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sabato 28 gennaio 2012

SFIGATI



Nei giorni scorsi ha suscitato clamore (e provocato cori di indignazione e protesta da parte degli studenti) l’affermazione del vice-ministro Martone secondo la quale “i giovani che conseguono la laurea dopo i 28 anni sono degli sfigati”. Dove con l’espressione sfigati, naturalmente, si intende meschini, tapini, poveretti.
Dal punto di vista del politicamente corretto una dichiarazione di tale tenore può essere considerata senza dubbio infelice, oltre che inopportuna, provenendo tra l’altro da un uomo delle istituzioni che le criticità le dovrebbe affrontare e risolvere. Martone, nei giorni successivi, si è comunque premurato di precisare che il suo appunto era rivolto esclusivamente a quei giovani che si dedicano allo studio a tempo pieno, e non agli studenti che affiancano tale attività a un’esperienza lavorativa.
Tuttavia la provocazione  - poiché di ciò si tratta – del giovane e rampante (e raccomandato?) vice-ministro impone alcune riflessioni in quanto esprime, nella sua essenza, una scomoda verità con la quale è necessario confrontarsi.
L’oggetto di queste considerazioni non può che essere lo stato di salute della nostra Università.
Sgombriamo subito il campo dal dualismo tra le università private e quelle pubbliche. Le prime (ben poche sono, in realtà, quelle veramente prestigiose) indirizzano la loro offerta formativa a un’utenza, più che di studenti, di veri e propri clienti. I costi di frequenza sono spesso esosi, ed è chiaro il loro interesse nel “portare avanti” il maggior numero possibile di studenti. Più iscritti equivale a maggiori risorse disponibili. Non sempre, invece, la qualità dell’insegnamento in tali atenei è rapportata ai costi in maniera proporzionale, con alcune eccezioni rappresentate dai pochi istituti di eccellenza.
Ben diversa è l’analisi che riguarda l’università statale. In questo caso la carenza di risorse e di strutture è preoccupante; la mancanza di tali indispensabili elementi incide in maniera rilevante sull’attività di studio, la compromette in misura ragguardevole. L’ultima ed ennesima riforma attuata presenta gravi limiti – messi a nudo dalle rimostranze di studenti e docenti in tempi non lontani - e non pare essere in grado, in alcun modo, di condurre a un miglioramento della situazione.
L’università pubblica costringe gli studenti ad adattarsi alla propria configurazione imponendo limiti all’ingresso mentre, al contrario, dovrebbe modellarsi sulle esigenze degli stessi. Si potrebbe ottenere lo stesso esito – senza intaccare il diritto all’uguaglianza e la parità di opportunità iniziali  – operando una più rigorosa selezione non prima bensì durante il corso di studi. Tutti devono avere la possibilità di accedere, soltanto i più meritevoli devono avere la possibilità di proseguire gli studi e di ultimarne il percorso. Gli atenei pubblici sono finanziati sì con le tasse (troppo elevate) delle famiglie degli studenti, ma anche con il denaro di tutti i contribuenti. Di conseguenza non è immaginabile – non più – consentire che giovani poco motivati rimangano parcheggiati presso le università pubbliche per un numero di anni doppi rispetto alla durata del corso di studi.
I tempi sono mutati, le nuove e impegnative sfide (legate alla sopravvivenza stessa del Paese) impongono rinunce che, se anche possono apparire dolorose e ingiuste, sono però inevitabili.
Ben vengano, dunque, pungoli e incitamenti come quelli del vice-ministro Martone, al di là della forma con la quale sono espressi.     

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