Sono un giornalista, un
giornalista sportivo, per la precisione. Molto specializzato. Lo sport che ho
sempre seguito è il Subbuteo. Molti di voi, i più giovani soprattutto, non ne
avranno mai sentito parlare. Se siete fra questi, smettete di leggere, ciò che
sto per raccontare non vi interessa. Mi
rivolgo invece ai pochi che, come me, hanno sempre coltivato questa passione. A
quelli per i quali il confine tra la realtà e l’immaginazione non esiste. Dopo
tanti anni passati nell’anonimato, finalmente è capitata anche a me la grande
occasione. Ho avuto l’incredibile opportunità di poter intervistare quello che
è considerato il più grande allenatore di Subbuteo di sempre. Il suo nome non
vi dirà nulla, quindi permettetemi di ometterlo. In tal modo rispetterò la
volontà del mio interlocutore. Lui non ama parlare con i giornalisti, non l’ha
quasi mai fatto, neppure quando era all’apice della fama.
Ecco l’intervista, lo scoop
più importante di tutta la mia carriera professionale.
Da quanti anni non parla
con la stampa?
Sono più di trent’anni, dall’epoca del mio ritiro
dall’attività.
Già, il suo ritiro. Allora
destò un certo clamore. Lei era molto giovane. Che cosa la spinse a prendere
quella decisione?
Avevo vinto tutto, in
ogni parte del mondo. All’improvviso mi ritrovai privo di stimoli e decisi che
avevo bisogno di una pausa. Dovevo ricaricarmi, ritrovare l’entusiasmo e la
voglia di fare.
Invece non riprese più
l’attività…
No, non ho più ricominciato, anche se tante volte lo avrei voluto fare. Non mi
chieda il perché, non saprei fornire una spiegazione valida. È andata così.
Le spiace se ripercorriamo,
per i lettori, gli inizi della sua carriera?
Affatto. Rammento quel periodo con grande piacere. Ero
giovane, molto giovane, piuttosto inesperto, eppure ebbi quella incredibile opportunità
e non me la lasciai sfuggire.
Andiamo con ordine. Come ha
ricordato, lei era un tecnico giovane. Quali esperienze aveva avuto fino a quel
momento? Intendo dire, quali squadre aveva allenato?
Nessuna.
Come?
Si tratta della pura verità. Non possedevo alcuna
esperienza. Non avevo mai allenato.
Ma…
Mi rendo conto che questa mia affermazione costituisca per
lei una certa sorpresa. Finora non l’avevo mai detto. Ho sempre fatto credere a
tutti di aver avuto, prima di quel famoso incarico, delle esperienze con
squadre giovanili. Nulla di vero. Ero un semplice teorico, un giovane studioso che
non aveva mai avuto la possibilità di sperimentare sul campo il proprio
pensiero, la propria filosofia di gioco. Laszlo mi diede quell’opportunità.
Laszlo Toth! Chi era
veramente quell’uomo?
Un mecenate ungherese, con una sola grande passione: il
Subbuteo.
Come vi siete conosciuti?
Laszlo lesse un mio articolo, pubblicato su una rivista
specializzata. Sa, lui leggeva tutto. Comunque, rimase colpito da ciò che avevo
scritto. Mi contattò immediatamente e mi fece un’offerta alla quale fu
impossibile rinunciare. Pertanto, accettai, pieno di entusiasmo e…
Mi scusi se l’interrompo.
Mi chiedo perché Toth non si rivolse a qualche tecnico già affermato. In fondo,
aveva investito molto in quel suo progetto. E non poteva permettersi di
fallire. Esatto?
Certo. Tuttavia Laszlo aveva bisogno di una persona priva di
preconcetti, disposta a tutto, desiderosa di affermazione. Altri allenatori
avrebbero posto condizioni, espresso riserve sul suo disegno, determinato
difficoltà.
Mi parli del progetto di
Laszlo Toth.
