“Da questa donna è meglio stare alla larga” mi disse il mio
amico. Per farlo mi si era avvicinato e aveva sussurrato quelle parole al mio
orecchio. Lo osservai, perplesso. Non mi era ben chiaro il significato di tale
affermazione. Poi, con indifferenza, tornò accanto a lei, che sembrava non aver
notato quel movimento.
Li avevo incontrati pochi minuti prima, e mi avevano
invitato a prendere un caffè con loro.
In passato erano stati entrambi miei colleghi di lavoro. Con
lui, però, avevo continuato a mantenere i contatti mentre la donna non l’avevo
più vista.
Ci sedemmo al tavolo e cominciammo a discorrere del più e
del meno, rievocando quel lontano periodo di tempo trascorso a lavorare
insieme.
Notai che tra il mio amico e la collega era presente una
certa confidenza. Ridevano e scherzavano con grande complicità, c’erano tra
loro dei fuggevoli contatti delle mani. A un certo punto lei bevve direttamente
dalla tazzina dell’uomo. Un gesto innocente, che tuttavia mi turbò. Sapevo per
certo che tra i due non c’era e non c’era mai stato alcun tipo di rapporto se
non quello esclusivamente professionale. Perché il mio amico mi aveva, in
qualche modo, messo in guardia da lei appena ci eravamo incontrati? Sapeva bene
che, forse per altri molti anni, non l’avrei più rivista. Per quale ragione
allora l’aveva fatto?
Nel corso degli anni lui mi aveva parlato spesso della
collega. Quella donna era stata tante volte oggetto delle nostre lunghe
conversazioni telefoniche. Di lei sapevo praticamente tutto.
La sua vita era stata alquanto difficile. Aveva sempre
sofferto di quelli che io preferisco chiamare sbalzi d’umore. So bene che non
si tratta del termine più appropriato, tuttavia fatico a definire quella
patologia, quell’afflizione dello spirito, con il suo vero nome. Insomma, era
depressa, tanto per essere espliciti. I periodi di relativa serenità erano molto
più brevi rispetto a quelli di sofferenza. Le sue assenze dal lavoro erano
frequenti e prolungate. E quando
rientrava, spaesata e insicura, il suo sguardo era opaco, i suoi gesti lenti.
Poco alla volta si riprendeva, anche se i suoi occhi continuavano a conservare
una luce opaca. Subito dopo, improvvisa, seguiva una nuova crisi. Un paio di
volte la donna aveva cercato rifugio dalla sua affezione in territori
pericolosi e sconosciuti. Era ricorsa al consumo di sostanze che, soltanto in
apparenza, le avevano dato l’illusione di una ritrovata pace interiore. Invece per
lei era stato l’inferno, dal quale era uscita a fatica e con nuove gravi
ammaccature alla sua psiche già compromessa.
La osservai attentamente, mentre parlava con brio e
addentava un pasticcino. Era invecchiata, anche se era sempre una bella donna.
Sul suo viso si notavano a stento i minuscoli segni lasciati dai patimenti
trascorsi.
Ripensai a quando l’avevo vista la prima volta, tanti anni
prima. Ciò che mi aveva colpito di più erano stati i suoi occhi, brillanti e
luminosi, che conferivano al suo sguardo un irresistibile potere di seduzione.
Lei ne sembrava del tutto inconsapevole, non ci badava. In quel momento avevo
compreso che quella giovane sarebbe stata facilmente in grado di irretirmi, di
ridurmi alla sua mercé, e feci di tutto per evitare che ciò potesse accadere. In
qualche modo riuscii nel mio intento. Limitai al minimo i contatti, cercai di
sottrarmi il più possibile al potere magnetico del suo sguardo, fino a quando
lasciai quel posto di lavoro. Nel farlo, mi persuasi che lo scopo fosse quello
di migliorare la mia posizione professionale, fino a convincermene del tutto.
In realtà ero fuggito da lei, dalla sua possibile, anzi probabile, influenza su
di me.
Finalmente smise di parlare con il mio amico e diresse la
sua attenzione su di me. Mi rivolse alcune banali domande, alle quali risposi
in maniera laconica. Fino a quando osai incrociare il suo sguardo. Non era più
quello che avevo colto di sfuggita qualche istante prima. Dai suoi occhi si
sprigionava ora una luce strana, particolare, capace di trafiggere, di
penetrare nel mio corpo indifeso.
Mi alzai, di scatto, farfugliando che ero in ritardo, che
dovevo andare via. Loro, un po’ sorpresi, mi salutarono e mi invitarono per il
giorno dopo, alla stessa ora, nello stesso locale, per un altro caffè. Feci un
cenno di assenso, incapace di rifiutare, e mi allontanai quasi di corsa.
All’epoca vivevo da solo e, quando rientrai in casa, il mio
scompiglio mentale trovò pieno sfogo, non distratto da alcunché. Non riuscii a
concentrarmi su nulla, mi scordai addirittura di cenare. Non ricordo che cosa
feci esattamente in quella lunga e solitaria serata. Dopo, il mio sonno fu
irregolare e disturbato. Al mattino ero completamente distrutto, annientato. Mi
alzai e, come un automa, mi diressi al bar. Li trovai già seduti, mi stavano
aspettando da qualche minuto e mi accolsero con gioia. Sentivo le loro voci ma
non comprendevo in modo nitido le loro parole. Non riuscivo a sollevare gli
occhi dalla tazzina di caffè che mi era stata servita. Poi trovai il coraggio e
l’incoscienza di farlo. Fui subito abbagliato dal suo sguardo. I suoi occhi, se
possibile, erano ancor più sfavillanti del giorno precedente, da loro emanava
un bagliore capace di ottundere i sensi, di annullare ogni volontà. In quel
momento compresi di essere perso.
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