Scendo le scale lentamente e guardo le pareti, cerco di
distinguere nelle crepe dell’intonaco le familiari figure del leone, del
delfino e della giraffa. Ma oggi non riesco a scorgerle. Vedo al loro poste
altre sagome, che mi mettono i brividi. Lassù un aereo da combattimento, più in
basso un carro armato. E qui, proprio vicino alla mia spalla, la forma
allungata di un missile. Sopraffatto da un pesante senso di inquietudine
distolgo lo sguardo, accelero il passo ed esco in strada. Ma il marciapiede non
c’è, e non c’è nient’altro. Non ci sono gli alti palazzi, e neppure automobili,
né i soliti passanti frettolosi del primo mattino. C’è soltanto sabbia, tutto
intorno a me. E silenzio, un angosciante silenzio. I miei piedi affondano fino
al polpaccio, i miei occhi sono abbagliati da una luce intensa, quasi bianca.
Provo a spostarmi, ad andare verso il mare, ma le mie gambe sono ormai bloccate
in una morsa di fine polvere dorata. Mi volto, in preda al terrore, e vedo che
anche la mia casa non c’è più. Dove prima sorgeva l’edificio, adesso c’è
soltanto sabbia. Una immensa distesa di polvere che sembra non avere fine. Poi…
Il risveglio fu brusco.
Abraham attese che il cuore in tumulto smettesse di martellargli il petto, poi
scostò la coperta e si alzò. Nella stanza faceva freddo, e rabbrividì. Niente
doccia, decise. Andò in bagno, si sciacquò il viso e si rasò con cura. Quindi
si vestì. Mentre ispezionava la borsa per verificare che tutti i documenti
fossero al loro posto squillò il telefono. Con un po’ di apprensione raggiunse
l’apparecchio, posto nel piccolo ingresso dell’appartamento, e sollevò la
cornetta.
Ascoltò a lungo, senza
parlare.
“D’accordo, ho capito.
È tutto chiaro” disse infine, prima di riattaccare. Poi si sedette. Dopo alcuni
minuti tornò nella stanza da letto, si tolse l’abito e indossò dei jeans e una
maglietta. Quel giorno non sarebbe andato al lavoro, e neppure in quelli
successivi. Si spostò in cucina, scaldò del latte al quale aggiunse una
manciata di corn-flakes. Travasò il tutto in una tazza e mangiò camminando.
Fumò due sigarette, una dietro l’altra, quindi consultò l’orologio e decise che
poteva chiamare in ufficio. Il suo collega Amos di sicuro era già sistemato
dietro la scrivania. Era sempre il primo ad arrivare. E infatti rispose subito,
già dopo il primo squillo.
Abraham gli fornì una
succinta spiegazione, lo pregò di occuparsi di una pratica che stava seguendo e
alla quale teneva molto.
“Non ti preoccupare, ci
penso io” lo rassicurò il collega e amico.
“Grazie, Amos.”
“Comunque me lo
sentivo” aggiunse l’altro.
“Eh? Che cosa?” domandò
Abraham.
“Che ti avrebbero
chiamato. Non possono proprio fare a meno di te.”
“Non dire sciocchezze.
Poteva accadere oppure no. Be’… è capitato.”
Amos sogghignò.
“Già! Il fatto è che a
te capita sempre!” esclamò, divertito.
“Guarda che prima o poi
potrebbe toccare anche a te.”
“Figurati! Con il mio
piede! E poi, se proprio così fosse, vorrebbe dire che il nostro paese si
troverebbe in una condizione di grave pericolo. Che sarebbe la sua fine,
insomma.”
“Quante stronzate dici!
Ti saluto, mio caro.”
“D’accordo. Mi
raccomando, appena puoi fatti sentire.”
“Va bene, prima o poi
lo farò.”
Abraham pose così
termine alla conversazione. Si sentiva nervoso, eccitato, non riusciva a stare
fermo. Fumò con ingordigia altre due sigarette. Dal momento che disponeva di un
intero giorno libero decise di fare una passeggiata, per calmare un po’ i
nervi, per tentare di rilassarsi. Il camminare a lungo, senza una meta precisa,
tra le strade trafficate della sua città, rappresentava per lui sempre un
ottimo sistema per allentare la tensione. E in quel momento ne sentiva proprio
la necessità.
