Salgo sull’ascensore e lui è dietro di me e tace. Tre piani,
sempre senza dire nulla. Poi, con le mani tremanti, cerco le chiavi e apro.
Odore di chiuso. Perché stamattina, prima di uscire, non ho aperto le finestre?
Lo faccio adesso, iniziando dal soggiorno. Subito entra aria, ma è rovente, da
alcuni giorni fa molto caldo, un caldo umido e soffocante che mozza il respiro.
Mi guardo attorno, smarrita, e quasi non mi sembra di essere a casa mia. È come
se la mia vista fosse annebbiata. Non riesco a mettere bene a fuoco i mobili,
gli oggetti, tutto.
Siediti, dico, io arrivo subito, e gli indico il divano. Lui
si siede, rigido e impacciato.
Vado in bagno, mi lavo le mani, mi rinfresco il viso. Evito
lo specchio, di proposito. Non posso rimanere qui dentro a lungo, devo uscire,
lui aspetta e aspetta me.
Bevi qualcosa, domando, con scarsa convinzione. E infatti
lui mi fa cenno di no, non voglio niente, sto bene così. Perché l’ho chiesto?
So bene di non avere niente in casa, non ho mai niente perché non viene mai
nessuno e io bevo soltanto acqua, quella del rubinetto che neppure mi piace.
Che cosa avrei detto se lui avesse risposto di sì? Devo calmarmi, devo
assolutamente cercare di rilassarmi. In fondo non sta accadendo nulla. Per ora.
Ci siamo conosciuti da poco e questa è soltanto la seconda
volta che ci vediamo. Vuoi un caffè, mi ha chiesto l’altro giorno, arrossendo e
balbettando, però ha avuto coraggio perché non mi conosceva, ha abbordato una
sconosciuta che forse aveva già incontrato altre volte alla fermata del tram e
quella sconosciuta sono io, e forse mi stava tenendo d’occhio da un po’, forse
ogni tanto pensava a me, comunque è stato coraggioso ma anche molto gentile e
siccome mi ha fatto tenerezza non so perché ma ho accettato. Di solito non lo faccio
mai, non quando vengo abbordata in quel modo però era tanto tempo che nessuno
lo faceva più. Ho accettato perché sono fragile.
Siamo andati al bar, proprio lì, a due passi dalla fermata.
Abbiamo bevuto il caffè ed eravamo noi due soli, gli unici clienti in quel
momento nel locale e il proprietario, un uomo grosso con la barba non rasata e
una macchia di non so cosa sul ridicolo grembiule rosso ci guardava, e io ho
avuto l’impressione che lui sapesse che ci eravamo appena incontrati e che a
causa del nostro impaccio avessimo scelto il suo bar a caso. Cioè, non il
frutto di una scelta meditata, ma all’opposto del tutto fortuita, e sembrava
quasi che fosse colpa nostra per questa situazione e mi sono sentita molto in
imbarazzo e quasi non stavo a sentire ciò che mi diceva lui, il mio occasionale
accompagnatore che pure si sforzava di essere gentile e mi raccontava del suo
lavoro ma io non riuscivo a seguirlo, le sue parole scivolavano e non riuscivo
ad afferrarle, non riuscivo a trattenerle e a coglierne il senso.
Andiamo via, avevo detto a un certo punto, e forse erano
trascorsi non più di dieci minuti ma ormai avevamo bevuto i nostri caffè e
potevamo uscire senza che quel tipo si offendesse, il proprietario dico, perché
avevo pure paura che se la prendesse con noi, gli unici suoi clienti di quel
momento, ma clienti particolari, che erano entrati per caso, senza convinzione,
senza avere scelto, senza avere manifestato una preferenza e lui se n’era accorto
e a me era parso ostile nei nostri confronti.
Allora lui ha pagato e siamo usciti e io mi sono diretta,
impettita, alla fermata del tram, con la mia andatura caracollante perché
indossavo scarpe dal tacco alto anche se non so camminare con simili scarpe e
la mia andatura diventa goffa e proprio non mi piaccio. Ma lui non ci ha fatto
caso, almeno così mi è parso, così ho voluto credere che fosse, e quando ha
compreso le mie intenzioni, cioè che me ne stavo andando si è di nuovo fatto
coraggio, gli è dovuto costare molto immagino, e mi ha chiesto il numero di
telefono. Senza pensare l’ho pronunciato, due volte di seguito molto in fretta,
e lui ha sorriso e ha detto aspetta e ha sfilato dalla tasca il suo cellulare e
ha digitato quelle cifre. Non so perché l’ho fatto, io non do mai il numero di
telefono, non mi piace farlo, tantomeno a sconosciuti, a persone che incontro
per la prima volta, eppure l’ho fatto. Poi è arrivato il tram e io sono salita,
lui ha salutato ma io non ho risposto, almeno non ricordo d’averlo fatto ma
quando sono stata sul mezzo ho guardato attraverso il finestrino sporco e l’ho
visto e lui mi ha fatto un cenno e a quel punto finalmente ho risposto, ma
credo con un attimo di ritardo e chissà se lui ha colto quel tardivo saluto,
prodotto dal pentimento. Sì, perché mi sono subito pentita per il mio
comportamento, un modo di fare che non mi appartiene ma mi sono consolata
pensando che era semplicemente la conseguenza del mio enorme disagio. Tuttavia
sono stata colta da un senso di depressione e di scoramento e mi sono resa
conto, una volta di più, della mia inadeguatezza, della mia incapacità di
affrontare situazioni che per la maggior parte delle persone sono invece del
tutto normali.
