“Ci sarà pure un
giudice a Berlino…”
No, stavolta non è
stato il mugnaio di Potsdam a pronunciare queste parole. È stato Silvio Berlusconi.
Un’invocazione tanto accorata quanto falsa proferita in occasione della
sentenza di condanna (in Appello) pronunciata nei suoi confronti dal Tribunale
di Milano. E non sarà l’ultima, perché la persecuzione della Magistratura continuerà
fino alla distruzione politica e personale del Grande Imprenditore, del Grande
Statista, del Grande Benefattore. O del Grande Bugiardo e Corruttore. Si sa, è
questione di punti di vista.
In ogni caso, la
reazione di Berlusconi alla riconferma del verdetto di condanna è stata pacata,
contenuta nei toni, proprio ciò che ci si aspettava da chi, negli ultimi tempi,
aveva richiamato tutti al senso di responsabilità, aveva auspicato la
pacificazione sociale in nome del bene supremo del Paese.
Tale stato di calma
naturalmente si è protratto per un paio di giorni soltanto. Poi si è deciso,
come sempre, di passare al contrattacco. È stata indetta una manifestazione di
piazza, a Brescia, per protestare con forza contro le prepotenze e le
vessazioni del potere giudiziario e per ribadire la preponderanza del ruolo del
PDL nel neonato governo Letta. Berlusconi ha paragonato il suo caso giudiziario
a quello di Enzo Tortora, suscitando sdegno e disgusto, ha invocato le “sue”
riforme: quella della giustizia (separazione delle carriere e responsabilità
penale dei magistrati), l’elezione diretta del Capo dello Stato, e le altre
solite amenità…
In piazza, a Brescia,
ci sono state contestazioni, alcuni tafferugli. Molti esponenti del PDL sono
stati scortati dai carabinieri nel loro percorso dall’albergo che li ospitava
al vicino palco. L’ineffabile Berlusconi e i suoi accoliti non si sono
scomposti più di tanti, lo show è comunque proseguito, le grida di risentimento
dei contestatori sono state ignorate e gli stessi, da parte di qualcuno, sono
stati pure irrisi (la solita gentaglia dei centri sociali, quelli che non hanno
voglia di lavorare…)
Alla manifestazione
contro uno dei poteri dello Stato (quello giudiziario) hanno preso parte
esponenti delle istituzioni: il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri
nonché ministro dell’Interno Angelino Alfano e un paio di altri ministri del governo
Letta. Si tratta di qualcosa di inqualificabile, che avrebbe meritato una
diversa reazione da parte di alcuni soggetti politici. Invece abbiamo assistito
all’assordante silenzio del Presidente della Repubblica, al tentativo
malriuscito di minimizzare il fatto da parte di Enrico Letta, all’evidente
imbarazzo (e vergogna?) del Partito Democratico che proprio poche ore prima
aveva eletto Guglielmo Epifani quale segretario-reggente.
Ecco, forse si dovrebbe
proprio ripartire da questo disagio del PD. E ci si dovrebbe porre una domanda,
preceduta da una breve premessa. È vero, l’esito del voto non lasciava
alternative se non il quasi immediato nuovo ricorso alle urne, ed altrettanto è vero che il
Paese aveva urgente bisogno di un governo. Ma aveva davvero necessità di questo governo? Che si regge sull’accordo
(connivente? complice?) con un pluri-indagato, un pluri-imputato, un
condannato? E con tutto ciò che ne consegue? Era proprio indispensabile vendere
l’anima al Diavolo?
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