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domenica 30 settembre 2012

NON PORTARE GATTO...



Mi sbaglio, e scendo dal treno una fermata prima. Poco male, vuol dire che mi farò una bella camminata. In fondo ne ho bisogno, dopo tante ore passate in assoluta immobilità.
Mi guardo intorno e mi rendo conto che tutto è cambiato. D’altra parte sono trascorsi alcuni anni dall’ultima volta che sono stato qui. Per raggiungere a piedi la prossima stazione è sufficiente continuare a camminare attraverso questo ampio tunnel sotterraneo, e allora mi avvio di buon passo. Lungo le pareti della galleria c’è molta animazione, c’è gente che va e viene, sono stati aperti negozi e ristoranti, e anche alcuni uffici.
Dopo un po’ noto, quasi nascosto in un anfratto buio, un piccolo gatto. È poco più di un cucciolo, bianco e grigio, e sembra spaventato. Mi avvicino alla bestiola e la accarezzo. Fa le fusa, e non sembra nutrire alcun timore nei miei confronti. Lo raccolgo, e proseguo la mia marcia tenendolo in braccio, stretto al petto, dove lui si rannicchia e chiude gli occhi. Chissà se avrà fame, oppure se è soltanto stanco. Anche addormentato, non smette di ronfare.
Sulla mia destra scorgo una panetteria e, sempre tenendo ben stretto il gattino, entro e compro del pane. All’improvviso mi sono accorto di avere appetito. La fornaia che mi serve non si avvede di quel minuscolo essere sistemato sotto il mio giaccone. Sorrido tra me, divertito, e riprendo il mio tragitto sotterraneo, sbocconcellando la pagnotta ancora calda e pensando a che cosa fare del gatto.
Dopo un altro po’ finalmente esco alla luce del sole e mi ritrovo in quel quartiere che una volta, quando ero poco più di un ragazzo frequentavo tutti i giorni. Il gattino forse percepisce quel nuovo ambiente, la luce naturale e i diversi odori, e si sveglia. Sorprendendomi, con un balzo si getta a terra. Non si allontana di tanto, tuttavia non riesco a riprenderlo. Zampetta stando alcuni metri davanti a me, e riesco così a non perderlo di vista. D’un tratto mi trovo di fronte una specie di monolite roccioso, del quale non ricordo la presenza. È strano che la memoria mi tradisca in questa maniera, e ne sono sorpreso. Mi riscuoto dallo stupore quando vedo il gattino che si arrampica sulla roccia, svelto e agile. Non mi resta altro da fare che seguirlo. Salgo, aiutandomi con le mani, finché non arrivo in cima, dove la bestiola mi sta aspettando e si lascia catturare. Non siamo molto in alto, però mi rendo conto che sarà difficoltoso scendere, dal momento che soffro di vertigini. Lentamente, con grande cautela, arrivo quasi alla base del monolite, dove non trovo più appigli per proseguire la discesa. Allora chiudo gli occhi e salto. L’atterraggio è piuttosto rovinoso ma per buona sorta senza danni, e riesco a rimettermi in piedi, sempre stringendo il micio, che non appare per nulla turbato. Da lontano, dall’altra parte della strada, un uomo ha assistito a tutta la scena. Tiene una mano sulla fronte, per riparare gli occhi dai raggi del sole. Sembra un contadino, capitato per caso in città. Non c’è più niente da vedere, e allora si allontana.
Ancora ansante per lo sforzo compiuto, e spaventato per il pericolo corso, mi avvio tra le case, strette e lussuose abitazioni appiccicate l’una all’altra, edificate su una ripida salita. Soltanto adesso avverto di non avere più addosso il giaccone. L’ho perso, senza neppure rendermene conto. Non riesco a comprendere quando ciò possa essere accaduto. Nella mano, quella non impegnata a trattenere il gatto, mi ritrovo un paio di guanti, proprio quelli che si trovavano nella tasca del mio indumento scomparso.