Prima di uscire,
tuttavia, ritornò nella stanza da letto e aprì l’armadio. Il suo sguardo si
fissò sulla divisa militare. Era lavata e stirata, in perfetto ordine. L’aveva
indossata per l’ultima volta soltanto qualche mese prima, quando aveva preso
parte a un’esercitazione, una delle tante. In basso c’era il grosso zaino,
fabbricato con robusto tessuto mimetico. Controllò con cura anche quello. Tutto
a posto. Soddisfatto, richiuse l’armadio e si diresse verso il ripostiglio. In
un angolo scorse la sagoma minacciosa ma a suo modo rassicurante del fucile
d’assalto M4 dal quale proveniva un pungente odore di olio lubrificante, e le
cui esalazioni avevano del tutto impregnato il minuscolo ambiente.
Rassicurato, Abraham afferrò
un pesante giubbotto e le chiavi di casa e finalmente si apprestò a lasciare
l’appartamento. Proprio allora squillò di nuovo il telefono. Sbuffando, il
ragazzo tornò sui suoi passi e si avvicinò all’apparecchio. Prima di rispondere
guardò il display. Era sua madre. Quella donna apprensiva, come tutte le madri
ebree d’altronde, trascorreva l’intera giornata di fronte al televisore a
sorbirsi un notiziario dopo l’altro. Di sicuro era molto preoccupata, e il suo
istinto le aveva suggerito di fare quella chiamata al figlio. Lui però non
sollevò il microfono. L’avrebbe cercata l’indomani, decise, appena fosse giunto
in caserma.
Abraham chiuse l’uscio
dietro sé e si fiondò giù per le scale, di corsa, senza degnare di una sola
occhiata le pareti che scorrevano veloci ai suoi lati, come invece faceva ogni
giorno. Il ricordo del brutto sogno era ancora troppo vivido nella sua mente, e
non era proprio il caso di ravvivarlo. Uscì in strada e iniziò a camminare, con
le mani in tasca, fischiettando il ritornello di un motivetto arabo che le
radio trasmettevano in continuazione. Stava percorrendo Ben Yehuda Street, con
il mare alla sua sinistra, quando udì le sirene. Si bloccò. Intorno a lui, la
gente iniziò a correre. Qualcuno gridava, altri si scambiavano sguardi carichi
di angoscia e di incredulità. Il suono lancinante dell’allarme penetrava i
timpani, accresceva la paura delle persone. Una ragazza si lanciò su di lui,
che era rimasto fermo sul marciapiede. Lo abbracciò, in preda a un
incontrollabile terrore. I suoi occhi erano spalancati, e tremava. Abraham, non
sapendo che cosa fare, la strinse a sé, nel tentativo di calmarla. Sentì le
unghie della giovane sulla sua schiena attraverso la stoffa del giubbotto. E di
nuovo l’ululato delle sirene, sempre più forte. Si staccò dalla ragazza, che lo
guardò senza dire una parola, la prese per mano e la costrinse a correre.
“Vieni con me” disse il
ragazzo. Lei ubbidì, arrendevole.
Giunsero in prossimità
dell’Hahovevim Garden e, sempre tenendosi per mano entrarono nel parco, dove si
era già rifugiata altra gente.
“I rifugi, saranno
aperti i rifugi?” domandò un pallido quarantenne prima di raggomitolarsi
accanto a un grosso cespuglio.
Abraham costrinse la
ragazza a gettarsi a terra, poi si adagiò su di lei, allo scopo di proteggerla
con il proprio corpo. Seguì un lungo, interminabile istante di silenzio quasi
assoluto prima che si percepisse un acuto sibilo, e subito dopo ci fu una
violenta deflagrazione.
“Un missile” disse
Abraham, rivolgendosi quasi a se stesso.
E poi un altro scoppio,
più soffocato, più lontano.
“Questo è finito in
mare” aggiunse il ragazzo.
Ancora le sirene, ma
questa volta il suono era diverso. Cessato allarme, dicevano.
