha saputo ritrovare tutte quelle qualità che lo
contraddistinguono: la capacità di convincere, l’indubbio fascino, la sua visione
di America, che tanto entusiasmo aveva suscitato quattro anni fa. Ha recuperato
per intero il proprio elettorato, quei
cittadini che avevano contribuito alla sua prima storica vittoria: i neri, gli
ispanici, i giovani e le donne. Il ceto medio e la classe dei lavoratori:
persone che hanno molto sofferto la crisi economica e che hanno comunque
riconfermato la loro fiducia a quel presidente che si è mosso tra mille
difficoltà, che ha dovuto a volte cedere a compromessi obbligati ma che, allo
stesso tempo, è riuscito a conseguire buoni risultati, primo tra tutti la
riforma sanitaria.
Il futuro mandato sarà
di certo, per Obama, più produttivo, privo del condizionamento della
rielezione. Avrà le mani più libere, avrà così la possibilità di realizzare ciò
che è rimasto incompiuto.
Dall’altra parte dell’oceano,
nel nostro Paese, la situazione appare invece sempre più confusa.
Tutte le forze
politiche stanno tentando di riallinearsi in vista delle elezioni politiche,
cercano di marcare la propria identità, supposto che la possiedano. Tutto ciò,
fatto in modo maldestro e inadeguato, non provoca altro che una continua
apprensione, una desolante incertezza.
Tra le altre cose non è
stato ancora deciso con quale legge elettorale si andrà alle urne. Si continua
a discutere, senza decidere, tra tatticismi esagerati e nauseanti.
La verità è che, giunti
a questo punto, non ha più senso tentare di riformare la legge elettorale. È troppo
tardi, nonché scorretto, con buona pace del Presidente della Repubblica che
invece continua a invocare un mutamento del sistema di voto. Non è ammissibile,
in una normale democrazia, introdurre una nuova legge elettorale a pochi mesi
dal voto. Questo doveva essere fatto all’inizio della legislatura, al più nella
sua prima metà, non adesso. Perché nonostante la gran baraonda il quadro è
abbastanza tratteggiato. Inutile negarlo, allo stato attuale si sa già, pur con
una minima approssimazione, chi vincerà le elezioni e chi le perderà. E dunque
le forze politiche, quelle probabilmente vincenti e quelle di sicuro sconfitte,
nel proporre modifiche alla legge elettorale tengono conto di queste
previsioni, operano in modo da poter rafforzare l’eventuale successo oppure di
contenere la quasi sicura disfatta. Tutti, a eccezione di chi è più ambiguo, di
chi si ostina, per convenienza, a stare nel mezzo con il proposito di poter
comunque contare o di essere addirittura determinante nel delineare i futuri
assetti di governo. È questo il caso dell’ineffabile Casini, il quale sta
preparando al Partito Democratico un trappolone. L’UDC sta infatti tentando, in compagnia di PDL e Lega (funesta alleanza!), di innalzare il
più possibile la soglia da raggiungere per conseguire il premio di maggioranza
(e di governabilità). Si vuole impedire a tutti i costi una vittoria della
coalizione di centro-sinistra. Si vuole condurre il Paese al caos. Il
segretario del PD Bersani prosegue la trattativa con gli altri partiti, ancora
fiducioso. Sarebbe forse il caso di valutare un’iniziativa estrema, a rischio
di impopolarità (le accuse di scarso senso di responsabilità si sprecherebbero),
vale a dire provocare la caduta dell’esecutivo. Tra le altre conseguenze, ci
sarebbe pure quella di impedire ogni revisione della legge elettorale. Si
andrebbe così alle urne con il Porcellum,
tanto vituperato e che pure appare, alla luce degli ultimi eventi, il male
minore perché comunque riuscirebbe a garantire la governabilità.
Macchinazioni, inganni,
trame, imbrogli, truffe e raggiri. Questa è l’attuale politica italiana.
No, non è proprio come
in America.
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