Non accenna a placarsi
l’ondata di protesta, a opera di gruppi integralisti musulmani, scatenata dal
film “Innocence of Muslims” (i cui contenuti sono stati reputati offensivi e blasfemi),
culminata con l’assalto alla sede diplomatica statunitense a Bengasi che è
costata la vita all’ambasciatore e ad altri civili americani. Rimostranze,
spesso condotte in forma rabbiosa, che hanno coinvolto e continuano a
interessare tanti paesi islamici, dall’Africa all’Asia.
Le numerose fazioni
fondamentaliste, più o meno simpatizzanti se non direttamente legate ad Al-Quaeda,
ma anche altre formazioni più isolate, hanno ritrovato un nemico comune: l’Occidente,
raffigurato ed esemplificato, come spesso già accaduto in passato, dagli Stati
Uniti. Si è scatenata così una insensata caccia al diplomatico, sostenuta da un
pretesto assai debole ma sufficiente per convincere masse di persone a
scatenare la loro indignazione, e a tradurla in atti violenti: un modesto
filmetto, realizzato con scarsi mezzi ma con l’evidente intenzione di provocare.
Stati quali la Tunisia,
l’Egitto e la Libia, democrazie giovani e tutt’altro che consolidate, stentano
ad arginare queste rivolte, e non paiono essere in grado di assicurare una
protezione adeguata ai cittadini occidentali impegnati nell’attività diplomatica.
Numerose ambasciate e consolati sono stati evacuati per motivi di sicurezza.
Perché tutto questo
odio? Per quale motivo, periodicamente, si rinfocola quella che può essere definita,
se non una vera e propria guerra di civiltà, un conflitto tra religioni?
In realtà, non c’è nulla
di nuovo. Secoli fa gli infedeli erano loro, turchi e arabi, considerati tali da
chi li combatteva proprio in nome della religione, e lanciava nei loro
confronti le Crociate, le Guerre Sante. Ora i nuovi infedeli sono gli
imperialisti americani e gli abitanti del Vecchio Continente.
Negli ultimi anni le
occasioni di scontro tra l’Occidente e l’Islam oltranzista (una minoranza di
individui, certo, ma in grado di sconvolgere gli equilibri) sono state
molteplici.
Chi non ricorda la fatwa (secondo una concezione popolare
moderna si tratta di una sentenza di condanna a morte di una persona,
considerata blasfema, da parte della comunità islamica) scagliata dall’ayatollah
Khomeini contro lo scrittore anglo-indiano Salman Rushdie per via del libro “I
versi satanici”? Oppure l’uccisione del regista olandese Theo Van Gogh? O
ancora l’aggressione al vignettista danese Kurt Westergaard, autore di disegni
satirici su Maometto ritenuti sacrileghi ed esibiti, in maniera stolta, su una
maglietta dal nostro ineffabile Roberto Calderoli, allora ministro? Tra l’altro,
è opportuno ricordare che la stupida bravata dell’esponente leghista è costata
alla collettività italiana una cifra enorme per la sorveglianza della sua
villa, vigilanza che si è protratta per ben otto anni.
Ma, di fronte a quanto
accaduto negli ultimi giorni, ci si rende conto che, in questa specifica occasione,
il fronte si è allargato. L’oggetto della disapprovazione, da parte del mondo
musulmano, non è più soltanto un singolo individuo ma una intera civiltà, un
modo di vivere forse più dissoluto, ma di certo più tollerante, disposto a
indignarsi e a condannare le offese ma che mette sempre e comunque al primo
posto la libertà di espressione.
E persiste la convinzione
che anche lui, il Profeta, troppo spesso e a sproposito chiamato in causa, di
fronte a un episodio come quello del filmetto americano, avrebbe di sicuro
chiuso un occhio e si sarebbe accontentato della solidarietà di chi, con l’Islam,
è alla ricerca di una pacifica convivenza.
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