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sabato 10 dicembre 2011

SEGNALI DI FUMO



Accadde il giorno in cui lui arrivò. Forse si trattò soltanto di una coincidenza, oppure no. Non l’avrei mai saputo. Comunque, lo vedemmo camminare in strada, seguito da alcune persone della borgata, i soliti curiosi. Lo scorsi attraverso la recinzione, lo vidi fermarsi di fronte al cancello. Il suo era un volto comune. Lui indossava una giacca stretta e corta, che forse non era neppure sua, e portava una piccola valigia di cuoio, logora, un tipo di borsa che non si usava più da tanti anni. Qualcuno disse che era un idraulico, anche se non ne aveva per nulla l’aria. Si sa, la gente parla, spesso a sproposito. In ogni modo, ci era stato “assegnato”. Lo avremmo ospitato, sarebbe vissuto con noi.
Ma tutto questo non ha importanza alla luce di ciò che accadde dopo. Però mi rimase impresso, mi colpì, anche se dovevo essere ormai abituato a quel genere di situazione. Non so che dire.
Un’ora prima mi trovavo sul retro della mia abitazione, in compagnia del mio fratellino. Lui era preoccupato. Guardava in direzione della casa di un suo amichetto, che si trovava proprio dietro alla nostra, separata da essa da un ampio prato. Era mattino inoltrato, eppure tutte le persiane erano ancora chiuse. Non c’era alcun segno di vita in quel grande edificio. Il piccolo Giorgio voleva mettersi in contatto con il suo amico, ma non sapeva come fare. Gli proposi, scherzando, di fare dei segnali di fumo. Lui, serio, rispose che non poteva farlo, perché era proibito accendere fuochi. La sua recriminazione era un’altra. Perché la sera prima non aveva pensato di lasciare al suo amico uno dei suoi walkie-talkie? In tal modo, disse, avrebbero potuto comunicare, avrebbe potuto avere sue notizie. Nessuno di noi due propose di ricorrere al telefono. Sapevamo che non funzionava, ma non avevamo il coraggio di dirlo. Guardai il cielo. Era grigio, plumbeo, un’infinita cappa che trasmetteva oppressione, che ci rendeva ancora più ansiosi. Buttai la sigaretta, mi allontanai. Giorgio rimase lì, immobile, lo sguardo inquieto, la bocca leggermente aperta. Non lo rividi più.
Più tardi mi ritrovai in strada, da solo. Notai subito che c’era qualcosa di strano. C’era tanta gente, ma tutti si muovevano con estrema calma, cercavano di capire che cosa era successo, o stava succedendo. Mi spostai da un capannello all’altro, senza però riuscire a ricavare alcuna informazione. Notai che la circolazione era interrotta. Non si vedevano più macchine transitare. Solo in quell’istante mi allarmai. I miei movimenti divennero più frenetici. Poi vidi arrivare un autobus. Le persone cominciarono a salire. Lo feci anch’io. Subito mi ritrovai pressato, con fastidio constatai che era impossibile sedersi. Né si poteva pensare di scendere. Mi rassegnai. Non sapevo dove saremmo andati, non mi importava. Poi cominciai a capire. Un uomo, un infermiere che, disse, aveva fatto il turno di notte all’ospedale, ci informò di quanto la situazione fosse grave. Tragica. Durante le ultime ore c’era stata una incessante processione verso il nosocomio. Tanta gente era entrata, nessuno ne sarebbe uscito, aggiunse ancora. Poi tacque, terreo in volto. L’ultima  parola che riuscii a cogliere, quasi bisbigliata, fu epidemia. O qualcosa del genere. Da quell’istante nulla ebbe più rilevanza. Non l’idraulico, o quello che era veramente, e neppure mio fratello e la sua angoscia. Ancor meno il cielo e tutto ciò che vi stava attorno. E questo perché, prima di sera, saremo stati tutti morti.

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