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venerdì 18 marzo 2011

SINDROME CINESE



Toshiro Kato appoggiò la bicicletta allo steccato. Si lisciò i radi capelli, ancora neri nonostante l’età, sgranchì le giunture di gambe e braccia e si diresse all’ingresso del parco. Sul suo viso minuto e rugoso era disegnato un sorriso soddisfatto.
Era l’inizio di aprile, ed erano le prime ore del mattino, quelle che lui preferiva, ma l’enorme oasi protetta era già affollata: anziani pensionati come lui, tante coppiette e numerose scolaresche provenienti da tutto il Giappone.
Nonostante la presenza di tutte quelle persone, l’atmosfera in quel luogo era del tutto particolare. La gente camminava lentamente tra gli ampi viali, i pochi che parlavano  lo facevano a bassa voce, sussurrando, e anche i bambini frenavano senza sforzo l’abituale e naturale esuberanza. L’insieme era certamente surreale. Il parco, nel suo complesso, sembrava un immenso tempio a cielo aperto.
Toshiro Kato si fermò a osservare, nel mezzo di un laghetto, i fiori di loto che si protendevano, con le corolle ancora aperte quasi del tutto, dai loro steli sottili e lunghissimi. Ma il vero spettacolo di quelle giornate di primavera era rappresentato dalle migliaia di sakura in fiore. I ciliegi, così rigogliosi, così gonfi di candide gemme appena sbocciate, perpetui simboli di un nuovo inizio, di una nuova rinascita. Una rifioritura che, pur tra grandi sacrifici ed enormi sofferenze, si era ormai concretizzata ovunque, nel Paese, e un significativo esempio era, in quel momento, proprio di fronte agli occhi del vecchio.
Il parco di Fukushima, l’enorme, infinita distesa verde e fiorita, era uno tra i più incantevoli dell’intero Giappone. Tuttavia, ogni volta che si trovava ad ammirare quella meraviglia, subentrava sempre nell’anziano Toshiro Kato un sentimento di amarezza, una sensazione di tristezza e di dolore che proveniva dal passato.
Perché lui sapeva come era nato quel paradiso. Ed era orgoglioso che suo nonno Akiro fosse stato, seppure in maniera inconsapevole, tra gli artefici di quell’opera monumentale. Suo nonno, uno dei tanti, troppi, eroi di Fukushima. All’epoca dell’incidente suo nonno era molto giovane, un ragazzo pieno di entusiasmo e di voglia di vivere. E di senso del dovere e spirito di sacrificio.
Il disastro,  la terribile sciagura che aveva devastato la centrale nucleare, aveva allarmato il mondo intero. Il suo popolo aveva reagito, come sempre di fronte a simili avvenimenti, con grande dignità e compostezza, ma quel comportamento non era stato sufficiente per rimediare in modo rapido alle tremende conseguenze di quella inaspettata catastrofe.
I reattori, colmi di tossico combustibile nucleare, erano impazziti, ed erano sfuggiti a ogni controllo. Per giorni si erano avvicendati, attorno a quei mostri imbizzarriti, piccole squadre  di volontari per tentare di raffreddarli, di ricondurli alla ragione. Tutto era stato inutile. Il livello delle radiazioni, invece di diminuire, era aumentato sempre più. Venefiche nubi, colme di particelle radianti, si innalzavano in quei giorni sciagurati dalle rovine contorte della centrale.
Intere città furono evacuate, e il panico si diffuse sempre più tra la popolazione. E si estesero, inesorabili, gli effetti della contaminazione, immediati e a lungo termine.
Toshiro Kato, pensando a ciò, osservò la sua mano destra, quella con sei dita. In fondo, rifletté, era stato fortunato. La sorte, così perfida con tante altre persone, con lui era stata invece magnanima. Aveva aggiunto, anziché privare. In quel momento ripensò alla bizzarra forma delle orecchie del suo vecchio amico Misho e ridacchiò tra sé. Ma subito la sua espressione ridivenne grave. E pensò al sarcofago. Perché alla fine si optò per quella soluzione, l’unica possibile.
Si decise di annegare l’incubo radioattivo in una immensa colata di cemento. Ma si doveva fare presto, il fattore tempo era fondamentale. Allora collaborarono tutte le nazioni del mondo. Era in gioco la sopravvivenza dell’intera umanità. Affluirono, con una incredibile rapidità, mezzi e risorse, furono impiegate le più moderne tecnologie. Mancavano però gli uomini disposti al sacrificio estremo, chi avrebbe dovuto immolarsi per la salvezza del genere umano.
I suoi compatrioti compresero subito che toccava a loro. Si formarono squadre di volontari suicidi, tutti giapponesi. I nuovi kamikaze. Tra loro c’era sua nonno. Il vento divino riprese così a soffiare, per una buona causa. Gli eroi portarono a termine la ciclopica impresa in un tempo incredibilmente breve. Pochi però ne videro la fine. Il sarcofago di calcestruzzo, dalle dimensioni di centinaia di piramidi, di decine di enormi dighe, fu finalmente posato e neutralizzò il venefico soffio atomico.
Toshiro Kato, che adesso si sentiva stanco, si sedette su una panchina. Un bambino, timoroso, gli porse un cenno di saluto. Lui ricambiò sorridendo. Notò con piacere che quel bambino aveva forme perfette. Come quasi tutti, ormai. Il vecchio tornò alle sue considerazioni, quelle di sempre.
Il sarcofago era troppo pesante e, poco alla volta, cominciò a sprofondare, portando con sé, nelle viscere della terra, il suo carico di morte e distruzione. La vecchia area su cui sorgeva la centrale nucleare, dopo alcuni anni, ridivenne utilizzabile. Il livello di radioattività era tornato a un livello normale. Si decise così di creare il parco, a duraturo ricordo di quei tragici eventi.
Toshiro Kato, a quel punto, si rifece la solita domanda. La stessa di ogni giorno. Quella che lo assillava e tormentava.
Quando, e in quale punto dell’altro emisfero sarebbe emerso quel mostro che, ne era più che convinto, da anni stava perforando la crosta terrestre?
A quel pensiero, a quell’interrogativo senza risposta, si portò le mani sugli occhi. E pianse.  


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