Attonito e ormai stranito, mi avvicino a un balcone che sporge sulla via. In piedi, girata di spalle, c’è una donna. Indossa una corta gonna blu e degli stivali color panna. Le sue gambe, nude e abbronzate, sono davvero belle. Decido di rivolgermi a lei per chiedere un’informazione. Non riesco più a rammentare dove si trovi l’abitazione della mia amica, di nuovo la mia memoria fa cilecca.
“Mi scusi…”
La donna si volta e allontana dal viso i lunghi capelli biondi. Vedo un volto pieno di rughe, quello di una vecchia. Seppure sbalordito rivolgo la mia domanda, alla quale lei risponde con voce strozzata, inquietante. Le sue informazioni però risultano precise, e dopo pochi minuti mi trovo di fronte alla casa che stavo cercando. È rimasta uguale, anche se la facciata è dipinta di un altro colore.
Suono il campanello, mentre il gattino si è di nuovo addormentato. Mi apre lei, la vecchia governante, quella che un tempo avevo soprannominato Osso di Seppia. Deve essere molto anziana, ma la sua figura alta e magra è ancora ben eretta. I suoi capelli adesso sono azzurri. Con un cenno mi invita a sottomettermi all’antico rito, quello di sfilare le scarpe prima di entrare. Quando scorge il gatto fa una smorfia, ma non dice nulla. Sono all’interno e, come sempre, mi stupisco di quando sembri enorme quell’abitazione, che dall’esterno invece pare piccola. Subito mi viene incontro la mia amica. Non è sorpresa di vedermi, come se la mia improvvisa visita le fosse stata annunciata. Due cani Carlini si agitano ai suoi piedi, fiutano il micio, che apre gli occhi ed emette con scarsa convinzione alcuni piccoli soffi. Quella bestiola non ha paura di nulla, presto si quieta e guarda con curiosità quei buffi animali dal muso nero.
Lei non è invecchiata. La pelle del viso è ancora fresca, i suoi fitti capelli corvini non hanno alcuna striatura grigia. È felice di rivedermi dopo tanti anni, mi rivolge tante domande, alle quali fatico a rispondere. Mi scorta attraverso gli innumerevoli ambienti dell’abitazione, sempre seguita dai suoi affettuosi cagnolini. Poso a terra il gatto, che rimane immobile, e consente ai cani di appropriarsi del suo odore. Le bestiole tra loro non sono ostili, e fanno subito amicizia. vengo condotto in cucina, dove vedo suo padre impegnato ai fornelli, la sua passione. Quasi non mi saluta, tale è la sua concentrazione. Forse non mi ha nemmeno riconosciuto. Lei prepara una grossa ciotola di cibo, che i Carlini e il mio gattino condividono senza alcun problema.
La casa è piena di gente, tutte persone che non conosco, e non riesco a parlare con la mia amica; di continuo c’è qualcuno che ci disturba, che interrompe la nostra stentata conversazione. Mi viene presentato un giovane infagottato in una sgargiante divisa, forse un parente. O un amico di famiglia, chissà.
Sono ormai stanco e frastornato, quando in lontananza sento dei tuoni. Sta per piovere, e a questo punto devo andare via. Di fretta saluto la mia amica, accenno al gattino. Lei mi guarda meravigliata.
“Pensavo lo volessi tenere tu” dice.
Scuoto il capo.
“Per ora te ne dovrai occupare tu. Con i cani va d’accordo” rispondo e mi avvio verso l’ingresso, pronto a uscire. Dall’ombra sbuca Osso di Seppia, che ha intuito tutto ed è pronta ad aprire la porta. Lo fa, sempre senza parlare.
“Arrivederci e grazie” le soffio in faccia.
La mia amica mi guarda.
“Arrivederci e grazie” dico anche a lei e poi esco.
Sta iniziando a piovere, e lei mi segue e si ferma sulla soglia.
“Stavi scherzando, vero?” dice.
Non rispondo e le chiudo la porta in faccia.
Cerco le scarpe ma non le trovo. Mi affanno, giro più volte su me stesso e infine le scorgo. Ma non sono le mie. Sono due calzature minuscole, da bambino, diverse tra loro e una più piccola dell’altra. Provo ugualmente a infilarle ai piedi, tirandole, cercando in tutti i modi di allungarle, ma è tutto inutile. Proprio non ci riesco. Le mie lacrime si mescolano con la pioggia che cade sul mio viso.

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