Quella tremenda sensazione di frustrazione mi ha
accompagnata per alcuni giorni, fino ad oggi, quando ho ricevuto la sua
chiamata, che ormai non aspettavo più.
Non ho riconosciuto subito la sua voce, e mi è spiaciuto,
perché lui è stato costretto a presentarsi e mi è parso in difficoltà.
Quando usciamo dal lavoro verresti con me a prendere un
gelato, è riuscito infine a domandarmi, e io per un lungo momento sono rimasta
zitta, tanto che lui ha pensato che avessi chiuso il telefono e si è allarmato.
L’ho capito dal tremito della sua voce quando, esitante, ha rinnovato la sua
richiesta. A quel punto non potevo dire di no e allora ho accettato, anche se
quella situazione mi ha colmata d’ansia, tuttavia quell’invito mi ha fatto
piacere e mi sono accorta con sorpresa che in fondo era ciò che desideravo, lo
aspettavo da giorni ma non sarei mai stata in grado di fare il primo passo,
oltretutto non lo potevo fare perché il numero di telefono, a lui, non lo avevo
chiesto.
Abbiamo camminato senza parlare lungo la via pedonale
gremita di gente, gente che rideva e scherzava, che entrava e usciva dai negozi
eleganti, gente solitaria e gente imbronciata, giovani e vecchi, imbonitori e
accattoni, gente malinconica e gente indifferente.
Mentre eravamo in fila alla gelateria, lui davanti e io
dietro, l’ho osservato a lungo, ho notato i capelli diradati e un poco unti sulla
sommità del suo capo, la sua giacca dal tessuto troppo pesante per una giornata
estiva, un po’ logora e spiegazzata. Ho provato per lui una inaspettata
dolcezza e ho pensato che forse l’aveva indossata per me, quella giacca
inappropriata, per apparire più elegante, e probabilmente era pure l’unica che
possedeva, non ne aveva un’altra più leggera e, stoico, soffriva il caldo,
pativa per me.
Buono, ha detto leccando il gelato e io ho soltanto annuito
e non ho detto niente. Ero concentrata su quell’operazione che, in alcune
circostanze, diventa molto difficile da eseguire, mangiare il gelato intendo. Prestavo
molta attenzione perché non volevo sporcarmi, sarebbe stato piuttosto
imbarazzante farlo, e poi provavo vergogna nell’esporre troppo la lingua nel
gesto di lambire il cono e mi limitavo a sfiorare il gelato con piccoli ed
estenuanti tocchi.
Alla fine ho preso dalla borsetta dei fazzoletti di carta,
ne ho dato uno anche a lui che mi ha ringraziato, e ci siamo pulito le mani e
poi abbiamo proseguito la camminata, così, senza una meta precisa, commentando
le vetrine ma era chiaro che ognuno di noi due era perso nei propri pensieri,
che entrambi faticavamo a rimettere ordine nelle nostre menti ingarbugliate.
E poi faceva caldo, sempre più caldo, questa almeno era la
mia impressione, ed io sbirciavo con preoccupazione, quasi con angoscia, le
chiazze di sudore che si stavano allargando sempre più sulla mia camicetta in
corrispondenza delle ascelle. Nella fretta di uscire dall’ufficio mi ero
scordata di rimettere il deodorante ed ora temevo, anzi ne ero sicura, che dal
mio corpo bagnato di sudore esalasse un cattivo odore e che lui lo percepisse.
Ti posso accompagnare a casa, aveva proposto lui con un filo
di voce perché paventava un rifiuto, perché credeva di avere osato troppo o
chissà cosa, e inoltre non sapeva dove abitassi, non ne avevamo parlato, avevamo
parlato poco in verità, e invece io ho risposto di sì, perché no, in fondo non
c’è nulla di male. Gli ho spiegato, forse in maniera troppo dettagliata perché
ero sempre più nervosa, dov’era la mia casa e lui ha annuito e poi ha detto che
era vicina, ma questo lo sapevo anch’io. E così abbiamo proseguito il nostro cammino,
adesso non più senza una precisa destinazione, e in pochi minuti siamo arrivati
di fronte al mio palazzo, quell’orrendo palazzo grigio che io odio, e che non
so se odio perché sia brutto, e lo è, oppure perché rappresenti il solido
simbolo della mia solitudine.