Lui non lo definiva in quel modo. Si trattava più che altro
della realizzazione di un sogno, un’aspirazione posseduta fin da quando era
bambino.
Qual era questo sogno?
Ricreare la mitica Honved, la Squadra D’Oro, quella
compagine che, durante la sua infanzia, lo aveva meravigliato, aveva nutrito il
suo immaginario di bambino. Diventato adulto, e ricco, si rese conto che ciò
non era possibile. I grandi giocatori ungheresi non esistevano più, e a causa
del divieto imposto dal regime non era possibile ingaggiare calciatori
stranieri. Fu allora che nacque la sua passione per il Subbuteo. Laszlo
comprese che in quel mondo situato tra realtà e fantasia tutto era realizzabile
e vi si dedicò con il suo solito entusiasmo.
Che cosa fece?
Innanzitutto ingaggiò me e poi costruì la squadra. Lui
voleva la vecchia Honved, e alla fine la ebbe. Clonò, se così si può dire, i
vecchi giocatori e li mise a mia disposizione. Soddisfò pure un mio capriccio,
l’unico.
Quale?
Chiesi di avere Hidegkuti. Lui non aveva mai militato nella
Honved, bensì nell’MTK, tuttavia io lo ritenevo indispensabile per gli schemi
di gioco che intendevo attuare. Consideravo formidabile il suo modo di
interpretare il ruolo di centravanti arretrato. Ebbene, Laszlo mi accontentò.
E la grande avventura
iniziò…
Un’avventura pazzesca. Non mi sembrava vero di dover gestire
campioni come Grosics, Puskas e Kocsis. Confesso che fu tutt’altro che
difficile. Loro mi comprendevano al volo, quegli atleti riuscivano a realizzare
sul campo le mie idee senza che ci fosse la necessità di illustrarle in
dettaglio.
Ricordo bene. E rammento
che il capitano era Bozsik, e non Puskas come nella vecchia Honved…
Bozsik! Un giocatore incredibile, per tecnica, intelligenza
e duttilità. Quella decisione fu mia, e tutti la rispettarono. Ogni volta che
toccava la palla – che la accarezzava - i telecronisti non potevano fare a meno
di esclamare incantati: “Prodezza di Bozsik!”
Vinceste tutto…
(Sorride, per la prima
volta) Era impossibile
non farlo!
Parliamo di tecnica, e di
schemi. Nonostante i trionfi, all’epoca furono mosse alcune critiche. La
accusarono di adottare strategie di gioco non originali, in contrasto con
quanto aveva predicato – e scritto – fino ad allora. Fu tacciato di eccessivo
difensivismo…
Lei si riferisce a quanto espresso dai miei colleghi,
giudizi in gran parte dettati dall’invidia. La critica specializzata si
limitava a pronunciare elogi. Atteggiamento difensivista? Stiamo scherzando? La
mia Honved era una macchina da goal!
Su questo non c’è alcun
dubbio. I fatti le diedero sempre ragione. Tuttavia – e mi perdoni – il 5-2-3
che lei praticava non era uno schema un po’… antico?
Non lo nego. Ciò era dovuto al fatto che, in parte, mi ero
adattato alle esigenza dei miei giocatori. Loro amavano disporsi in quel modo! Vi erano abituati! Ma, al di là
della posizione iniziale sul tappeto, l’interpretazione successiva era
completamente frutto dei miei insegnamenti, delle mie idee. Loro non avrebbero
mai rinunciato alla difesa a cinque, era nel loro DNA! Ci tenevano a far
apparire il reparto difensivo come un fortino inespugnabile, e in effetti lo
era, soprattutto quando Bozsik arretrava e si poneva, come un frangiflutti,
davanti ai cinque difensori.
Però? Perché esiste un
però, vero?
Esatto. Mi concentrai soprattutto sulla fase offensiva, dal
momento che l’altra non presentava problemi. Fu lì che diedi il mio maggiore
contributo!
La può spiegare?