I due giovani si
rialzarono. I loro abiti si erano sporcati, perché l’erba era umida, ma loro
non vi badarono. Adesso che era ritornata la calma, Abraham osservò con
attenzione la sua occasionale compagna. Notò che la ragazza era molto giovane,
e piuttosto graziosa. Aveva i capelli neri e corti, tagliati a caschetto. La
pelle del suo viso era bruna, così come i suoi occhi.
“Mi chiamo Abraham”
disse, rivolto a lei.
“E io sono Leah. Ti
chiedo scusa per il mio comportamento di poco fa, ma avevo davvero paura”
rispose la ragazza. La sua espressione non esprimeva più sorpresa e timore,
come qualche istante prima, bensì crescente indignazione.
“Nessun problema, ormai
è tutto finito. Per ora, almeno.”
“Hanno attaccato Tel
Aviv! Incredibile!”
“Non è la prima volta, e
temo non sarà neppure l’ultima.”
“Vuoi dire che era già
accaduto?” domandò Leah.
“Certo, non ti ricordi?
No, in effetti non puoi ricordare, perché di sicuro non eri ancora nata. È successo
più di vent’anni fa, io ero un ragazzino ma ne conservo chiara memoria. Fu quella
volta quando aiutai i miei genitori a rivestire i vetri delle finestre con il
nastro adesivo. Per me si trattò quasi di un divertimento. I continui allarmi
non mi facevano paura. Sai, era come una specie di gioco. L’unica cosa che
davvero mi inquietava era la maschera antigas, che i miei mi costringevano
sempre a indossare, anche quando non esisteva un reale bisogno. Mi sembrava di
vivere in mezzo a tanti grossi insetti, e provavo un senso di soffocamento che
mi atterriva. Non vedevo l’ora di toglierla e di tornare a respirare
normalmente.”
“I missili Scud!”
esclamò Leah.
Abraham sorrise.
“Già, proprio loro. E
avevo pure molta paura di quel pazzo di Saddam Hussein. A tutte le ore della
giornata il suo faccione feroce, con quei grossi baffi neri, compariva in
televisione. Non guardavo più i miei programmi preferiti, nel timore che all’improvviso
sullo schermo spuntasse lui.”
“È per questo che prima
non hai perso il sangue freddo?” domandò la ragazza.
“Può essere, ma anche
per altre vicende che ho vissuto. Sono stato in Libano, qualche anno fa.”
“In guerra?”
“Sì.”
“Allora sei un
militare?”
“In verità sono un
impiegato di banca, però faccio parte della riserva, come sottufficiale.”
“Ah!”
Abraham distolse le
sguardo dagli occhi scuri e penetranti di Leah. Lo diresse verso il cielo, che
era grigio.
“Sai, sono stato
richiamato proprio oggi. Domani parto.”
“No!”
“E invece sì! Qualcuno
lo dovrà pur difendere questo disgraziato paese, no?” disse il ragazzo, quasi
divertito.
Lei annuì, seria.
“Ehi! Che ne dici se
andassimo a prendere un caffè? Credo che ne abbiamo entrambi bisogno” propose
Abraham.
“Tutti i locali saranno
chiusi!”
“Stai scherzando? Il
nostro popolo non si abbatte di certo per un paio di missili!”
“Dici?”
“Su, vieni” disse lui,
riprendendola per mano.
Camminarono per un paio
di isolati, poi entrarono in un caffè, che naturalmente era aperto. Come
previsto da Abraham, la vita aveva già ripreso a scorrere in modo regolare per
gli abitanti di Tel Aviv. Le strade erano tornate a riempirsi di frettolosi
passanti, il traffico era di nuovo intenso.
I due giovani presero
posto a un minuscolo tavolo situato in un angolo del locale. Dalla parte
opposta un vecchio, che indossava una kippah bianca e azzurra, era intento a
intrattenere altri anziani, semplici e remissivi assentitori, urlando invettive.
“Quelli ci vogliono
annientare! Distruggere! Se avessi vent’anni avrei già imbracciato il fucile. E
invece i nostri giovani se stanno qui tranquilli, e pensano soltanto a bere e a
fottere!”
Le ultime parole erano
state pronunciate volgendo lo sguardo proprio in direzione di Abraham e Leah.
Il ragazzo fu lì per reagire. Lei gli appoggiò una mano sull’avambraccio, e
questo fu sufficiente a calmarlo.
