Nei giorni scorsi ha suscitato clamore (e provocato cori di
indignazione e protesta da parte degli studenti) l’affermazione del
vice-ministro Martone secondo la quale “i giovani che conseguono la laurea dopo
i 28 anni sono degli sfigati”. Dove con l’espressione sfigati, naturalmente, si
intende meschini, tapini, poveretti.
Dal punto di vista del politicamente corretto una
dichiarazione di tale tenore può essere considerata senza dubbio infelice,
oltre che inopportuna, provenendo tra l’altro da un uomo delle istituzioni che
le criticità le dovrebbe affrontare e risolvere. Martone, nei giorni
successivi, si è comunque premurato di precisare che il suo appunto era rivolto
esclusivamente a quei giovani che si dedicano allo studio a tempo pieno, e non
agli studenti che affiancano tale attività a un’esperienza lavorativa.
Tuttavia la provocazione
- poiché di ciò si tratta – del giovane e rampante (e raccomandato?)
vice-ministro impone alcune riflessioni in quanto esprime, nella sua essenza,
una scomoda verità con la quale è necessario confrontarsi.
L’oggetto di queste considerazioni non può che essere lo
stato di salute della nostra Università.
Sgombriamo subito il campo dal dualismo tra le università
private e quelle pubbliche. Le prime (ben poche sono, in realtà, quelle
veramente prestigiose) indirizzano la loro offerta formativa a un’utenza, più
che di studenti, di veri e propri clienti. I costi di frequenza sono spesso
esosi, ed è chiaro il loro interesse nel “portare avanti” il maggior numero
possibile di studenti. Più iscritti equivale a maggiori risorse disponibili.
Non sempre, invece, la qualità dell’insegnamento in tali atenei è rapportata ai
costi in maniera proporzionale, con alcune eccezioni rappresentate dai pochi
istituti di eccellenza.
Ben diversa è l’analisi che riguarda l’università statale.
In questo caso la carenza di risorse e di strutture è preoccupante; la mancanza
di tali indispensabili elementi incide in maniera rilevante sull’attività di
studio, la compromette in misura ragguardevole. L’ultima ed ennesima riforma
attuata presenta gravi limiti – messi a nudo dalle rimostranze di studenti e docenti
in tempi non lontani - e non pare essere in grado, in alcun modo, di condurre a
un miglioramento della situazione.
L’università pubblica costringe gli studenti ad adattarsi
alla propria configurazione imponendo limiti all’ingresso mentre, al contrario,
dovrebbe modellarsi sulle esigenze degli stessi. Si potrebbe ottenere lo stesso
esito – senza intaccare il diritto all’uguaglianza e la parità di opportunità
iniziali – operando una più rigorosa selezione
non prima bensì durante il corso di studi. Tutti devono avere la possibilità di
accedere, soltanto i più meritevoli devono avere la possibilità di proseguire
gli studi e di ultimarne il percorso. Gli atenei pubblici sono finanziati sì
con le tasse (troppo elevate) delle famiglie degli studenti, ma anche con il
denaro di tutti i contribuenti. Di conseguenza non è immaginabile – non più –
consentire che giovani poco motivati rimangano parcheggiati presso le
università pubbliche per un numero di anni doppi rispetto alla durata del corso
di studi.
I tempi sono mutati, le nuove e impegnative sfide (legate
alla sopravvivenza stessa del Paese) impongono rinunce che, se anche possono
apparire dolorose e ingiuste, sono però inevitabili.
Ben vengano, dunque, pungoli e incitamenti come quelli del
vice-ministro Martone, al di là della forma con la quale sono espressi.
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