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domenica 22 gennaio 2012

LO SGUARDO



“Da questa donna è meglio stare alla larga” mi disse il mio amico. Per farlo mi si era avvicinato e aveva sussurrato quelle parole al mio orecchio. Lo osservai, perplesso. Non mi era ben chiaro il significato di tale affermazione. Poi, con indifferenza, tornò accanto a lei, che sembrava non aver notato quel movimento.
Li avevo incontrati pochi minuti prima, e mi avevano invitato a prendere un caffè con loro.
In passato erano stati entrambi miei colleghi di lavoro. Con lui, però, avevo continuato a mantenere i contatti mentre la donna non l’avevo più vista.
Ci sedemmo al tavolo e cominciammo a discorrere del più e del meno, rievocando quel lontano periodo di tempo trascorso a lavorare insieme.
Notai che tra il mio amico e la collega era presente una certa confidenza. Ridevano e scherzavano con grande complicità, c’erano tra loro dei fuggevoli contatti delle mani. A un certo punto lei bevve direttamente dalla tazzina dell’uomo. Un gesto innocente, che tuttavia mi turbò. Sapevo per certo che tra i due non c’era e non c’era mai stato alcun tipo di rapporto se non quello esclusivamente professionale. Perché il mio amico mi aveva, in qualche modo, messo in guardia da lei appena ci eravamo incontrati? Sapeva bene che, forse per altri molti anni, non l’avrei più rivista. Per quale ragione allora l’aveva fatto?  
Nel corso degli anni lui mi aveva parlato spesso della collega. Quella donna era stata tante volte oggetto delle nostre lunghe conversazioni telefoniche. Di lei sapevo praticamente tutto.
La sua vita era stata alquanto difficile. Aveva sempre sofferto di quelli che io preferisco chiamare sbalzi d’umore. So bene che non si tratta del termine più appropriato, tuttavia fatico a definire quella patologia, quell’afflizione dello spirito, con il suo vero nome. Insomma, era depressa, tanto per essere espliciti. I periodi di relativa serenità erano molto più brevi rispetto a quelli di sofferenza. Le sue assenze dal lavoro erano frequenti e  prolungate. E quando rientrava, spaesata e insicura, il suo sguardo era opaco, i suoi gesti lenti. Poco alla volta si riprendeva, anche se i suoi occhi continuavano a conservare una luce opaca. Subito dopo, improvvisa, seguiva una nuova crisi. Un paio di volte la donna aveva cercato rifugio dalla sua affezione in territori pericolosi e sconosciuti. Era ricorsa al consumo di sostanze che, soltanto in apparenza, le avevano dato l’illusione di una ritrovata pace interiore. Invece per lei era stato l’inferno, dal quale era uscita a fatica e con nuove gravi ammaccature alla sua psiche già compromessa.
La osservai attentamente, mentre parlava con brio e addentava un pasticcino. Era invecchiata, anche se era sempre una bella donna. Sul suo viso si notavano a stento i minuscoli segni lasciati dai patimenti trascorsi.
Ripensai a quando l’avevo vista la prima volta, tanti anni prima. Ciò che mi aveva colpito di più erano stati i suoi occhi, brillanti e luminosi, che conferivano al suo sguardo un irresistibile potere di seduzione. Lei ne sembrava del tutto inconsapevole, non ci badava. In quel momento avevo compreso che quella giovane sarebbe stata facilmente in grado di irretirmi, di ridurmi alla sua mercé, e feci di tutto per evitare che ciò potesse accadere. In qualche modo riuscii nel mio intento. Limitai al minimo i contatti, cercai di sottrarmi il più possibile al potere magnetico del suo sguardo, fino a quando lasciai quel posto di lavoro. Nel farlo, mi persuasi che lo scopo fosse quello di migliorare la mia posizione professionale, fino a convincermene del tutto. In realtà ero fuggito da lei, dalla sua possibile, anzi probabile, influenza su di me.
Finalmente smise di parlare con il mio amico e diresse la sua attenzione su di me. Mi rivolse alcune banali domande, alle quali risposi in maniera laconica. Fino a quando osai incrociare il suo sguardo. Non era più quello che avevo colto di sfuggita qualche istante prima. Dai suoi occhi si sprigionava ora una luce strana, particolare, capace di trafiggere, di penetrare nel mio corpo indifeso.
Mi alzai, di scatto, farfugliando che ero in ritardo, che dovevo andare via. Loro, un po’ sorpresi, mi salutarono e mi invitarono per il giorno dopo, alla stessa ora, nello stesso locale, per un altro caffè. Feci un cenno di assenso, incapace di rifiutare, e mi allontanai quasi di corsa.
All’epoca vivevo da solo e, quando rientrai in casa, il mio scompiglio mentale trovò pieno sfogo, non distratto da alcunché. Non riuscii a concentrarmi su nulla, mi scordai addirittura di cenare. Non ricordo che cosa feci esattamente in quella lunga e solitaria serata. Dopo, il mio sonno fu irregolare e disturbato. Al mattino ero completamente distrutto, annientato. Mi alzai e, come un automa, mi diressi al bar. Li trovai già seduti, mi stavano aspettando da qualche minuto e mi accolsero con gioia. Sentivo le loro voci ma non comprendevo in modo nitido le loro parole. Non riuscivo a sollevare gli occhi dalla tazzina di caffè che mi era stata servita. Poi trovai il coraggio e l’incoscienza di farlo. Fui subito abbagliato dal suo sguardo. I suoi occhi, se possibile, erano ancor più sfavillanti del giorno precedente, da loro emanava un bagliore capace di ottundere i sensi, di annullare ogni volontà. In quel momento compresi di essere perso.

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