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domenica 18 novembre 2012

IN PISCINA



Socchiudo la porta, mi accerto che nessun vicino stia ficcando il naso, e la faccio entrare. Lei scaraventa sul pavimento dell’ingresso una grossa borsa sportiva, poi sospira.
“Che cos’è?” chiedo.
“Non lo vedi? Ho detto che andavo in piscina.”
“A lui?”
“A chi, se no?”
Mi guarda con sarcasmo. Distolgo gli occhi, un po’ in imbarazzo. Lo ammetto, quella di fare domande superflue è una mia marcata prerogativa. Comunque proprio non lo avevo capito a cosa servisse quella sacca!
“Sei furba” aggiungo, dopo un lungo istante di esitazione.
Lei annuisce, poi inizia a svuotare il borsone. Estrae un accappatoio azzurro e un costume da bagno intero. Quindi si dirige con decisione verso il bagno (ormai sa dov’é…). Inizia ad armeggiare con il microfono della doccia. Vedo che inumidisce entrambi gli indumenti, poi li stende sul bordo della vasca. Infine contempla la sua opera, soddisfatta.
“Però!” esclamo, ammirato.
“È meglio se non li riporto a casa asciutti. Non si sa mai…”
“Fai tutto questo per me?”
“Zitto, scemo” dice lei, sorridendo e mettendo bene in mostra i suoi grandi denti bianchi.
Poi si avvicina a me, ormai rilassata. Anzi, sembra accorgersi davvero di me soltanto in questo momento. La stringo tra le braccia, le accarezzo la schiena, poi le mie mani si appoggiano sulle sue natiche sode e sporgenti. Il suo petto esuberante preme contro il mio, trasmettendomi mille diverse sensazioni. Tra le quali anche un vago senso di oppressione. Mi sollevo sulle punte dei piedi, perché lei è più alta di me. Sono in pantofole, mentre lei indossa delle scarpe con un tacco molto alto. Si rende conto di ciò e le sfila con un rapido movimento, gettandole lontane. Ho gli occhi chiusi, sento soltanto un rumore secco sul parquet. Sempre stando allacciati ci spostiamo sul soffice tappeto posto al centro del salotto. Cerco la sua bocca e la trovo. I nostri baci, avidi e famelici, possiedono quella disperazione che può derivare solamente dalla trasgressione. Dopo un po’ stacco le labbra già dolenti e le affondo nei suoi capelli, nei suoi morbidi e lunghi capelli. Percepisco un intenso sapore di shampoo, un profumo dolce che inebria. Mi avvolgo i suoi ricci castani attorno al capo, e non colgo più il trascorrere del tempo.
È lei che mi riporta alla realtà. Si stacca da me e mi appoggia una mano sulla spalla.
“Vieni” dice, suadente.
Mi guida verso il divano, mi fa sedere. Lei rimane in piedi. Sorride. Poi, lentamente, inizia a sbottonare la camicetta. Lo fa con gesti misurati, languidi, che non possono lasciare insensibile un uomo. Rimane in reggiseno, un indumento striminzito, di colore grigio chiaro, che a stento trattiene l’esplosione dei sui seni. Ma io osservo soprattutto le sue spalle, quelle spalle larghe da nuotatrice, perfettamente modellate e abbronzate, e che mi fanno impazzire fin dalla prima volta che le ho viste. Si volta, offrendomi la visione della sua schiena ben forgiata, sulla quale spiccano alcuni minuscoli nei. In un baleno si sfila i pantaloni, li abbandona a terra e di nuovo si gira verso me. Allarga le braccia. Le sue gambe sono strettamente fasciate in un paio di collant scuri, sotto i quali non indossa altro. Non ho neppure il tempo di sublimare tale seducente visione che lei mi raggiunge sul divano. I suoi occhi brillano, la sua bocca è atteggiata in una smorfia di bramosia. Si avventa sulla mia cintura, la slaccia e la toglie tirandone con forza un capo. Sento uno schiocco secco, che mi lascia attonito. Ma lei sta già lavorando sui bottoni dei calzoni, e io lascio fare. Mi invita, con un cenno deciso, a inarcare la schiena, e in tal modo mi sveste, come fossi un bambino. Mi riscuoto dallo sbigottimento e mi disfo della maglietta. Rimango in mutande e canottiera, l’unica foggia in grado di trasformare quasi ogni uomo in una ridicola caricatura. Per buona sorte non indosso i calzini, perché fa caldo. Ma queste non sono altro che mie misere considerazioni, perché lei non ci bada. Invece mi scruta, divertita e beata. Poi