Cresce la protesta in Val di Susa, e aumenta a dismisura la
tensione, dopo la tragica caduta da un traliccio, avvenuta ieri, di un attivista
NO TAV, salito sul palo per manifestare, una volta di più, la sua opposizione e
quella di un’intera valle al progetto dell’alta velocità. Una disputa che
sembra non avere fine, e per la quale non si intravede una ragionevole soluzione,
che si trascina ormai da diciotto lunghi anni.
Ancora una volta è necessario svolgere una riflessione, per
tentare di comprendere le ragioni di una protesta condotta in maniera così
caparbia e ostinata, addirittura a sprezzo della vita.
Il dichiarare che l’apertura del corridoio ferroviario
Torino-Lione sia questione vitale, che la mancata realizzazione dell’opera possa
comportare una condizione di isolamento per l’intera regione - se non per l’intero
Paese - l’asserire che, a questo punto, gli impegni sono stati ormai assunti e
devono essere d’obbligo onorati sono tutte asserzioni che, facilmente,
potrebbero apparire, se non false, quantomeno ingannevoli e artificiose.
È vero, allo stato attuale sembra piuttosto difficile, se
non impossibile, tornare indietro. I cantieri sono insediati, i lavori stanno
superando la loro fase iniziale; dall’altro versante della montagna, su suolo
francese, le operazioni procedono senza intoppi e in maniera spedita, si dice. Ne siamo veramente sicuri?
Oggi, finalmente, e con colpevole ritardo, è intervenuto il
governo, per voce del ministro Corrado Passera, per ribadire che indietro non
si può tornare. Non dobbiamo scordare, però, che si è giunti alla situazione
attuale anche per l’ignavia, l’inadeguatezza e la superficialità dei precedenti
esecutivi. Tutti, di destra e di sinistra, incapaci di prevedere con la
necessaria e opportuna lungimiranza l’impatto che una grande opera di questo
tipo avrebbe prodotto su una piccola valle. Un territorio già martoriato
pesantemente dalla realizzazione di un’autostrada che, alla fine, si è rivelata
utile per le grandi aziende di trasporti e per i pendolari delle vacanze e che non
ha prodotto nessun autentico beneficio per i valligiani. Richiedere un ulteriore
sacrificio a un territorio già provato è stata una scommessa che si è rivelata
perdente.
D’accordo, la decisione sul compimento del grande progetto
ferroviario è stata assunta seguendo le normali procedure democratiche, le
quali a volte implicano il sacrificio di interessi particolari a favore della
collettività. Ma fino a che punto è lecito spingere tale richiesta? É moralmente
conveniente ritenere insignificanti, o del
tutto residuali, le necessità di migliaia di persone, di un intero territorio?
Oppure sarebbe corretto valutare e considerare con più attenzione e,
soprattutto, con maggiore partecipazione, i bisogni e le naturali rimostranze di questi
cittadini? Cittadini, tra l’altro, sottoposti a una sospensione – in ogni caso
di sicuro a un’attenuazione – dei diritti e delle garanzie democratiche, poiché
costretti a vivere, per molti anni, in un territorio in pratica militarizzato,
obbligati a esibire dei veri e propri lasciapassare per operare alcuni
spostamenti, per potersi recare nei campi da coltivare.
Infine, non è mai stato del tutto sciolto il dubbio che sta
al cuore della vicenda: l’utilità dell’opera. Nessuno è in grado di scioglierlo
in maniera definitiva, né chi è a favore né chi è contrario. Ognuna di queste
tesi contiene ragionevoli punti a favore. Nell’una e nell’altra ipotesi, i
pareri di autorevoli esperti sostengono con misura le ragioni del sì oppure del
no. In questi casi, di fronte a questioni non facili da risolvere, sarebbe
saggio rivolgere uno sguardo al passato.
Fino a poco tempo fa era ritenuta fondamentale anche la
costruzione del Ponte sullo Stretto. Poi, benché con fatica, è prevalso il buon
senso. Oppure, che dire di opere faraoniche come l’aeroporto di Malpensa,
portate a termine tra grandi trionfalismi e che si sono rivelate, dopo pochi
anni, del tutto fallimentari, un enorme spreco di risorse pubbliche in un Paese
in difficoltà che avrebbe bisogno di ospedali
efficienti, di manutenzione dell’intera rete dei trasporti, di conservazione
del territorio, minato dai continui dissesti idrogeologici dovuti all’incuria.
Occorre riflettere, dunque. Senza pregiudizi, senza
ricorrere a facili schemi, che non portano a nulla. Ed è doveroso indirizzare
un apprezzamento colmo di rispetto a chi combatte una battaglia forse vana –
non importa se giusta o sbagliata, non siamo in condizione di dirlo - in maniera pacifica, isolando i violenti e
rivendicando fino in fondo il diritto al dissenso, elemento sostanziale di una
democrazia sana e al quale non possiamo e non dobbiamo rinunciare.