È il 12 settembre 1973.
Il giovane Salvo, dopo la lunga camminata, torna a casa. Attraversa il cortile
dal fondo dissestato e ingombro di macerie: sacchi di cemento vuoti, travi di
legno, tondini di ferro, mucchi di sabbia e ghiaia. Entra nell’abitazione. Sua
madre e sua sorella sono in cucina, affaccendate.
“Finalmente!” esclama
la donna, che ha le mani imbiancate di farina.
“Me la sono fatta tutta
a piedi!”
“Da dove?”
“Con Cataldo siamo
andati alla scuola. Abbiamo controllato gli orari e poi siamo passati in
cartoleria a ordinare i libri.”
“Ce ne sono molti da
comprare?” chiede la madre, allarmata.
“Non preoccuparti, ne
ho prenotati soltanto due. Quelli che mancano me li procurerò usati. Sono già
d’accordo con un ragazzo di seconda.”
“Guarda che se proprio
c’è bisogno…” aggiunge la donna.
“Mamma! Tranquilla!
Piuttosto, quando si pranza?” domanda Salvo.
“Quando sarà pronto!”
sbotta Rosetta, la sorella.
“Scusa! Dobbiamo
aspettare papà?”
“Sì. Un momento… mi
sembra che stia arrivando proprio adesso.”
Dall’esterno si sente
il rumore scoppiettante di una motoretta. Dopo alcuni istanti fa il suo
ingresso in cucina l’imponente figura di Pettenuzzo padre. E subito l’ambiente
appare più ristretto. L’uomo indossa ancora gli abiti da lavoro. Sul viso bruno
e serio spicca una macchia di grasso, proprio sotto l’occhio destro. Non
saluta, si limita a squadrare con sguardo severo moglie e figli.
“Mi do una sciacquata e
poi sono pronto” dice con voce tonante. Posa a terra la logora borsa. La moglie
annuisce.
Salvo lancia
un’occhiata alla sporta.
“Posso prendere il
giornale?” domanda, ossequioso.
Il padre esprime parere
favorevole alla richiesta con un grugnito stanco. Il figlio apre le cinghie in
cuoio della borsa e sfila “l’Unità”. Poi si allontana in direzione dell’ampio
ingresso, un corridoio dal pavimento di marmo sul quale si affacciano le varie
stanze. Si stende a terra. Come tutti i giorni, sta per iniziare a sfogliare il
quotidiano al contrario, partendo dal fondo, dalle notizie sportive. Ma la sua
attenzione questa volta è attirata da un titolo in prima pagina, scritto in
caratteri cubitali: COLPO DI STATO IN
CILE – ALLENDE DEPOSTO DAI MILITARI SI E’ UCCISO DOPO UNA VANA RESISTENZA. Un
brivido freddo, che nasce dal fondo della schiena, gli percorre tutto il corpo.
Inizia a leggere, con frenesia. Assediato dai golpisti, (che significato ha questo
termine? Si ripromette di cercarlo sul vocabolario subito dopo pranzo) il
presidente cileno ha preferito suicidarsi, dopo aver guidato un’eroica
opposizione. Si è sparato con un mitra, un AK-47 dono dell’amico Fidel Castro.
Da solo, nel suo studio, dopo aver convinto i suoi collaboratori ad arrendersi,
per salvare le loro vite. Il palazzo presidenziale, la Moneda, è stato
addirittura bombardato dall’aviazione. Si è incendiato.
L’angoscia di Salvo
aumenta. Scorre altri articoli sullo stesso argomento. Apprende che quello è
solo il tragico epilogo di una situazione di crisi che aveva investito il paese
sudamericano da anni, da quando Allende era diventato presidente. Il primo
presidente socialista. Socialisti e comunisti sono la stessa cosa? Dovrà farsi
forza e domandarlo a suo padre. Lui è comunista, dice. Il ragazzo vuole capire.
Ora, subito. Perché finora è stato così cieco?
“Salvo, vieni a
tavola!” grida Rosetta dalla cucina.
“Arrivo subito!”
risponde il ragazzo, che tuttavia non riesce a staccare gli occhi da quelle
pagine che odorano d’inchiostro e che macchiano le dita di nero. Guarda le fotografie.
Quella grande, molto sgranata, raffigura il tetto del palazzo presidenziale in
fiamme. Sulla destra, racchiusa in un piccolo riquadro, c’è invece l’immagine
di Salvador Allende: il suo volto sorridente, la sua espressione bonaria. Salvador.
Nota che il Presidente porta il suo stesso nome, e per un attimo è compiaciuto
da quella scoperta. Poi si rende conto che quell’uomo dagli occhi buoni è morto.
Ed è morto inseguendo sogni di democrazia e libertà. Salvo, invaso adesso da un
grande senso di tristezza, volta la pagina. E lo vede. Il suo cuore ha un
sussulto. Capisce subito che è lui. Si tratta di un militare, in divisa scura.
Indossa occhiali dalle lenti nere e ha dei baffi sottili e ben curati. La sua
posa è impettita. Il ragazzo comprende di avere di fronte, effigiata in quella
fotografia dai toni grigi, la rappresentazione non solo di tutte le
ingiustizie, ma di tutto il male del mondo. E ne è sconvolto.
“Mannaia! Sbrigati che
si raffredda tutto!” Suo padre, la voce adirata.
Salvo non riesce
neppure a rispondere. In quel momento si sente confuso e smarrito. Avvicina gli occhi a quella tremenda immagine.
Legge la didascalia. Vi compaiono soltanto un nome e un cognome: Augusto
Pinochet.
(tratto dal romanzo: "Oltre il ponte" - 2010)
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