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domenica 16 settembre 2012

SPECCHIO DELLE MIE BRAME



Prima di uscire si osservò un’ultima volta nel grande specchio dell’ingresso. Socchiuse gli occhi, si concentrò, e cercò di imprimersi bene in mente quell’apparenza, la propria. Espirò profondamente e finalmente andò fuori.
L’uomo camminava lentamente, circospetto, quasi timoroso, tenendosi sulla destra del marciapiede, il più possibile vicino ai palazzi. La sua indecisione si accentuava al momento di attraversare la strada. Indugiava a lungo, guardava il semaforo diventare verde, poi rosso e di nuovo verde. Alla fine si decideva e si azzardava a oltrepassare la via con passi corti e veloci. Giunto dall’altra parte riprendeva il cammino, voltando di continuo il capo in tutte le direzioni, come fosse alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare.
Proprio a causa di questo suo incedere nervoso e inquieto, quasi non si accorse della persona che proveniva dalla direzione opposta alla sua e contro alla quale per poco non andò a sbattere.
La donna si fermò e lo fissò, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati. Posò a terra la borsa della spesa.
“Fiorenzo!” esclamò.
Anche lui, alla fine, l’aveva riconosciuta. In verità non ricordava più quale fosse il suo nome. Era indeciso tra Marta e Maria e, nel dubbio, si limitò a sorridere e a chinare la testa in un cenno di saluto. In ogni caso si trattava della figlia di una vecchia amica di sua madre con la quale, in passato, aveva avuto sporadici contatti. Ma da allora era passato un po’ di tempo, e non sapeva che cosa facesse adesso quella donna, se fosse sposata e se avesse dei figli. Di sicuro era invecchiata. Il volto si era arrotondato e le guance parevano cascanti. Era apparsa qualche piccola ruga ai lati della bocca e l’intera sua figura sembrava appesantita, come gravata da qualcosa di indefinito.
Sentendo il suo nome, rispose con un ulteriore segno d’intesa, sempre accompagnato da un lieve sorriso.
Non sapeva proprio che cosa dire a quella donna, quindi cercò di sfruttare la situazione a suo vantaggio.
“Ti piaccio?” esordì con una buona dosa di sfacciataggine.
Lei, dapprima, rimase un po’ stupita. Poi si ricompose.
“Sei davvero in gran forma” disse, esitante.
“E il mio abito? Che ne dici del mio abito?”
La donna lo squadrò, dall’alto in basso.
“È veramente bello, e ti sta molto bene.”
“Il colore?” chiese ancora lui.
“Si intona perfettamente con la tua carnagione. È una tinta strana, molto originale. Cos’è, color tortora?”
“Quasi. È difficile trovare una cravatta che si possa abbinare. Che ne dici della mia scelta?”
“Ottima, direi. Una cravatta davvero graziosa, con quei riflessi cangianti…”
La donna era sempre più meravigliata, ma si sforzava di stare al gioco.
“E mi piacciono molto anche le tue scarpe, con quelle nappine veramente carine” aggiunse.
“Ti ringrazio, sei veramente gentile. È come se mi fossi specchiato in te” disse lui, con entusiasmo.
A quelle parole la donna si chinò e afferrò la borsa.
“Ciao Fiorenzo, adesso devo proprio andare. Sono contenta di averti incontrato.”
“Arrivederci, Maria. Anche a me ha fatto molto piacere rivederti.”
“Marta…” mormorò la donna, che poi si allontanò a passo veloce.
L’uomo, rinfrancato, riprese il cammino. Adesso sembrava più sicuro di sé, quell’inaspettato incontro lo aveva rasserenato. Sapeva però che quella condizione di benessere non sarebbe durata a lungo, che presto sarebbe subentrata l’abituale sensazione di insicurezza, quella sfumata percezione di sé che sempre lo tormentava.
Intravide in lontananza la vetrina dell’oreficeria, fra tutte la sua preferita. Non per il suo contenuto, dal momento che non degnava mai di una sola occhiata gli orologi, gli anelli, i bracciali e tutti gli altri oggetti luccicanti che vi erano esposti. Ciò che suscitava il suo interesse era la vetrina vera e propria, e precisamente il vetro. Era uno dei pochi che riflettesse alla perfezione l’immagine di chi vi stava davanti. Forse per la sua eccelsa qualità, o probabilmente perché era un vetro particolare, molto spesso, a prova di spaccata. Oppure, più semplicemente, per la felice posizione del negozio, collocato in un punto in cui la luce lo investiva nel giusto modo, non provocando riflessi molesti.
