Al mattino prediligo svegliarmi presto. Si tratta dell’unico
momento della giornata nel quale posso assaporare il silenzio. Non ci sono voci
e urla, o rumori metallici di serrature che si aprono e si chiudono. Un po’ di vera
pace, sebbene di breve durata e fuggevole.
Mi alzo e mi muovo al buio, per non disturbare, per non
svegliare i miei compagni. Lo faccio per loro, ma soprattutto per me stesso.
Loro amano rimanere svegli fino a tardi, la sera, anche se non sarebbe
consentito. Parlano, e giocano a carte circondati da una luce fievole. Io non
partecipo mai. Vado a letto presto, e quasi sempre riesco ad addormentarmi
subito. Preferisco pensare, piuttosto che parlare, e il momento prima di
prendere sonno è quello più adatto per
lasciar fluire, in piena libertà, le riflessioni. La maggior parte delle persone
medita sulla giornata appena trascorsa, la ripercorre, la analizza. Poi pensa
al giorno dopo, a come potrà essere, a che cosa potrà fare. Per me non è così.
So che cosa farò domani. Farò ciò che ho fatto oggi, e ciò che ho fatto ieri.
No, le mie considerazioni riguardano tutte un passato lontano, di cui mi sforzo
di rammentare traccia. Non possiedo futuro, ma soltanto passato. Il presente,
invece, non mi interessa.
Mi alzo e uso il bagno. I servizi igienici sono separati dal
resto dell’ambiente da un muretto basso. Non c’è porta. Per una volta, l’unica
in tutta la giornata, potrò godere di un po’ di privacy. Non che mi importi più
di tanto, in un luogo dove la massima promiscuità è normale e continua,
tuttavia mi sembra di ritrovare un po’ della dignità perduta, quel decoro che
non dovrebbe essere sottratto a nessun essere umano, a prescindere dalla sua
condizione.
Guardo in alto, verso la piccola finestra. Il vetro è opaco
e sporco, la prima luce dell’alba fatica a farsi strada. Mi accontento. Nella
penombra, mi avvicino alle brande dei miei compagni.
Osservo Idriss, la sua pelle scura, il cranio lucido. Dorme
con la bocca aperta e sembra indifeso. Idriss è alto quasi due metri, ed è
grosso. In piedi può apparire come un individuo temibile, dal quale è meglio
stare alla larga. Ho scoperto al contrario che è una persona buona, migliore di
me, anche se ha sbagliato. Sull’altro lato c’è Mimmo. Un corpo piccolo e tutto
nervi. Si agita nel sonno, non trova mai pace, proprio come quando è sveglio.
Lui è malvagio, cattivo, anche se ho imparato a sopportare le sue sfuriate, a
indirizzare e a guidare i suoi frequenti scatti d’ira, a renderli meno
pericolosi per sé e per gli altri. Non avevo scelta, l’ho dovuto fare, il
compagno non si sceglie, è imposto.
Un equilibrio precario, una convivenza a volte difficile che
fino ad ora sono riuscito a reggere. Ma proprio ieri, durante la “passeggiata”,
sono venuto a conoscenza di quella cosa. Sono rimasto sbalordito. E attonito.
Eppure so che è tutto vero, quella circostanza si verificherà proprio oggi. L’inferno
quotidiano si trasformerà in qualcosa di peggio. Il mio senso di oppressione
aumenterà, la mia ansia crescerà a dismisura, non riuscirò a controllarla.
Soffocherò.
Quanto spazio occupa un corpo umano? Quale quantità di
volume sottrae agli altri in uno spazio chiuso? Mi sono tormentato tutta la
notte con queste domande alle quali non sono stato in grado di rispondere. Non
ho quasi dormito.
Avevo soltanto due soluzioni possibili, ho scelto la
seconda. L’altra la riservo per il futuro.
Torno al mio lettino. Infilo la mano nelle maglie della rete
ed estraggo il cucchiaio, o almeno quello che una volta era un semplice
cucchiaio. Un anno di paziente lavoro lo ha trasformato in un punteruolo
affilatissimo. Ne saggio la punta, il filo, e sono soddisfatto.
Riceverò in questo modo il nuovo compagno di cella, quando
più tardi di sicuro arriverà. Gli farò assaggiare la mia arma rudimentale ma
efficace. Lui sarà libero, io ne subirò le inevitabili conseguenze. Sarò messo
in isolamento, e mi ritroverò solo.
Finalmente solo, e con tanto spazio tutto per me.
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