Homeless. Mi è sempre piaciuto il suono di questa
parola perché, tutto sommato, possiede una certa soavità, una specifica
leggiadria. Non è come pronunciare termini quali barbone, emarginato oppure clochard. No, è tutta un’altra cosa,
completamente diversa. Ricordo con piacere quando, appena ragazzo, mi immergevo
nella lettura di quei romanzi americani dove spesso i protagonisti erano
proprio loro, gli homeless. Fantasticavo
a occhi aperti su quei simpatici vagabondi, sempre pieni di risorse, che si
spostavano da un capo all’altro di quello sconfinato paese accucciandosi nello
spazio tra le ruote dei treni, interminabili convogli trainati da sbuffanti
locomotive a carbone. E quei tipi me li immaginavo scanzonati, sempre
sorridenti, intenti a sgranocchiare con autentico gusto tozzi di pane nero e
raffermo, nonché di continuo avvolti da spesse nubi di vapore. Figure
romantiche, per me quasi leggendarie, intrise di una peculiare dolcezza, e alle
quali non mancavano di certo sia il coraggio che un selvaggio spirito di avventura.
L’unica loro brama, la sola aspirazione, era la libertà. L’affrancarsi,
attraverso una scelta audace, tale da sfiorare l’insolenza, da legami, obblighi
e limitazioni di tutti i generi, da imposizioni e costrizioni in grado di
annientare la voglia di vivere di un essere umano. E allora partiva per loro la
rincorsa verso una differente condizione, quella di uomo libero, un’ambizione
che permetteva di rimuovere o almeno di attenuare la sofferenza e i patimenti,
e quei treni che sfrecciavano attraverso le sconfinate pianure, che superavano i
fragili ponti gettati con ardimento tra le rocce, che sostavano nelle vivaci e
pittoresche cittadine, ne rappresentavano l’eloquente rappresentazione. Rapide
fermate, con appena il tempo di sgranchire le gambe indolenzite dalla lunga
immobilità, di stirare le braccia intorpidite, e di immergere il viso impolverato
e annerito in un secchio d’acqua fresca. Oppure, a preferenza, ma sempre in
nome dell’assoluta libertà, una pausa più lunga, forse un lavoro avventizio in
qualche fattoria, per racimolare alcuni spiccioli da sperperare subito in una
colossale bevuta, in un lauto e occasionale pasto, prima di riprendere quella
folle e spensierata corsa senza lacci. Su un altro lungo treno, per scoprire
altri posti, per conoscere nuova gente, e per rinnovare la meravigliosa
emozione di essere completamente padroni di se stessi, di poter assumere
qualsiasi decisione, immuni da influenze e dipendenze di ogni sorta.
Da allora, da quando mi
smarrivo in quelle affascinanti visioni, provenienti direttamente dalle pagine
ingiallite di quei libri imbevuti di intensa fragranza, di un aroma di antico,
è trascorso molto tempo. È passata una vita intera. Un’esistenza che ho
facilmente scordato, che ho rimosso quasi del tutto. Tuttavia, per cercare di
rinnovare quei lontani e gradevoli ricordi, tutto ciò che è stato prima del
nulla che è seguito, e che non desidero invece rammentare, qualche giorno fa
sono andato alla stazione, alla stazione di questa immensa e crudele città.
Sono entrato, con un po’ di timore, benché noncurante degli sguardi curiosi e
insensibili delle persone, dei frettolosi viaggiatori, ai quali sono avvezzo, e
ho camminato a lungo sulla banchina, lentamente.
Adesso i treni non sono più come quelli di una
volta, sono del tutto differenti. È quasi impossibile distinguere la locomotiva
dai vagoni, perché tra loro sono uguali. Ed è inutile cercare il fumaiolo,
poiché non c’é. I treni sono affusolati, quasi altezzosi, e sono verniciati con
colori brillanti. Le loro lamiere sono fredde, ne sono quasi certo, anche se
non ho osato toccarle.
A un certo punto mi sono accostato a un
vagone, uno qualsiasi dei tanti, e mi sono disteso a terra, per vedere meglio.
Tutti guardavano me, ma io ho seguitato a osservare ciò che realmente mi
interessava. L’ho fatto con attenzione, per lungo tempo, finché un ferroviere
non mi ha costretto a rialzarmi e ad andarmene. Ma ormai avevo visto tutto, ed
è stata enorme la mia delusione, doloroso il mio disappunto. Mi ero reso conto
che lo spazio non c’è più! È diventato impossibile, per un uomo, seppure
intrepido, riuscire a sistemarsi sotto ai vagoni per farsi trasportare sulle
ali di una libertà senza confini. Alla fine, pieno di amarezza, sono uscito
dalla stazione, che stava diventando sempre più rumorosa e affollata. Fuori era
già quasi buio, il freddo iniziava a mordere la mia carne stanca, ed io dovevo
ancora trovare una sistemazione adatta per trascorrere la notte. Chissà se il
mattino dopo mi sarei risvegliato?
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