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venerdì 11 marzo 2011

L'INGIUSTIZIA DELLA RIFORMA



Incerottato, con tono da trionfatore, il Grande Imputato annuncia l’approvazione della riforma costituzionale della giustizia. Tronfio, seduto alla sua sinistra, l’artefice principale della stessa: il ministro Alfano, il servo fedele, il probabile Delfino.
Un cambiamento definito epocale.
Per illustrare le nuove norme, il Primo Ministro si è servito di alcuni semplici disegnini, rispolverando così l’antica strategia da venditore porta a porta da quattro soldi.
Naturalmente, trattandosi di cambiamento della Costituzione, il cammino della sbandierata riforma è assai arduo; la strada, per arrivare al suo pieno compimento, è ancora assai lunga. Non disponendo, l’attuale maggioranza, di una ampia prevalenza numerica in Parlamento, sarà necessaria una doppia approvazione delle Camere, nonché inevitabile il referendum confermativo al termine del percorso. Un referendum che, per sua natura, non richiede un quorum e pertanto soggetto a esito del tutto imprevedibile.
L’opposizione ha prontamente alzato le barricate, e altrettanto negativo e duro è stato il giudizio dei magistrati.  
Le principali novità: la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, l’istituzione di un doppio CSM, l’obbligatorietà dell’azione penale soggetta all’indirizzo del Parlamento, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile diretta dei magistrati (e non più a carico dello Stato) in caso di dolo o colpa grave, l’utilizzo della polizia giudiziaria secondo modalità stabilite dalla legge e quindi sotto maggiore condizionamento politico.
Quel è il senso generale della riforma? Che cosa si propone di ottenere? In primo luogo si punta a vincolare e intimidire il potere giudiziario, limitandone così l’azione. Si tratta, insomma, di una riforma di casta, tutta a favore del ceto politico e del tutto irrilevante al fine di rispondere ai bisogni dei cittadini, che dovrebbero essere invece i veri fruitori del servizio giustizia.
Non a caso, nel corso della presentazione, al Primo Ministro è sfuggita la frase: “Se tale riforma fosse stata attuata vent’anni fa, non ci sarebbe stata Tangentopoli.” Se ne deduce che la corruzione del sistema dei partiti di allora non sarebbe stata perseguita. Parole tristi ed emblematiche.
Inoltre, è opportuno domandarsi se l’attuale classe politica sia o meno legittimata a mettere mano, in maniera così distruttiva, a una materia così delicata. Che titolo possiedono, i vari Berlusconi (quattro processi in corso), Verdini (plurindagato), Dell’Utri (condannato per mafia), per procedere alla riforma della giustizia?
In conclusione, a che cosa siamo di fronte? All’ennesimo capitolo della politica degli annunci? Un bluff per gettare fumo, creare confusione e distogliere in tal modo l’attenzione dai procedimenti pendenti a carico del Presidente del Consiglio?
In sostanza, la risposta è sì.  



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