Certamente. Stando piuttosto raccolti, in fase di ripartenza
potevamo disporre di ampi spazi. Bozsik agiva come un perno, attorno al quale
ruotava l’intera squadra. In pratica, quando si attaccava, lui avanzava
soltanto di poco la sua posizione garantendo comunque la copertura e
permettendo agli esterni bassi di avanzare. A centrocampo si formava così,
all’improvviso, una fitta ragnatela – non dimentichi che disponevo di ben due
centravanti arretrati, Kocsis e Hidegkuti, che amavano partire da lontano – e
lo stesso Puskas poteva trasformarsi, all’occorrenza, in temibile stoccatore.
Insomma, un tourbillon in grado di disorientare qualsiasi avversario. La
tecnica dei singoli, poi, produceva un’ulteriore differenza a nostro favore.
Sembra la descrizione del
gioco dell’attuale Barcellona!
(Smorfia) Al tempo, "Pep" Guardiola era poco più di
un poppante.
Mi racconti come terminò
quella fantastica esperienza.
Con la morte improvvisa di Laszlo tutto finì. I suoi eredi
decisero di non proseguire, senza di lui nulla aveva più senso. In ogni caso,
anch’io avevo ormai deciso di lasciar perdere. Ero molto addolorato, e depresso.
Avevo bisogno di riprendermi, una pausa era indispensabile.
Quel gruppo di campioni,
tuttavia, avrebbe potuto essere messo sul mercato. Dopotutto, si trattava di un
gran valore, praticamente inestimabile.
Questo è vero. Comunque, anch’io approvai quella decisione.
Quella magnifica squadra era una creatura di Laszlo, ed era giusto che
scomparisse con lui.
Che ne fu dei giocatori?
Furono rimandati nell’universo parallelo dal quale li
avevamo chiamati. Sa, nel mondo irreale del Subbuteo tutto è possibile.
E lei?
La mia inattività non durò a lungo. In quel periodo
ricevetti numerose offerte da squadre di prestigio. Le rifiutai tutte. Ero
stanco di stare sotto i riflettori, avevo bisogno di qualcosa di meno
stressante. Alla fine accettai la proposta del Malmöe.
Una piccola squadra,
praticamente sconosciuta…
Era proprio quello che stavo cercando. Una piccola realtà,
in un Paese tranquillo come la Svezia, e una squadra di giovani con tanta
voglia di affermarsi. Una compagine con la quale fosse possibile condurre degli
esperimenti e provare a mettere in pratica interamente ciò in cui credevo.
Tutto sommato, i risultati
furono buoni…
Al di là delle più rosee aspettative. Modellai la squadra a
mia immagine e somiglianza. Si sa, i giovani sono particolarmente plasmabili.
Intendiamoci, nessuno di loro – tranne uno – era un campione. Era sempre la
squadra, l’intera squadra, a vincere, e mai il singolo.
Quella parentesi
tranquilla, e molto serena, però durò poco…
Già, ancora una volta mi feci allettare da un singolare
progetto…
L’America…
Si trattava di una vera e propria sfida. Portare il Subbuteo
negli States e farlo diventare lo sport più importante. Si voleva colonizzare –
da un punto di vista sportivo - un intero, immenso Paese! L’incredibile fu che
ci riuscimmo!
Anche questa volta con l’aiuto
di un grande personaggio.
Sì, una persona che, ai più, è rimasta sconosciuta. Quindi,
non mi chieda il suo nome, non lo rivelerei mai. Le posso soltanto dire che è
ancora vivo, e che di sicuro leggerà il suo articolo.
Ma chi era veramente questo
uomo misterioso?
Una specie di filantropo, un benefattore… non saprei in
quale altro modo definirlo.
Un altro, dopo Laszlo Toth!
(Ride) Si vede che ho la capacità di attirarli!
Qual era la sua attività?
Inutile dire che era ricchissimo e impegnato in tutti campi
economici possibili: finanza, industria, commercio, turismo e così via. Tuttavia
a me appassionava soprattutto una sua creazione, l’unica che non produceva
profitti e che testimoniava la sua munificenza.
