Hai atteso, con trepidazione, per l’intera giornata. Non
vedi l’ora di incontrarla. Finalmente sei fuori, in un tiepido pomeriggio di
primavera. Percorri la strada che ti separa da lei immerso in pensieri che non
riesci a definire. Non noti nulla attorno a te, né la gente frettolosa che
incroci, né i luoghi che pure ti sono ben noti. Procedi in linea retta, come un
automa, sprofondato nell’ottusità, nella tua nitida follia. La scorgi, da
lontano, mentre percorri il viale del parco. È seduta su una panchina di pietra
e sta leggendo un libro. Così sembra. Non te ne curi, non ti importa. Se anche
stesse fingendo, se il suo fosse un soltanto un inviso atteggiamento, ciò non
avrebbe comunque alcuna rilevanza. Ti avvicini e il respiro si mozza. Combatti
contro quell’improvvisa apnea del corpo e dello spirito. La superi. Lei ti vede
e si alza. Un corpo sodo ed esuberante. Sorride. Un abbraccio, poi un rapido
scambio di fiati caldi. Mano nella mano violate le profondità di quel verde
polmone. Sempre più in fondo, camminando finché non siete i soli, gli unici. Il
tempo trascorre in fretta, parlando di tutto, discorrendo di nulla. Un saluto
frettoloso, carico di colpa, e ciò che è stato unito fino a pochi attimi prima
si separa. Su entrambi cala un sentimento di angoscia, un’afflizione che durerà
lo spazio di un giorno. Perché gli incontri quotidiani si susseguono, durante
tutta la calda estate, nel periodo in cui si uniscono i sudori; in autunno,
quando i brividi climatici si legano ai fremiti di un animo sempre più in
subbuglio. L’inverno, invece, quell’anno non arriva. Tutto finisce, all’improvviso,
così come era iniziato. Il vuoto ti travolge, ti annulla i sensi. Comincia il
tempo della riflessione. Amara e dolorosa. Tutto è cambiato, nulla è più come
prima. Né lo sarà mai più. Te ne rendi conto e questa nuova condizione ti
provoca angoscia, ti precipita in un abisso. Hai imparato a conoscerti, e ciò
che hai scoperto ti sconcerta. Sei stato smascherato. Sono affiorati i tuoi
limiti e le tue debolezze, la tua impensabile doppiezza. Vivi, ma in un altro
modo. Lasci che il tempo scorra. In apparenza, tutto sembra immutato. Viceversa
tutto è crollato, dentro di te percepisci solo macerie, infiniti frammenti che
non è possibile ricomporre.
E poi la vedi, dopo tanto tempo. Le tue cicatrici si sono
ormai indurite. Sei seduto su una panchina e stai leggendo un libro. Sul serio.
Un altro parco, un altro viale. Lei si avvicina ma non si siede accanto a te.
Tu non l’hai invitata a farlo. L’imbarazzo è fuggevole, subito spunta un
sorriso. Quel sorriso che non mi ammalia più. I suoi capelli sono sempre lunghi
e crespi, ma con qualche filo bianco. Quei capelli che amavo intrecciare tra le
dita. Distolgo lo sguardo da quelle pupille verdi.
“Come va?” dice, arrotando la erre. Che voce sgraziata,
penso. Non lo avevo mai notato.
Annuisco ma non rispondo.
“Non è ancora arrivato il tempo per parlare?” insiste lei.
Scuoto il capo e rituffo gli occhi sulle pagine del libro.
Lei sorride. Sorride sempre, lei. Come se tutto fosse
divertente, come se tutto fosse soltanto un gioco. Forse ha ragione, forse la
vita è davvero un gioco, e nulla di più. Ma io ho perso. Lei, all’opposto,
vince sempre.
Ormai rassegnata, incapace di schiodarmi dal mio ostinato mutismo, dal mio
atteggiamento indifferente e ostile, si allontana. Se ne va, la mia strega
cattiva se ne va.
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