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domenica 9 settembre 2012

IL NIPOTE DI STAKANOV



Non so che viso avesse, né mi interessa saperlo. Di certo non è per la somiglianza fisica che i miei colleghi mi paragonano a lui. È per la mia alacrità. Lo fanno di continuo, con velate allusioni, con riferimenti diretti, spesso con battute malevole. E poi il mio strumento di lavoro non è il martello pneumatico, bensì carta e penna, computer e calcolatrice, fax e telefono. No, io non scendo nelle viscere della terra per estrarre carbone, non passo la mia giornata senza mai vedere la luce del sole. La mia attività lavorativa non si svolge in una lugubre miniera, ma in un ufficio luminoso, seduto dietro a una grande scrivania.
È inutile negarlo, tra i miei compagni di lavoro non sono molto popolare. Suscito in loro impulsi negativi, pieni di invidia e di risentimento. Quasi nessuno mi rivolge la parola. Ciò avviene solo quando è assolutamente necessario, allorché sono le necessità lavorative a imporlo.   
Scaccio via dalla mente questi pensieri molesti e fastidiosi, che oltretutto mi fanno perdere tempo. A che serve recarsi al lavoro un’ora prima di tutti gli altri se poi non ci si mette subito all’opera?
Questo periodo di tempo che trascorro in perfetta solitudine è molto appagante ed estremamente produttivo. Nessuno mi disturba con chiacchiere vuote, e le distrazioni sono del tutto assenti. Posso così concentrarmi sul lavoro, pianificare la mia giornata senza trascurare il minimo dettaglio. Dopo, quando l’ufficio sarà al completo, tutto sarà differente. Dovrò sopportare, come al solito, gli sguardi di dileggio e di compatimento dei colleghi, i loro motti sarcastici sempre e soltanto indirizzati al sottoscritto, il loro bersaglio privilegiato. Non baderò a nulla, non alzerò mai gli occhi dal piano della scrivania, dalle mie adorate pratiche che invece quei serpenti si ostinano a definire scartoffie. Vedrò quegli scansafatiche bighellonare senza costrutto da una stanza all’altra, abbandonarsi a stupide risate, svagarsi con la lettura dei giornali o impegnati in altre amenità.
Non importa, tanto sarò io a svolgere il loro lavoro, tutto il lavoro dell’ufficio. Ed è ciò che più desidero. Guai se rimanessi senza qualcosa da fare! Sarebbe per me una vera tragedia, un autentico dramma. Loro lo sanno e pensano di approfittarne. Non si rendono conto che è proprio quello che voglio, disporre sempre di tante pratiche da sbrigare, farlo in maniera sempre più rapida ed efficiente.
Durante l’intera mattinata non sollevo mai le terga dalla poltroncina imbottita che ormai ha assunto le mie forme. Nessuna pausa di alcun tipo. Niente caffè, niente cappuccino e brioche. Non ne sento il bisogno. E poi, se lo facessi, sarei colto dal rimorso, perderei tutta la stima che possiedo verso me stesso, mi sentirei un verme. Allo stesso modo non ho mai necessità di sgranchire le gambe. Se devo parlare con qualcuno utilizzo il telefono. Non sono mai entrato in un altro ufficio che non sia il mio, a eccezione di quello del mio responsabile. Quando lui mi convoca non riesco a nascondere del tutto il mio estremo disappunto. Minuti preziosi che vanno persi. Mi siedo di fronte a lui, che mi guarda a lungo, e poi sospira, prima di parlare. In tutta la mia ormai lunga carriera lavorativa non ho mai ricevuto dal mio responsabile un solo apprezzamento. In fondo lo capisco. La mia eccessiva laboriosità gli provoca imbarazzo, gli causa delle difficoltà. Non è per nulla orgoglioso di essere il dirigente dell’ufficio più produttivo dell’azienda. I suoi colleghi, gli altri dirigenti ma anche i vari direttori, gradirebbero un livello di rendimento più consono agli standard medi. Insomma, vorrebbero che lui mi obbligasse a lavorare di meno. Naturalmente non ci riuscirà mai. Potrà chiedermi qualsiasi altra cosa, ma quello proprio no. Mi spiace per lui se ciò continuerà a porlo in cattiva luce, se i vertici dell’azienda continueranno a osservarlo con sospetto. Un responsabile che non riesce a imporre una diminuzione di produttività a un suo subordinato appare debole e incapace di fronte ai superiori. Temo che la sua carriera sia ormai compromessa, ma nessuno riuscirà mai a costringermi a fare ciò che non voglio. I suoi tentativi di rallentare il mio zelo sono un po’ patetici. Mi trattiene a lungo nel suo lussuoso ufficio, mi parla di politica, del tempo atmosferico, racconta in maniera minuziosa le sue vacanze, ciò che fatto nel fine settimana, si lamenta della moglie, impreca quando parla dei figli, fannulloni e senza alcuna voglia di impegnarsi nello studio.  Io lo ascolto, in silenzio, a volte annuisco per compiacerlo. A un certo punto non sa più che cosa dire, che cosa inventarsi per trattenermi. Allora si arrende e, rassegnato, mi permette finalmente di rientrare nel mio ufficio. In pochi minuti recupero tutto il tempo perso. Anzi, vado oltre, come colto da una specie di febbre. Non penso più a nulla, soltanto alla mia attività, che svolgo con precisione ancora maggiore, con spietata efficacia. Le mie energie si moltiplicano, diventano inesauribili. Una vera e propria macchina da lavoro. I miei colleghi distolgono lo sguardo, disgustati.
Ed è subito ora di pranzo, il momento che tutti prediligono, che agognano, e che io invece odio. Perché sprecare tempo per alimentarsi quando ciò può essere fatto dopo, la sera, quando si è purtroppo liberi dagli impegni di lavoro? No, non ho affatto intenzione di schiodarmi dalla mia scrivania. Al contrario, è ora di ributtarsi nell’attività con reiterato impegno, con rinnovata lena. Con intenso vigore. In tal modo, il pomeriggio diviene tristemente breve. Il solo pensiero che mi rallegra è che il giorno successivo potrò ricominciare. La giornata non è ancora del tutto trascorsa e già mi pregusto quella successiva, che per buona sorte non è festiva. Già, le feste, la vera sciagura dei lavoratori instancabili.
È quasi ora di uscire. Lo farò, come sempre, dopo aver svolto un’ulteriore ora di lavoro non retribuito. E di nuovo sono assalito da pensieri cupi. La mia carriera lavorativa si sta avviando alla sua conclusione. Tra pochi anni mi attende la pensione, il sogno di tutti gli impiegati come me, ma non il mio. Per me è un incubo. Eppure dovrò rassegnarmi, prima o poi quella tremenda scadenza giungerà. Non sarò più nulla, non produrrò più nulla.
Prima di allora però, forse proprio l’ultimo giorno, farò una cosa che non ho mai fatto. Una piccola stravaganza, un qualcosa che per me è sempre stato inconcepibile. Mi alzerò dalla scrivania e, lentamente, mi dirigerò verso i bagni. Entrerò per la prima volta in quei locali che non conosco, che non ho mai visto, e mi accomoderò sulla fredda tazza. Non rimarrò seduto per molto tempo, soltanto lo stretto necessario per donare alla mia amata azienda un raro e prezioso ricordo di me stesso, del nipote di Stakanov, perché è così che mi chiamano tutti.

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