Vuoi salire, ho proposto, anche se non ero del tutto sicura
che fossi stata veramente io a dire una cosa simile. Ma l’ho detto e lui ha
fatto cenno di sì con il capo, alcune volte, e poi ha deglutito. Siamo entrati
e ci siamo diretti verso l’ascensore. Ho appoggiato un dito tremante sul
pulsante e l’ho chiamato.
E adesso siamo qui, nel soggiorno del mio appartamento,
seduti sul divano, ognuno accomodato a una estremità, entrambi rigidi e
impalati, separati da uno spazio vuoto che è una terra di nessuno. E rimaniamo
così finché lui non inizia a parlare. Inizia a raccontare di sé, della sua vita
che ormai è lunga, come la mia, esistenze segnate da dolore, sofferenza e
rimpianti. Vissuti allietati da rari
momenti felici, ormai scordati, ormai rimossi. La gioia non lascia impronte, l’afflizione
elargisce invece profonde cicatrici.
Lo ascolto con attenzione, mi piace il suo modo di parlare,
la minuziosa scelta dei termini, il vezzo di non ripetere mai, a distanza di
poco tempo, lo stesso vocabolo ma di ricorrere a svariati sinonimi. Un vezzo, o
forse una mania. Una delle tante, magari, perché di lui so ben poco.
Dovrei dire qualcosa anch’io, parlare di me, ma non saprei
da dove iniziare, che cosa riferire, non c’è nulla di veramente importante, e
poi mi sento confusa e sconnessa, non in grado di articolare un discorso
sensato. Lui si accorge del mio turbamento e smette di parlare. Mi osserva con
attenzione, mi scruta a lungo e, proprio quando sta per domandarmi qualcosa, mi
decido a intervenire.
Andiamo di là, dico, e nello stesso istante mi alzo e mi
dirigo verso la stanza da letto. Sono voltata, perché il mio viso è infuocato,
e non posso vedere la sua reazione. Ma nello stesso tempo lui non può vedere
me, e non può cogliere il mio stato di agitazione. Lui, docile, mi segue, senza
dire nulla, percepisco i suoi passi dietro di me.
Entro in camera e mi siedo sul letto, che per fortuna questa
mattina ho rifatto, non sempre lo faccio, mentre lui rimane in piedi e si
guarda intorno.
Togliti la giacca, dico, e mi accorgo che la mia voce ha un
timbro strano, basso e roco.
Lui la sfila e, sorprendendomi, la lascia cadere a terra.
Poi, quasi si vergognasse per quel suo gesto audace, prosegue con lo sguardo la
sua ispezione. Posa gli occhi, che sono marroni, sui miei libri, sui miei cd,
sui miei tanti oggetti disposti su tutte le superfici disponibili, su alcuni
vestiti ammucchiati in modo disordinato su una sedia.
È molto luminosa questa stanza, dice, tornando a guardare
me. A quelle parole, scatto e mi precipito verso la finestra, impugno a due
mani la cinghia della tapparella e la abbasso. Lui trasale, per il rumore.
Fa molto caldo, dico. È meglio tenerla abbassata, mormoro,
prima di tornare sul letto. Poi, senza incrociare i suoi occhi, gli indico di
accomodarsi accanto a me, con un semplice ed eloquente gesto. Lui imbroncia le
labbra, perplesso, quindi si toglie le scarpe, così, senza slegarle. Quindi
fissa per un attimo i calzini, umidi e stropicciati, ma non li sfila. Sorrido
tra me, per la prima volta, di fronte al suo evidente e tenero disagio.
Si siede accanto a me, e io chiudo gli occhi, e aspetto che
mi baci. Invece, con delicatezza, scosta un lembo della mia camicetta e
appoggia la sua mano, calda e sudata, sulla mia pelle nuda e sensibile. Poi le
sue dita un po’ maldestre affrontano i minuscoli bottoni. Mi abbandono, ma subito
mi rendo conto del mio errore, del mio tragico errore. Guardo sgomenta la
finestra, e la tapparella, che nella fretta non ho abbassato completamente. Una
lama di luce filtra attraverso una minuscola fessura. Mi investe, pronta a
illuminare il mio corpo che tra poco sarà esposto, completamente esposto a quell’impietoso
chiarore, e ne rivelerà il malato candore, i difetti e le imperfezioni, tutti i
segni della vita. Scuoto il capo con violenza e dico no, no, no. Lui, attonito,
si blocca, poi si alza e raccoglie la giacca da terra. E le scarpe.
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