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domenica 13 marzo 2011

LO SFIGATTO



Si trova di fronte un grosso gatto nero.
“Come ti chiami?” gli domanda.
L’altro lo guarda dall’alto in basso. Piega il muso.
“Nerone”.
“Il tuo padrone non ha molta fantasia.”
“Guarda che il colore del mio pelo non c’entra. Nerone è stato un grande imperatore. Così mi hanno detto.”
“Non hanno aggiunto altro?”
“Uh? Che cosa vuoi dire?”
“Nulla, lasciamo stare” dice il piccolo gatto rosso.
“E tu, invece? Come ti chiami?”
“Sai, il mio vero nome non me lo ricordo. Quello che avevo da cucciolo, intendo dire. Tutti mi chiamano Sfigatto.”
Nerone ridacchia divertito.
“Poveretto! Che brutto nome!” dice.
“Ci ho fatto l’abitudine.”
“Ascolta, Sfigatto. Che ne dici di andare a rubare il cibo di Bull?”
“Chi è Bull?”
“Ma dove vivi? Bull è quel grosso e stupido cane che vive in quella villetta, quella gialla proprio dietro l’angolo.”
“Quello che abbaia sempre alla luna?”
“Proprio lui!”
“A me fa schifo il cibo per cani” dice Sfigatto, disgustato al solo pensiero.
“Io invece lo adoro. Sei disposto almeno ad aiutarmi?”
“Certo. Che cosa devo fare?”
“Devi entrare di corsa nel cortile e spostare la ciotola di Bull fuori dalla sua portata. Sai, lui è incatenato. A quel punto entrerò in azione io e gli mangerò tutto il cibo proprio sotto agli occhi. Quel bestione sarà furioso ma non potrà fare nulla se non guardare.”
“D’accordo” dice Sfigatto con scarso entusiasmo.
Poi, con uno scatto improvviso, si lancia nel cortile della villetta. Nerone  lo segue, leccandosi i baffi e pregustando la scorpacciata.
Sfigatto irrompe davanti alla cuccia di Bull, che sta sonnecchiando. Aiutandosi con il muso, sposta di un metro la pesante ciotola ricolma di cibo rivoltante. E scappa.
Nerone si avvicina di soppiatto, a piccoli passi. E inizia a mangiare con ingordigia. Bull si sveglia. Il suo pelo si rizza per la rabbia. Senza abbaiare, dà un violento strattone alla catena, che si rompe. Nerone si avvede del pericolo con un attimo di ritardo e, con la bocca ancora piena, tenta di fuggire. Prima che il gattone nero riesca ad allontanarsi, le fauci di Bull si serrano sulla punta della sua coda, scorticandola. Il cane, sorpreso, si ferma e sputa i ciuffi di pelo. Nerone è salvo e raggiunge Sfigatto oltre la staccionata.
“La mia povera coda! Accidenti, che sfortuna!” si lamenta Nerone.
“Già, ce l’avevi quasi fatta.”
“Sfigatto, che ne dici di andare a topi?” propone Nerone, ancora affamato.
“Topi? I topi mi fanno paura.”
“Sei proprio uno smidollato! Con me non hai niente da temere. Vieni, conosco un buon posto.”
“Va bene” dice Sfigatto, poco convinto.
I due gatti, quello grosso e nero e quello piccolo e rosso, si dirigono verso le rovine di una vecchia casa.
“Lo vedi quel buco? È la tana di un topo. Sono giorni che lo tengo d’occhio e oggi non mi sfuggirà” dice Nerone.
“Sei sicuro?”
“Certamente. Tu dovrai attirarlo fuori, poi ci penserò io. Sai, tu sei piccoletto e quel dannato ratto cercherà di sicuro di aggredirti. È sempre molto affamato.”
“Ho paura” dice Sfigatto.
“Stai tranquillo, non scamperà ai miei artigli” annuncia solenne Nerone e nello stesso tempo sfodera i suoi unghioni affilati.
Sfigatto si rassicura e inizia a camminare, con aria indifferente, proprio davanti all’imbocco della tana.
Di colpo il grosso ratto si catapulta fuori dal buco. Sfigatto emette un miagolio disperato, balza verso l’alto e cerca di arrampicarsi sul muro. Nerone, pronto, entra in azione e si precipita sul topo. Quest’ultimo intravede una massa scura dirigersi verso di lui, si accorge della minaccia mortale, lascia perdere Sfigatto e si lancia verso il suo rifugio. Sfugge per miracolo agli acuminati rasoi di Nerone, il quale infila il muso nella tana e vi rimane incastrato. Dopo alcuni istanti, il gatto nero lancia un urlo angosciante. Poi si stacca e si dirige verso Sfigatto.
“Ahi! Quel demonio mi ha morsicato!” Il suo naso è gonfio e pulsante.
Sfigatto lo guarda con aria di compatimento.
“Ascolta, Nerone. La mia vera passione è la caccia agli uccelli. Perché non saliamo su quel tetto e…”
“No!” lo interrompe Nerone.
“Perché no?”
“Per oggi ne ho avuto abbastanza. Meno male che eri tu quello sfortunato!” dice, risentito.
“Non ho mai detto di essere sfortunato.”
“Uh? Ma… il tuo nome…”
“In realtà mi chiamano così perché porto sfiga agli altri.”
   


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