Spari in piazza, proprio
di fronte a Palazzo Chigi, mentre il nuovo governo si appresta a giurare poco
distante, al Quirinale. Immediato sdegno e pronta condanna da parte di tutta
l’opinione pubblica per il folle gesto. Enorme dispiacere e sincera solidarietà
nei confronti dei due militari colpiti, umili lavoratori, fedeli servitori
dello Stato. Con la politica in prima linea nell’esprimere tali sentimenti,
nell’assecondare l’indignazione dei cittadini, e nel cercare di esorcizzare la
propria pura. Quegli stessi cittadini, o almeno una gran parte di loro, che
quando si trovano tra i banchi del mercato oppure al bar manifestano un ben
diverso stato d’animo.
“Bisognerebbe buttare
una bomba su Montecitorio!” strilla l’operaio.
“Dovremmo linciarli
tutti!” schiamazza il pensionato.
“Sono dei ladri,
pensano soltanto alle loro tasche!” grida il disoccupato.
“Datemi un fucile che
vado a farli fuori!” minaccia lo studente.
“Sono tutti uguali, dei
veri infami!” urla la casalinga.
Chi strepita queste
invettive naturalmente non da mai seguito agli insani propositi. La sera torna
a casa, cucina o mangia, poi lava i piatti e stira o si sdraia sul divano,
davanti all’ipnotico schermo, e subito si addormenta, perché la stanchezza è
tanta, la vita di tutti i giorni faticosa. Qualcuno di loro sogna, e in sogno,
a volte, ci si può anche trasformare in un eroe.
Avrei preferito che ci fosse il sole e più confusione, più
rumore.
E invece il cielo è grigio e nuvoloso. Quando c’è il sole tutto appare
più nitido, più netto. Ci sono le ombre, e ci si sente meno soli. Tutto quanto
ci circonda è più limpido e chiaro: la strada, le automobili, gli alberi e i
palazzi. All’opposto, quando tutto è avvolto da questa cappa calda e umida, anche
lo sguardo si appanna e si sdoppia. Sì, fa caldo, molto caldo. Eppure mi
stringo nel mio giubbotto nero, le mani in tasca, e ho l’impressione che il mio
corpo sia percorso da brividi. Un tremore provocato dall’ansia e dall’agitazione
che tentano di impadronirsi di me e che mi sforzo di combattere. Mi siedo su
una panchina, chiudo gli occhi e provo a rilassarmi. Poco per volta ci riesco e
ritrovo la necessaria compostezza. Intorno a me non c’è nessuno.
Perché il silenzio poco ha da spartire con quello che devo
fare.
Non lo posso negare, avrei voluto essere immerso nel disordine piuttosto che
essere avvolto dalla quiete. Intendiamoci, io amo il silenzio. Non mi ha mai
fatto paura. Per me è segno inequivocabile di pace e serenità. Ho trascorso la
vita a inseguire la tranquillità. Oggi, tuttavia, questa atmosfera calma, priva
di rumori, senza alcun disturbo, mi sembra stonata, per nulla in sintonia
rispetto a quanto mi accingo a compiere. Per una volta, una volta soltanto, mi
sarebbe piaciuto fondermi nel frastuono per evitare di pensare troppo e
scongiurare così ripensamenti che comunque non ci saranno. Ne sono sicuro.
Da qualche parte suona una campana, il mio momento si
avvicina. La
chiesa si trova alle spalle della piazzetta in cui mi trovo. Si tratta di un
bell’edificio, che ho visitato a più riprese. Ne ho percorso il sagrato, ne ho
ammirato le eleganti navate. Ho osservato con attenzione i preziosi affreschi.
Intendevo fissare bene nella memoria ciò che lui ha visto tante volte; tutti
quelle peculiarità alle quali, probabilmente, non presta più attenzione da
tempo. La chiesa, quella sua chiesa che oggi sarà mia complice. Con il richiamo
di quella campana al quale è impossibile resistere. Una voce sorda e
ammaliante, per me il segnale che l’istante decisivo è davvero arrivato. Mi
alzo in piedi, indosso gli occhiali scuri. Le mani sempre affondate nelle
tasche. La destra si contrae, si avvolge e si modella attorno a un freddo
strumento di morte.
Tra due minuti si aprirà il portone e avrò la mia
occasione.
Le occasioni non capitano a caso, bisogna crearle. E io l’ho fatto, con
pazienza e grande perseveranza. Non ho trascurato nulla. Ho studiato, ho condotto
lunghi e tediosi appostamenti, ho memorizzato ogni minimo particolare. Adesso
sono pronto. Nulla, nella mia azione, è improvvisato. Non sono uno squilibrato,
non sono un disperato come chi, l’altro giorno, ha sparato ai quei due poveri
carabinieri. Non sono mai stato così lucido e determinato. Sono consapevole che
questa opportunità sia irripetibile. Insomma, non posso fallire e non fallirò.
Mi avvicino con noncuranza al portone, che oggi, come tutte le domeniche, non è
sorvegliato. Niente scorta in attesa, nessuna auto blindata con il motore acceso.
E tu di certo non sospetti niente, sarai tranquillo e
strafottente.