Si riferisce al Park
America?
Esatto. Quell’enorme parco naturale, ricco di boschi, fiumi,
montagne e animali selvatici in libertà, con l’aggiunta di alcune piccole
strutture turistiche.
Chi poteva accedere a quella specie di Paradiso?
Soltanto persone selezionate da lui stesso e dai suoi più
stretti collaboratori. Per loro era tutto gratuito: vitto, alloggio ed
escursioni nella natura. Per tutti gli
altri visitare il parco era impossibile.
Si trattava di individui
particolari?
Sì, erano tutti poveri. O molto poveri…
La squadra quindi prese il
nome dal parco?
Esattamente.
Lui, il suo protettore, era
un grande appassionato di sport?
Odiava gli sport tipicamente americani, il basket, il
football, il baseball… Gli piaceva invece il calcio. Quando, trovandosi in
Europa per affari, gli capitò di assistere a una partita della mia Honved, si
innamorò perdutamente del Subbuteo. Rimuginò sulla questione per alcuni anni e
alla fine, nel periodo in cui ero al Malmöe, mi contattò.
Che cosa le offrì?
Tutto. Mi diede carta bianca. Lasciò a me la scelta dei
giocatori. Mi disse soltanto che aveva la possibilità di ingaggiare chiunque.
Si trattava soltanto di operare una selezione e quel compito spettava al
sottoscritto. Un grande onore, ma anche una enorme responsabilità. Lui ribadì
che riponeva in me la più assoluta fiducia.
Mi racconti come nacque il
Park America, la più grande squadra di Subbuteo mai esistita!
Lei è molto enfatico…
Mi creda, non ne posso fare a meno…
D’accordo, in fondo si tratta di uno dei motivi per cui ho
deciso di rilasciare proprio a lei questa intervista…
La ringrazio…
Comunque, tornando al Park America, operai le mie scelte in
breve tempo. Avevo le idee molto chiare.
Già. Perché tanti olandesi?
Erano quelli che, all’epoca, giocavano il miglior calcio. In
più, mi piacevano per la loro mentalità scanzonata. Ero sicuro che avrebbero
reso al meglio anche a Subbuteo. E fu così. I vari Suurbier, Krol, Haan e
Neeskens costituirono l’ossatura della mia squadra. Ma ritenni che la mia nuova
compagine avesse bisogno pure dell’estro brasiliano. Per tale motivo presi
Amaral, un terzino moderno, e soprattutto il grande Zico.
In realtà le scelte che
fecero discutere furono altre, e lei lo sa bene…
Si riferisce a Ralf Edström? Era stato con me al Malmöe, l’unico vero campione che avevo a disposizione nella squadra svedese. Lo portai
in America e lui mi ripagò in mille occasioni.
Non pensavo soltanto all’ottimo
Edström…
Marius Tresor fu un mio capriccio. Era stato il primo
giocatore di colore a indossare la maglia della nazionale francese: un simbolo,
ma anche un ottimo giocatore. Affiancato a Krol costituiva una coppia
incredibile. Due difensori centrali che, all’improvviso, si trasformavano in
due uomini in più per il centrocampo. Entrambi erano molto abili a impostare l’azione
e a ripartire. E poi Marius era un vero uomo da spogliatoio, in grado di
rasserenare sempre i propri compagni. Non dimentichi che il capitano del Park
America era proprio lui…
Mi parli degli africani…
Se Tresor fu un capriccio, loro due furono un’autentica
scommessa.
Kilasu e Kidumu, che
coppia!
Vero. Li aveva scoperti in Kenia un mio osservatore. In
Kenia! Sappia che credevo e credo tuttora molto nel calcio africano. Grandi
atleti, enormi potenzialità, ma tecnica approssimativa e scarsa disciplina
tattica. Con Kidumu e Kilasu lavorai soprattutto per affinare queste due ultime
caratteristiche, indispensabili per poter giocare in una squadra dalle grandi ambizioni
come il mio Park. In breve tempo ottenni risultati incredibili. Entrambi divennero
titolari inamovibili. Una specie di miracolo, dissero in molti. Invece si trattò
solamente di lavoro, impegno e applicazione.
