Prima di uscire si
osservò un’ultima volta nel grande specchio dell’ingresso. Socchiuse gli occhi,
si concentrò, e cercò di imprimersi bene in mente quell’apparenza, la propria.
Espirò profondamente e finalmente andò fuori.
L’uomo camminava
lentamente, circospetto, quasi timoroso, tenendosi sulla destra del
marciapiede, il più possibile vicino ai palazzi. La sua indecisione si
accentuava al momento di attraversare la strada. Indugiava a lungo, guardava il
semaforo diventare verde, poi rosso e di nuovo verde. Alla fine si decideva e si
azzardava a oltrepassare la via con passi corti e veloci. Giunto dall’altra
parte riprendeva il cammino, voltando di continuo il capo in tutte le
direzioni, come fosse alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare.
Proprio a causa di
questo suo incedere nervoso e inquieto, quasi non si accorse della persona che
proveniva dalla direzione opposta alla sua e contro alla quale per poco non
andò a sbattere.
La donna si fermò e lo
fissò, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati. Posò a terra la borsa
della spesa.
“Fiorenzo!” esclamò.
Anche lui, alla fine, l’aveva
riconosciuta. In verità non ricordava più quale fosse il suo nome. Era indeciso
tra Marta e Maria e, nel dubbio, si limitò a sorridere e a chinare la testa in
un cenno di saluto. In ogni caso si trattava della figlia di una vecchia amica
di sua madre con la quale, in passato, aveva avuto sporadici contatti. Ma da
allora era passato un po’ di tempo, e non sapeva che cosa facesse adesso quella
donna, se fosse sposata e se avesse dei figli. Di sicuro era invecchiata. Il
volto si era arrotondato e le guance parevano cascanti. Era apparsa qualche
piccola ruga ai lati della bocca e l’intera sua figura sembrava appesantita, come
gravata da qualcosa di indefinito.
Sentendo il suo nome,
rispose con un ulteriore segno d’intesa, sempre accompagnato da un lieve
sorriso.
Non sapeva proprio che
cosa dire a quella donna, quindi cercò di sfruttare la situazione a suo
vantaggio.
“Ti piaccio?” esordì
con una buona dosa di sfacciataggine.
Lei, dapprima, rimase
un po’ stupita. Poi si ricompose.
“Sei davvero in gran
forma” disse, esitante.
“E il mio abito? Che ne
dici del mio abito?”
La donna lo squadrò,
dall’alto in basso.
“È veramente bello, e
ti sta molto bene.”
“Il colore?” chiese
ancora lui.
“Si intona
perfettamente con la tua carnagione. È una tinta strana, molto originale. Cos’è,
color tortora?”
“Quasi. È difficile
trovare una cravatta che si possa abbinare. Che ne dici della mia scelta?”
“Ottima, direi. Una
cravatta davvero graziosa, con quei riflessi cangianti…”
La donna era sempre più
meravigliata, ma si sforzava di stare al gioco.
“E mi piacciono molto
anche le tue scarpe, con quelle nappine veramente carine” aggiunse.
“Ti ringrazio, sei
veramente gentile. È come se mi fossi specchiato in te” disse lui, con
entusiasmo.
A quelle parole la
donna si chinò e afferrò la borsa.
“Ciao Fiorenzo, adesso
devo proprio andare. Sono contenta di averti incontrato.”
“Arrivederci, Maria.
Anche a me ha fatto molto piacere rivederti.”
“Marta…” mormorò la
donna, che poi si allontanò a passo veloce.
L’uomo, rinfrancato,
riprese il cammino. Adesso sembrava più sicuro di sé, quell’inaspettato
incontro lo aveva rasserenato. Sapeva però che quella condizione di benessere
non sarebbe durata a lungo, che presto sarebbe subentrata l’abituale sensazione
di insicurezza, quella sfumata percezione di sé che sempre lo tormentava.
Intravide in lontananza
la vetrina dell’oreficeria, fra tutte la sua preferita. Non per il suo
contenuto, dal momento che non degnava mai di una sola occhiata gli orologi, gli
anelli, i bracciali e tutti gli altri oggetti luccicanti che vi erano esposti.
Ciò che suscitava il suo interesse era la vetrina vera e propria, e
precisamente il vetro. Era uno dei pochi che riflettesse alla perfezione l’immagine
di chi vi stava davanti. Forse per la sua eccelsa qualità, o probabilmente
perché era un vetro particolare, molto spesso, a prova di spaccata. Oppure, più
semplicemente, per la felice posizione del negozio, collocato in un punto in
cui la luce lo investiva nel giusto modo, non provocando riflessi molesti.