“Sai che cosa diceva
mio nonno?” domandò Abraham.
Lei scosse il capo.
“Diceva che a
Gerusalemme si prega, ad Haifa si lavora e che a Tel Aviv ci si diverte. Pare
sia un luogo comune piuttosto diffuso, il fatto è che da domani io non mi
divertirò affatto…”
“Lascia perdere,
Abraham. Quel vecchio è pieno di rabbia.”
“O di paura?” rispose
il ragazzo, mentre un giovane cameriere portava loro i caffè.
Mentre sorseggiavano la
bevanda, Abraham raccontò a Leah il sogno che aveva fatto e che lo aveva tanto
turbato.
“Quale sarà il suo significato,
secondo te?”
Lei si strinse nelle
spalle, e sembrò ancora più minuta di quanto fosse.
“Non lo so. In ogni
caso è soltanto un sogno” rispose.
“Potrebbe essere una
sorta di premonizione? Qualcosa che ha a che fare con la guerra?” chiese lui.
Leah lo guardò, un po’
stranita.
“Scusa, di quale guerra
stai parlando?” domandò.
“Ehi! Non ti ricordi
più? Domani dovrò presentarmi…”
Lei lo interruppe.
“Tu sei un militare, o
quasi, quindi correggimi se sbaglio. Le guerre non consistono in due eserciti
che si fronteggiano? Dov’è l’esercito nemico? Contro chi combattiamo, insomma?”
“Aspetta…”
“Rispondi alla mia
domanda, per favore.”
“Hai ragione, spesso ci
tocca combattere contro dei fantasmi. E le vittime, dalla loro parte, sono
quasi sempre degli innocenti. Non del tutto incolpevoli, perché l’odio nei
nostri confronti è notevole, ma pur sempre innocenti.”
“Soprattutto i bambini…”
“Già” ammise Abraham. “In
ogni caso Tsahal fa di tutto per limitare i danni… collaterali. Tra i civili,
cioè…”
“Tsahal!” esclamò Leah,
in tono quasi sprezzante. “Tsahal è come un elefante che si muove in una cristalleria!
Appena si sposta provoca disastri.”
“Hai ragione, tuttavia
non scordarti che anche il più grosso degli elefanti può essere abbattuto da un
pugno di cacciatori.”
“Abraham…”
“Uh?”
“Ti chiedo scusa…”
“Per quale motivo?”
“Mezz’ora fa ero una
ragazzina tremante mentre adesso sto sputando sentenze, e scordo che domani tu
andrai in guerra…”
“In gran parte la penso
come te, ma non ho scelta. Se cediamo per noi è finita, se ci difendiamo quasi
l’intero mondo ci bollerà come assassini. Purtroppo non ci possiamo permettere
mezze misure, dobbiamo dimostrare a tutti, ma soprattutto a noi stessi, che
siamo forti, molto forti, e che non abbiamo alcuna paura. E lo dobbiamo fare di
continuo. Questa è la nostra dannazione, è quello che siamo costretti a
sopportare in cambio della nostra esistenza.”
“Avrà mai fine tutto
questo?” chiese Leah.
“Vuoi davvero la mia
opinione? Desideri che sia sincero fino in fondo? No, tutto ciò non finirà mai!
L’odio troverà sempre il suo alimento, e questa folle guerra che, come dici tu,
vera guerra non è, sarà proseguita dai nostri figli, e poi dai figli dei nostri
figli…”
Leah chinò il capo,
affranta. Quindi prese un tovagliolo di carta, sul quale annotò il proprio
numero di telefono, prima di darlo ad Abraham.
“Quando tornerai, se
vuoi chiamami” disse con un filo di voce, gli occhi lucidi.
“Lo farò, Leah. Lo farò”
rispose il ragazzo.
Poi i due giovani si
alzarono e uscirono dal locale. Si salutarono con una stretta di mano e ognuno
riprese la sua strada. Il vecchio con la kippah bianca e azzurra stava ancora
gridando, sempre più infervorato.
…poi vedo in cielo una palla di fuoco che si ingrandisce
sempre di più, fino a diventare enorme, smisurata, e che corre impazzita contro
di me…