In un primo momento non ne volli assolutamente sapere di
accettare.
Fino a quel momento, il compito era sempre stato svolto da
mia moglie. Lei è un’abile amministratrice, capace e sempre attenta a gestire
nel migliore dei modi le risorse della famiglia. Ma alla fine aveva dovuto
rinunciare, non ce l’aveva più fatta ed era stata costretta a gettare la spugna.
Seppure a malincuore, si era arresa.
La riunione fu convocata dopo cena e, a tratti, fu drammatica.
Sia mia moglie che i miei tre figli fecero subito il mio
nome. Di fronte ai ripetuti dinieghi insistettero a lungo, in maniera accorata.
Non ebbi la possibilità di sottrarmi alle mie responsabilità. Acconsentii e assunsi
immediatamente il ruolo di Ministro dell’Economia
Famigliare. Per i miei cari rappresentavo l’ultima speranza, toccava dunque a
me cercare di impedire la bancarotta, di tentare di risollevare le sorti della
malandata situazione finanziaria domestica. Un impegno gravoso, ai limiti dell’impossibile.
Il mio primo atto fu pertanto quello di annunciare una inevitabile e dolorosa
stretta, una manovra economica dura e che sarebbe entrata in vigore già a
partire dall’indomani. Non c’era tempo da perdere. Armato di un taccuino e di
una penna mi ritirai nel mio studio, vale a dire in bagno, perché uno studio
vero e proprio non l’ho mai avuto.
Seduto sulla tazza cominciai a fare un po’ di calcoli.
Attraverso la porta distinguevo le ombre di mia moglie e dei miei figli che
passeggiavano nervosamente nell’ingresso, avanti e indietro. La loro attesa era
spasmodica.
Compresi subito che sul fronte delle entrate non esistevano
assolutamente margini di alcun genere. Mia moglie non aveva mai lavorato, i
ragazzi studiavano e comunque non avrebbero avuto, ancora per molto tempo, la possibilità
di svolgere un’attività lavorativa. L’unica entrata certa era rappresentata dal
mio stipendio di impiegato che, per alcuni anni, non avrebbe avuto in ogni caso
nessun aumento.
Mi toccava quindi redigere una manovra costituita
esclusivamente da tagli alle spese.
Nell’economia di una famiglia abbastanza numerosa come la
mia, gli esborsi per il cibo rappresentano una voce rilevante. Decisi che
avremmo acquistato soltanto alimenti principali, generici – pane, pasta, carne,
formaggio, olio, frutta, verdura e così via – e non più generi semipronti o
pronti, o scatolame. Bandito per sempre il ricorso alla gastronomia e pure ai ristoranti. Rinunce terribili. Uscii dalla stanza da bagno una sola volta, quando andai a ispezionare
gli armadi di tutti noi. Troppi vestiti, constatai. Era necessario bloccare gli
acquisti di capi di abbigliamento per almeno due anni e, in ogni modo, era doveroso
utilizzare fino alla loro completa usura quelli esistenti. Un paio di scarpe
invernali e un paio di calzature estive per ogni componente, non di più.
Qualsiasi tipo di vacanza, purtroppo, abolita. Tuttavia mi resi conto ben
presto che avrei dovuto dare l’esempio. Stabilii – seduta stante! – di rinunciare
al mio unico vizio, la colazione al bar. Calcolai che, attraverso quel
provvedimento, avremmo potuto recuperare almeno cinquecento euro, somma tutt’altro
che trascurabile da utilizzare per compensare l’inevitabile aumento delle spese
fisse – acqua, luce, gas, telefono, mutuo, tasse sull’abitazione - sulle quali
era impossibile intervenire. Naturalmente toccava anche ai miei figli
contribuire con rinunce. Decisi che avrebbero dovuto fare a meno dei telefoni
cellulari. Ero consapevole dell’incredibile impopolarità della decisione,
tuttavia non esistevano valide alternative. Non tolsi invece nulla a mia
moglie. Non era giusto – equo? – farlo. In fondo era la persona che, tra noi,
più lavorava e più contribuiva all’andamento della famiglia. Rimandai anche la
sostituzione dell’auto a data da destinarsi. La macchina era vecchia, aveva più
di dodici anni, ma non eravamo nella condizione di acquistarne un’altra,
neppure usata. E la benzina sarebbe stata opportunamente razionata. L’automobile
doveva essere utilizzata solo in casi eccezionali. Feci ancora ulteriori
ritocchi al mio piano, alla mia piccola ma grande manovra poi, finalmente, mi
presentai di fronte ai miei cari e la illustrai. Mi aspettavo delle reazioni,
qualche protesta, almeno qualche mugugno, invece mia moglie e i miei figli assentirono
con aria grave. Mi resi conto che avevano capito. Per il momento, la famiglia
era salva, anche se i sacrifici che ci attendevano nel prossimo futuro
sarebbero stati molto dolorosi.
Me ne andai a letto, stremato. Nulla sarebbe più stato come
prima. Addio benessere, addio spensieratezza. Mi sentivo comunque un po’
rasserenato ma anche in parte sconfitto.
Con le decisioni assunte avrei garantito un minino di
sicurezza ai miei cari, sebbene da pagare a caro prezzo. Però una domanda mi
tormentava, mi assillava impedendomi di prendere sonno. Che cosa avevo fatto
per il mio Paese? Mi risposi che lo avevo danneggiato. Con il nostro nuovo
stile di vita avremmo contribuito a una ulteriore contrazione dei consumi,
altre fabbriche sarebbero state costrette a chiudere, avremmo avuto nuovi
disoccupati e di conseguenza le prospettive di occupazione delle giovani
generazioni sarebbero ancora diminuite. Allora formulai mentalmente un
pensiero, quasi una muta preghiera, rivolta all’attuale governo, e pure a
quelli che sarebbero venuti dopo. Fate qualcosa, permettete a me e a quelli
come me di poter contribuire ad aiutare il Paese. Distribuite in modo giusto le
risorse, date a tutti, ma soprattutto a chi è svantaggiato, la possibilità di
concorrere a salvare questa terra antica, di farle ritrovare se non il vecchio
splendore almeno una condizione di normalità, e di nuova serenità. In tal caso noi,
che l’abbiamo sempre fatto, non ci tireremo certo indietro. Amen.
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