Dopo essersi soffermato
a lungo di fronte alla vetrina, e aver così rinnovato nella memoria quell’immagine
che a volte gli sfuggiva, si diresse verso l’edicola, la vera meta della sua
uscita.
Salutò l’edicolante e
acquistò alcuni giornali.
“Sandro, scusa, ce l’hai
sempre quello specchio?” domandò dopo aver pagato.
L’altro annuì e poi
sparì all’interno del chiosco. Riapparve avendo tra le mani un piccolo
specchietto rettangolare con la cornice di plastica verde. Lo porse all’uomo.
“Devi incontrarti con
la morosa?” domandò l’edicolante al suo elegante cliente. Tra le labbra aveva
come sempre una cicca spenta, poiché da anni aveva abbandonato il vizio ma non
riusciva a rinunciare al piacere di stringere tra le labbra una sigaretta.
“Macché, devo trovarne
una!” rispose l’uomo in tono gioviale mentre si esaminava con accuratezza nello
specchio. Prima il viso, poi il resto della figura, a pezzi, uno dopo l’altro
fino alle scarpe.
Restituì il vecchio
specchietto, che negli angoli aveva delle chiazze opache ma che comunque
riusciva ancora a svolgere la sua funzione, e si incamminò verso casa con i
giornali sottobraccio.
Dopo aver percorso un
centinaio di metri vide una lunga fila di automobili parcheggiate lungo il
corso principale del paese. Durante la settimana ciò non accadeva mai. Le vetture
erano sempre in movimento, frenetiche come i loro autisti chiusi all’interno.
Oggi invece era domenica, e i padroni di quelle scatole di vetro e lamiera
stavano riposando, così come le loro macchine.
Si avvicinò di soppiatto
a quella invitante successione di auto. Cominciò dall’ultima, per poi risalire
lentamente la fila. Di fronte, anzi di lato, si tratteneva per qualche istante,
guardando con soddisfazione la propria immagine riflessa. I vetri non erano
tutti uguali. Alcuni erano chiari, altri più scuri, affumicati. Qualcuno era
piatto, altri ancora invece tondeggianti, e spesso la sua figura rispecchiata ne
risultava buffa, distorta, come al labirinto di specchi del Luna Park. Ma
andava bene lo stesso anche così, l’importante era riuscire a vedersi, o almeno
intravedere qualcosa che rinsaldasse quel ricordo che tendeva a sbiadire se non richiamato di frequente.
Poco prima di giungere
dinnanzi al suo portone, l’uomo scorse sull’altro lato della strada il suo
amico Giuseppe. Era circondato da alcune persone e stava parlando. Parlava
sempre lui, qualcuno lo stava ad ascoltare, altri fingevano di farlo ma erano
distratti, i restanti proprio non lo stavano a sentire ma lui non vi badava,
continuava a concionare senza sosta, alzando sempre di più il tono di voce.
Cercò di non farsi
notare e infilò furtivamente l’androne. Povero Giuseppe! Era affetto da una
specie di malattia, un disturbo che nessun medico, nessuno psicologo, era
riuscito finora a curare. Non poteva fare a meno di parlare. Se trovava
qualcuno disposto a starlo a sentire bene, altrimenti discorreva pure da solo.
Lo faceva anche in casa; i vicini lo sentivano esibirsi in estenuanti monologhi
rivolti a nessuno se non a se stesso, e ciò anche in piena notte. Giuseppe gli
aveva confessato che se avesse smesso di parlare sarebbe morto. Perché soltanto
le parole pronunciate a fiumi, senza sosta, ne attestavano a suo parere l’esistenza
in vita.
L’uomo scosse il capo,
addolorato al pensiero dell’amico, ed entrò in casa.
Dopo una breve sosta di
fronte al solito grande specchio dell’ingresso si diresse in cucina, dove
iniziò a preparare il pranzo. Negli specchi posizionati dietro la cucina a gas
gli piaceva osservare le proprie mani all’opera, abili e veloci. Ogni tanto
apriva lo sportello di un pensile, dotato di specchio interno, e osservava
compiaciuto il suo volto. In quei momenti era sereno. Tutta la sua casa,
opportunamente attrezzata, contribuiva a calmarlo, a permettergli di vivere in
pace e tranquillità: le numerose superfici riflettenti poste in bagno e, soprattutto,
l’immenso specchio che aveva fatto installare sul soffitto della stanza da
letto. Durante la notte, quando gli capitava di svegliarsi, e ciò gli accadeva
spesso, non aveva bisogno di alzarsi per rassicurarsi, per stemperare l’angoscia
che lo coglieva in quell’istante. Gli era sufficiente guardare verso l’alto e, nello
scorgere la sua figura distesa nel letto, comprendere così di essere ancora
vivo. Soltanto in quel modo riusciva a dormire di nuovo.
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