mi costringe a stendermi e il suo corpo si sovrappone al mio. Dapprima mi sento schiacciare, poiché lei è di certo più pesante di me, un attimo dopo già non ci penso più. Lei inizia a strusciarsi su di me, non tralasciando nessuna parte. La sensazione provocata dallo sfregamento delle sue calze sulla mia pelle, ma pure sulla sottile stoffa della biancheria che ancora porto, è molto forte. Tale da causare stordimento, da rendere il respiro affannoso, da far boccheggiare. Lei nuota, è proprio come se nuotasse su di me, avanti e indietro. Sono la sua acqua, quella sulla quale galleggia e si sposta. Avanti e indietro, senza sosta.
Quando infine sospende le potenti bracciate, quando la sua attenzione si concentra su un pezzo di me, su quel frammento così fragile e così sensibile, e ne provoca l’ineludibile deflagrazione, da tempo non connetto più: esisto soltanto in un’altra dimensione, dove il dominio dei sensi regna incontrastato.
Appena mi riprendo noto con stupore che lei indossa ancora i collant. Non li ha tolti. Eppure il mio appagamento è totale. Assoluto. E lo devo a lei, a quella che non è una donna, ma un autentico demonio. In grado di evocare ciò che di diabolico c’è in me, di farlo emergere, di permettergli di manifestarsi in modo compiuto. Oppure tutte queste fantasie sono soltanto il frutto avvelenato del senso di colpa che mi attanaglia il petto? E che mi fa soffrire, come sempre accade quando il pentimento è tardivo, ormai inutile, e ci si rende conto che si tornerà a sbagliare, perché la consapevolezza del mancare, del ripetersi dell’errore, è proprio ciò che nutre quel perverso piacere al quale è impossibile rinunciare.
Mi alzo, afferro la sua mano e la conduco in camera da letto. Ci stendiamo. Rimaniamo immobili, senza parlare.
Proprio allora il mio cellulare, posto sul comodino, inizia a vibrare. Lo ignoro.
“Perché non rispondi?”
“Deve essere lei” dico, mentre l’agitazione sale.
“Rispondi” insiste. Il tono è perentorio, quasi fosse un ordine. Ubbidisco, considerando tra me se tale categorico invito possa essere per la mia amante un riguardo nei miei confronti oppure parte del suo piacere. Prendo il telefono, lo accosto all’orecchio e mi sposto all’estremità del letto.
La voce di mia moglie, attraverso l’apparecchio, è soltanto un mormorio metallico. La mia, parole scandite in sordina.
“Ciao, tutto bene?”
“Eh? No, non sto facendo nulla. E tu, piuttosto?”
“Adesso mi senti?”
“Sì, dal lavoro sono tornato presto.”
“Non, non esco. Perché dovrei uscire?”
“Certo che domani ti verrò a prendere.”
“Va bene, a domani. Ciao.”
Riattacco e la guardo, per valutare la sua reazione. Nella penombra intravedo un sorriso furbo, complice e quasi sbarazzino. Ma nei suoi occhi chiari c’è il gelo. Mi avvicino a lei, la accarezzo ma non reagisce. Non accade più nulla finché non inizia a parlare. Racconta di un suo vecchio amante, un uomo che lei spesso riceveva a casa sua quando il marito era assente. Fa intendere che la storia non sia ancora conclusa, che a volte si vedono. Le mie viscere si attorcigliano preda di spasmi violenti provocati da una gelosia feroce. Ma non mi posso permettere di obiettare, devo fingermi interessato a ciò che lei sta dicendo, anche se non vedo l’ora che se ne vada. Lei intuisce il mio stato d’animo, dice che proprio deve scappare via, perché è tardi. Si riveste, ci salutiamo con un bacio un po’ stanco. Esce.
Mi abbandono sul divano. Stanco, spossato sia nel corpo che nella mente. Cerco di ripercorre quanto è accaduto questo pomeriggio. Mi soffermo sugli aspetti positivi, cercando di rimuovere le ombre.
Un suono mi distoglie dalle mie moleste riflessioni. È di nuovo il telefono, ma stavolta si tratta di un semplice messaggio. Lo leggo.

Ciao! Sto andando a casa a piedi. Sai, avevo bisogno di un po’ di moto. Oggi è stato bellissimo, conservo ancora sul mio corpo il ricordo di te! Mi pulirò dopo… Dove sono adesso è buio, ma non ho paura. Che mi può succedere? Qualcuno che mi violenta? Perché no? Bacio!

Scaglio a terra il telefono.

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