E arrogante, come sempre. Non è mai stata mia intenzione compiere una strage,
colpire persone innocenti. No, io ho individuato quello che ritengo essere uno
dei colpevoli, il principale, e mi accanirò soltanto su di lui. Perché odio il
suo sorriso falso, la sua superbia e la sua prepotenza. La sua proverbiale
sfrontatezza. Le sue promesse vane. Applicherò la mia personale giustizia,
senza alcuna esitazione. Lo so che la giustizia possiede molte facce, e finora
ho sempre accettato quel suo elemento preponderante, quell’equità ammantata di
diritti che non è mai vendetta. Ora non più. La mia sarà una punizione
immediata, sarà rappresaglia senza appello. Sapere che lui non sospetta nulla è
la principale delle mie soddisfazioni, è ciò che più alimenta il mio
compiacimento.
Tu non puoi certo immaginare che è l’ora di pagare. Ho dovuto scegliere
freddamente il mio bersaglio, e l’ho fatto. Perché proprio lui e non un altro?
Non lo so, non mi sono mai posto questa domanda, non posso certo farlo adesso,
quando è giunto il momento di agire, non più di pensare. In ogni caso, sarà la
stessa domanda che si porrà lui, se avrà il tempo di farlo. Il suo sguardo
attonito e sorpreso rappresenterà per me qualcosa di impagabile. Chissà se si
renderà conto che la sua ora è venuta. Per me non sarà più tempo di ulteriori
riflessioni, dovrò limitarmi a eseguire la sentenza.
Ti aspetto qua perché te l’ho giurato, tu sei lo sporco che
va lavato (le lacrime si sono fatte mare, ti toccherà annegare).
Ormai, per me, lui non
è altro che un grumo di fango. Rappresenta tutta la lordura del mondo. Non mi
importa se sotto quella melma rappresa e indurita c’è un fragile corpo di carne
e sangue. Trafiggerò quell’involucro freddo e lurido come ho deciso di fare, e ne
spargerò i miseri resti sul selciato rovente. Quando lui non sarà altro che un
povero essere inanimato, ed io lontano, forse ritroverà parte della sua umanità
perduta. O forse no, perché la morte, nella sua pietà, annulla ciò che è stato
ma non può riparare i torti compiuti, le nefandezze portate con sfregio a chi è
più debole, a chi vive di speranza.
E voi, nascosti dietro alle finestre, farò io quello che
voi vorreste. Vi mostrerò che cosa si può fare invece di strisciare.
Non vi vedo, anche se
so che voi scorgete me. Nelle vostre case infuocate, qui sulla piazzetta e
ovunque, scostate le tendine di pizzo e incollate il naso al vetro. Sgranate
gli occhi. So che vorreste incitarmi, dirmi che state dalla mia parte, ma non
avete il coraggio di farlo. Avete compreso bene ciò che mi accingo a compiere,
lo approvate, anche se non osate esprimerlo a voce alta. Avete paura, avete
paura persino di voi stessi. Vi capisco. È difficile sollevare il capo quando
per tanto tempo si è stati schiacciati. O servili per convenienza. Avrete la
vostra piccola rivincita. Esulterete, anche se non lo ammetterete mai. Non so
se quanto farò potrà servire per far sì che non vi nascondiate più. In fondo
non mi importa.
Così domani sui giornali leggerete che un bandito ha preso
a calci l’ordine costituito. E parleranno i corvi, i topi e gli sciacalli e voi
lì… ad ascoltarli.
La vostra contentezza sarà di breve durata. Non avrete né il tempo né il modo
di manifestarla. L’informazione al servizio del potere tapperà subito le vostre
pavide bocche. Vi unirete ai cori di esecrazione e di ripugnanza per quanto è
stato compiuto. Approverete tutto e l’attimo di intima ribellione che avete provato
rimarrà soltanto uno sbiadito ricordo che tenterete di non fare affiorare mai
più. Non ci sarà alcuna benevolenza nei confronti del delinquente, del pazzo
che ha avuto la presunzione di farsi giustizia da sé, che non ha osservato le
regole proprio perché la sua mente di sicuro è alterata. Scuoterete il capo,
sconsolati per tale livello di violenza. Apparirete sinceramente increduli e
sconcertati. Condannerete.
Poi ritorno al presente e ti riesco a sentire. Ci siamo, lo
so che stai per uscire. Respiro profondo, mi metto tranquillo, si apre il portone…
do inizio al ballo! È
incredibile quanto possano essere infiniti pochi minuti. Il ritorno alla realtà
è, al contrario, immediato. Soltanto il portone di legno e vetro mi separa da
lui. Lo sento armeggiare con le chiavi. Poi, gli scatti secchi della serratura.
Indietreggio di un passo, butto fuori tutta l’aria dai polmoni, poi inspiro.
Assaporo una fragranza di fiori estivi. La porta finalmente si schiude
completamente, vedo ben chiara la sua figura. Tolgo la mano dalla tasca e
prendo la mira.
E che nessuno si permetta di chiamarmi eroe. L’ho fatto per
motivi solamente miei. Sono troppo diverso dai vostri eroi. L’ho fatto per me,
non per voi. E non si tratta di coraggio e neanche di paura, il fatto è che qui
si è passata la misura. Son troppo diverso dai vostri eroi, l’ho fatto per me,
non per voi. L’ho fatto perché non l’avreste fatto voi.
“Ehi! Svegliati! Ti sei
addormentato sul divano! Che facevi? Stavi sognando?” dice la donna.
L’uomo si riscuote dal
torpore. Si guarda il braccio destro, ancora rigido, proteso, ma nella mano non stringe
nessuna pistola. Abbassa gli occhi, imbarazzato. Sua moglie si allontana
brontolando, lui si infila le pantofole e si dirige verso la stanza da bagno.
(*) I versi in corsivo sono tratti dalla
canzone “L’eroe” dei Mercanti di Liquore, alla quale il racconto è liberamente
ispirato.
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