Lei diede il meglio di sé…
La smetta con l’adulazione…
Forse si tratta di
adorazione…
Non divaghiamo. I due “gemelli d’Africa” in realtà avevano
caratteristiche ben differenti. Kidumu era il tipico attaccante d’area,
prestante e potente ma anche piuttosto veloce. Kilasu era l’esatto contrario, un
esterno d’attacco quale non avevo mai incontrato o visto in precedenza. Il
fisico esile ma resistente, la buona tecnica, il gran tiro da fuori, la
capacità di ripiegare in caso di necessità…
Kilasu, Edström e Kidumu,
un trio d’attacco formidabile!
Non c’è dubbio, tuttavia non dobbiamo dimenticare che,
dietro a loro, operavano Neskeens e Zico.
A differenza della Honved,
il suo Park America era una squadra decisamente offensiva.
Sì, si può dire che a noi interessasse soltanto la fase d’attacco.
Dovevamo vincere, e vincere sempre ma, allo stesso tempo, l’imperativo d’obbligo
era dare spettacolo. Non era importante quante reti si subivano, era importante
farne una in più degli avversari.
Spesso erano più di una…
Le folate offensive della mia squadra potevano risultare
micidiali. Cercavamo sempre di sorprendere gli avversari all’inizio. Nonostante che tutti i nostri rivali ci conoscessero bene, non erano mai in grado di opporre
una valida reazione. Quando riuscivano finalmente a riorganizzarsi, erano già
sotto di due o tre goal!
C’era soltanto un’altra
squadra in grado di competere con la sua…
Il Mr. X Team, un’altra compagine americana, la “squadra dei
polacchi”.
Chi c’era dietro?
Non si è mai saputo. Già il nome era misterioso. Si trattava
comunque di una squadra di grande valore, nata grazie a un’operazione simile a
quella del Park America. In quel tempo gli Stati Uniti possedevano le due più importanti squadre di Subbuteo del mondo intero. I nostri incontri furono memorabili.
Vertici che non sono mai più stati raggiunti.
E poi?
Tutto finì, perché nulla è per sempre. Stordito dalla
notorietà, crollai. Lasciai l’incarico, mi dedicai ad altre occupazioni anche
se mi ripromisi, prima o poi, di tornare. Purtroppo, ciò non è avvenuto.
Che cosa ha fatto in tutti
questi anni? Per vivere, intendo…
Ho fatto l’impiegato.
Non ha mai pensato di…
Ho continuato a ricevere proposte. Ne ricevo tutt’ora.
Qualche anno fa si era
parlato di un interessamento, nei suoi confronti, da parte della federazione nigeriana…
È vero. Per un po’ fui tentato dall’accettare, ma alla fine
non se ne fece nulla.
Quindi non esclude che in
futuro…
Non sono più giovanissimo, e il mondo del Subbuteo è
profondamente mutato durante tutti questi anni. Un'evoluzione negativa, purtroppo. In ogni caso non escludo nulla…
Grazie. Per me è stato un
grande onore intervistare il più grande allenatore di Subbuteo di tutti i
tempi!
(Sguardo ironico) Se lo dice lei…
Bei tempi, sono uno dei pochi fortunati ad aver assistito ad una partita dell'honved di laszlo ed il mitico mister. Una squadra impenetrabile!
RispondiEliminaBella intervista ed anche se il Subbuteo ha avuto negli ultimi anni una involuzione sono questi i tempi per ritornare ad allenare, a solcare il mitico panno verde! Buona fortuna all'allenatore piu famoso di tutti i tempi.
Un ammiratore che nel proprio piccolo ha allenato squadre, come dire, di un certo livello!