Dopo essersi soffermato a lungo di fronte alla vetrina, e aver così rinnovato nella memoria quell’immagine che a volte gli sfuggiva, si diresse verso l’edicola, la vera meta della sua uscita.
Salutò l’edicolante e acquistò alcuni giornali.
“Sandro, scusa, ce l’hai sempre quello specchio?” domandò dopo aver pagato.
L’altro annuì e poi sparì all’interno del chiosco. Riapparve avendo tra le mani un piccolo specchietto rettangolare con la cornice di plastica verde. Lo porse all’uomo.
“Devi incontrarti con la morosa?” domandò l’edicolante al suo elegante cliente. Tra le labbra aveva come sempre una cicca spenta, poiché da anni aveva abbandonato il vizio ma non riusciva a rinunciare al piacere di stringere tra le labbra una sigaretta.
“Macché, devo trovarne una!” rispose l’uomo in tono gioviale mentre si esaminava con accuratezza nello specchio. Prima il viso, poi il resto della figura, a pezzi, uno dopo l’altro fino alle scarpe.
Restituì il vecchio specchietto, che negli angoli aveva delle chiazze opache ma che comunque riusciva ancora a svolgere la sua funzione, e si incamminò verso casa con i giornali sottobraccio.
Dopo aver percorso un centinaio di metri vide una lunga fila di automobili parcheggiate lungo il corso principale del paese. Durante la settimana ciò non accadeva mai. Le vetture erano sempre in movimento, frenetiche come i loro autisti chiusi all’interno. Oggi invece era domenica, e i padroni di quelle scatole di vetro e lamiera stavano riposando, così come le loro macchine.
Si avvicinò di soppiatto a quella invitante successione di auto. Cominciò dall’ultima, per poi risalire lentamente la fila. Di fronte, anzi di lato, si tratteneva per qualche istante, guardando con soddisfazione la propria immagine riflessa. I vetri non erano tutti uguali. Alcuni erano chiari, altri più scuri, affumicati. Qualcuno era piatto, altri ancora invece tondeggianti, e spesso la sua figura rispecchiata ne risultava buffa, distorta, come al labirinto di specchi del Luna Park. Ma andava bene lo stesso anche così, l’importante era riuscire a vedersi, o almeno intravedere qualcosa che rinsaldasse quel ricordo che tendeva a sbiadire se non richiamato di frequente.
Poco prima di giungere dinnanzi al suo portone, l’uomo scorse sull’altro lato della strada il suo amico Giuseppe. Era circondato da alcune persone e stava parlando. Parlava sempre lui, qualcuno lo stava ad ascoltare, altri fingevano di farlo ma erano distratti, i restanti proprio non lo stavano a sentire ma lui non vi badava, continuava a concionare senza sosta, alzando sempre di più il tono di voce.
Cercò di non farsi notare e infilò furtivamente l’androne. Povero Giuseppe! Era affetto da una specie di malattia, un disturbo che nessun medico, nessuno psicologo, era riuscito finora a curare. Non poteva fare a meno di parlare. Se trovava qualcuno disposto a starlo a sentire bene, altrimenti discorreva pure da solo. Lo faceva anche in casa; i vicini lo sentivano esibirsi in estenuanti monologhi rivolti a nessuno se non a se stesso, e ciò anche in piena notte. Giuseppe gli aveva confessato che se avesse smesso di parlare sarebbe morto. Perché soltanto le parole pronunciate a fiumi, senza sosta, ne attestavano a suo parere l’esistenza in vita.
L’uomo scosse il capo, addolorato al pensiero dell’amico, ed entrò in casa.
Dopo una breve sosta di fronte al solito grande specchio dell’ingresso si diresse in cucina, dove iniziò a preparare il pranzo. Negli specchi posizionati dietro la cucina a gas gli piaceva osservare le proprie mani all’opera, abili e veloci. Ogni tanto apriva lo sportello di un pensile, dotato di specchio interno, e osservava compiaciuto il suo volto. In quei momenti era sereno. Tutta la sua casa, opportunamente attrezzata, contribuiva a calmarlo, a permettergli di vivere in pace e tranquillità: le numerose superfici riflettenti poste in bagno e, soprattutto, l’immenso specchio che aveva fatto installare sul soffitto della stanza da letto. Durante la notte, quando gli capitava di svegliarsi, e ciò gli accadeva spesso, non aveva bisogno di alzarsi per rassicurarsi, per stemperare l’angoscia che lo coglieva in quell’istante. Gli era sufficiente guardare verso l’alto e, nello scorgere la sua figura distesa nel letto, comprendere così di essere ancora vivo. Soltanto in quel modo riusciva a dormire di nuovo. 

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